«Rannicchiato in uno scavo»: recensione a "Dall'intramata tessitura" di Enrico De Lea
Dall’intramata tessitura è il titolo di questo libro di Enrico De Lea, uscito già qualche anno fa per le Edizioni Smasher: un titolo, ripreso da un verso della prima sezione, che certo contiene e racchiude in sé tanto del significato di questa raccolta e tanto della scrittura del poeta. Sarà perché quest’espressione, tirata fuori dal suo contesto, possiede un’indubbia ambivalenza linguistica, tanto da poter essere intesa sia come attributo – un attributo che già ha a che fare con una materia fitta e difficile da districare – sia come un complemento di moto – o ancor meglio, di origine o provenienza – sottintendendo una qualche forma di movimento che dall’interno, o dal basso, si agita, cercando, ancora una volta, di sdipanare una matassa aggrovigliata e confusa. Oppure sarà perché quel coacervo di consonanti che incastrano il lettore fin da principio lascia presagire la bravura con cui il poeta impasta la lingua, lavora la sintassi in una dialettica costante tra la parola e la materia che quella parola deve raccontare. “Trama” e “tessitura” sono due termini visceralmente connessi fra loro, eppure l’incastro tra quei due elementi ci parla di una “tela” che si infittisce, che diventa oscura, una tela che minaccia di catturarci e avvilupparci e allora la lingua poetica deve esercitare uno sforzo più deciso, un movimento più netto per riportare le cose alla luce, per farle riemergere. Una tela densa e al tempo stesso stupefacente, un ordito dalla bellezza rara e “catturante”, questo libro di De Lea che, a dispetto dell’apparente sproporzione tra le sue parti, sa armonizzare, attraverso una fitta rete di rimandi, quella prima e granitica sezione, che quasi possiede lo status di libro autonomo, e le altri, brevi o brevissime, che la seguono. E se la prima appare quasi come un pometto smontato e ricostruito – sulla base del senso e delle parole chiave, e non sulla scorta della struttura – le altre sono schegge che in qualche modo si dipartono da quel microcosmo, sotterraneo e quasi asfittico, alla ricerca di un’apertura, di una luce, di un’illuminazione. Ne sono una riprova gli splendidi versi degli Scavi tra Vernà e marina in cui il poeta scrive «L’occhio divora tutto, non ha testa / ma sangue del possesso, verso il mare. / Non la parola, ma un lento procedere /dello sguardo, quasi un adorare», in cui si compie, finalmente il miracolo della vista, e lo sguardo pare essersi definitivamente liberato da quella congestione che lo soffocava, così come il mare che finalmente si palesa e il vento, l’aria che smuovono l’immobilità di quel paesaggio cristallizzato.
Un miracolo che si realizza, proprio quando il gesto del poeta si compie e la necessità di rappresentare e di definire, in qualche modo, si fa concreta. «Traccio dei volti sopra certe rocce» scrive e, nonostante riconosca la «debolezza» di quella «vista», è capace di discernere «sopra un paesaggio di radici, il mare». Ecco, appunto, il paesaggio e le radici, perché per comprendere questa “liberazione”, se così la si vuole definire occorrerà fare un passo indietro e guardare proprio a quel mondo evocato nella prima corposa sezione della raccolta. Anche qui il titolo, con la sua sottile vena ossimorica, dice tantissimo: quei Neri e gaudiosi lumi in valle racchiudono in qualche maniera la vita – una vita che ormai pare sepolta e rinchiusa – e la morte – «lumi notturni come una corona cimiteriale» – mentre quella valle unifica e accoglie, quasi li chiamasse a raccolta, tutti gli elementi di quel mondo disperso che sopravvive solo nel suo isolamento.
Un piccolo cosmo, brullo e petroso, dominato da ruderi solitari, in cui però la terra accoglie i semi e le radici del tutto, in cui anche la vigna immobile trattiene un pezzo di noi, un mondo atavico e avito, dove l’ombra dell’appartenenza è affidata alle voci terrose dei padri, quasi irriconoscibili, e i nomi sbiadiscono e affondano, quasi fossero attratti verso il basso da una forza oscura che li chiama dal profondo. Un mondo tanto indefinibile che anche l’io del poeta, chiamato a raccontarlo, si eclissa in favore di un “noi” corale e indistinto e dove il ritmo degli infiniti ci dice proprio quella fatica di esprimere, quasi la lingua tentasse disperatamente una via d’uscita da un labirinto insondabile. Una sintassi tragicamente ripiegata su sé stessa, scalfita solo dalle invocazioni, dalle voci che chiedono insistentemente un’ascensione, una risalita, una palingenesi forse, o forse una piena che possa far esplodere quell’acqua sotterranea che scorre lenta nel fondo della valle.
Ecco che proprio quell’acqua si raggruma e ritorna lentamente vita fuori dai confini di quella realtà claustrofobica, che si tramuta in “neve”, e con lei tornano i nomi, le persone e le occasioni – come il nonno che «stava / rannicchiato in uno scavo», quasi a voler riportare da quella profondità nuove tracce di una vita che erano andata smarrite – ecco che arriva il mare con la sua luce, come già si diceva, ecco che torna l’io del poeta che, finalmente, ha ritrovato la voce e può restituire movimento a quell’immobilità che lo aveva paralizzato.
C’è cioè in fondo a questo libro una rappresentazione cangiante di quello che è il gesto del poeta, che non è, e mai dovrebbe essere, un semplice ritrattista, un trascrittore di quella realtà che ha di fronte, ma un artigiano che armato della sua parola e del suo sguardo, e le due cose non andrebbero mai scisse, è disposto ad affondare e scavare alla ricerca della sorgente. Di questo De Lea è ben consapevole e la sua lingua, la sua parola, il suo verso portano addosso tutta la fatica di quello scavo e ce la mostrano in tutta la loro disarmante e abbacinante bellezza.
Enrico De Lea (‘58, Messina), vive in Lombardia. Raccolte poetiche: Pause (1992, Edizioni del Leone), Ruderi del Tauro (2009, L'arcolaio ed.), Dall'intramata tessitura (2011, Ed. Smasher), Da un'urgenza della terra-luce (2012, Ass. La Luna, nella collana diretta da Eugenio De Signoribus), Suffragi del bianco (2014) e Sarmura (2015), per Officina Coviello- Milano, e La furia refurtiva (2016, Vydia editore). E’ apparso sulle riviste Wimbledon, Specchio (de La Stampa), Sud, Atelier, Tuttolibri, Registro di Poesia, Caffé Michelangiolo: nelle antologie “Poesia di strada - Licenze Poetiche” – Vydia, 2011 - Seri Ed., 2018), e Parabol(ich)e dell’ultimo giorno – per Emilio Villa –– DotCom Press edizioni, 2013. Presente in rete, fra gli altri hanno scritto di lui Sebastiano Aglieco, Nadia Agustoni, Viola Amarelli, Giorgio Bonacini, Laura Caccia, Davide Castiglione, Giacomo Cerrai, Anna Maria Curci, Federico Francucci, Michele Ortore, Alessandra Pigliaru, Rosa Pierno.
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