«Senza temere il corvo»: recensione a "I luoghi persi e altre poesie inedite" di U. Piersanti
È un mondo sommerso, un microcosmo intimo fitto di toponimi, di occasioni, di presenze quello che Piersanti racconta dentro questo libro, I luoghi persi e altre poesie inedite, uscito per Crocetti nel 2022 a quasi trent’anni dalla prima edizione einaudiana, un mondo che affonda le radici in un territorio definito che da Urbino si muove lungo le colline delle Cesane, che guarda da lontano il mare, che sconfina a tratti fino agli ultimi scampoli della Romagna, una piccola “patria” che racchiude e custodisce il reliquiario dei ricordi, l’infanzia, la carne degli avi che ancora riposano sotto quella terra.
Potrei soffermarmi ora su cosa abbia spinto Piersanti a ripubblicare quella raccolta, per quanto cruciale e imprescindibile nel suo percorso poetico e su tutte le potenziali insidie che un’operazione come questa porta inevitabilmente con sé, ma preferisco partire da fuori, muovere da quel gruppetto di poesie inedite che chiudono il libro, cercare proprio lì la ratio di questa pubblicazione, riflettendo proprio sulla persistenza e sulla vitalità di quegli elementi così cari a Piersanti.
La «casa scura del Valubbio», dalle cui crepe nei muri escono voci e pianti, dove i fantasmi prendono vita, dove il fuoco si accende sollevando un fumo denso e acre, quella casa è qui il simbolo di un passaggio, di un ritorno, di un riappropriarsi senza più timore di un passato perso, di un riandare a quel mondo sepolto che pareva ormai lontano. Allo stesso modo i tetti di Urbino di quel 28 agosto 1944, il giorno della liberazione per la città marchigiana, con la vista aperta verso le Cesane, gettano uno sguardo sulla storia e sui luoghi, tracciano una linea che ci riporta a quella piccola geografia privata che quel libro di Piersanti, sottratto all’oscurità dopo decenni, aveva così profondamente indagato. Le poesie inedite sono allora un ponte che ci immette nuovamente nel circuito dei «luoghi persi», indicandoci un sentiero alternativo, un passaggio diverso per ritrovarli.
Perché allora disigillare quel reliquario, riaprire quel calderone se quei luoghi erano “persi”, già trent’anni prima, e la parola di Piersanti ne aveva celebrato la vita nel momento stesso in cui ne decretava la morte? La risposta è tutta in quel verbo che ricorre nella prima sezione del libro – che, non a caso, si intitola Per tempi e per luoghi – in quel “perdurare” che ci dice come nulla sia mai veramente passato e tutto sopravviva o continui a vivere in qualcos’altro. La terra, quella su cui si muovono i personaggi di questo libro, ormai ridotti a ombre, quella che ha accolto le figure familiari del poeta, quella che ingrassa e alimenta quell’universo di piante, di fiori, di cespi che a tratti quasi invade la scena e cancella ogni presenza umana, quella su cui si agita il mito, è una terra eterna, immortale che non è solo rievocata nostalgicamente, ma che esiste prima di noi e ci sopravvive.
La forza della poesia di Piersanti in questo libro, come altrove, sta proprio nella dialettica che il poeta riesce a innescare tra elementi diversi: il racconto, la narrazione e il lirismo che non si annientano, ma si compenetrano; l’eternità della Natura e la finitezza dell’uomo; il linguaggio aulico, colto, sublime e quella lingua arcaica che rasenta il parlato, il dialetto che salta fuori da quella terra e si armonizza con il dettato, con la lingua poetica evocativa ed esatta di Piersanti.
Se Piersanti ha bisogno di entrare dentro quella vegetazione, di darle voce, esplorando il catalogo delle piante che animano quel mondo, se sente la necessità di penetrare in profondità quella terra, andando fisicamente e simbolicamente “in fondo al fosso”, è forse nei primi versi, in quei “tempi” e quei “luoghi” della prima sezione, che si annientano le distanze, che la sua geografia si ricuce a una geografia universale che appartiene a tutti, che il dialogo tra presente e passato si risolve e tutto diviene eternamente presente.
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