«Quanti giorni bruciati sull'altare»: recensione a "La macchina del tempo" di Raffaele Floris
Esiste da sempre nella poesia di Raffaele Floris un senso di sospensione, di immobilità, quasi la parola avesse il potere di congelare le cose, di bloccarle, un senso che si percepisce anche in quest’ultimo libro, La macchina del tempo, uscito per Puntoacapo editrice nella primavera del 2022. Certo l’espressione “macchina del tempo” pare alludere a un movimento, a un andare a ritroso per recuperare momenti di vita vissuti, a un ritornare indietro in un passato che si vorrebbe ancora presente, come d’altronde sembra dirci il testo posto a chiusura di questa raccolta in cui, per finzione – o per un «trucco», come scrive il poeta – per un attimo si rimettono insieme i frammenti di una sera di marzo: il vestito grigio, il pacchetto di sigarette sul cruscotto.
Eppure quella macchina, di cui parla Floris, sfugge a una definizione certa, trascende l’idea un po’ fantascientifica del congegno che ci consente di viaggiare nel passato, o nel futuro, e si carica di nuovi significati: il tempo stesso è una macchina che con il suo meccanismo rugginoso, inghiotte poco a poco tutte le cose, le divora, una «infinita voragine» in cui scivoliamo nostro malgrado giorno dopo giorno, e allora serve una macchina che il tempo lo fermi, che lo trattenga, che ci sospenda e sospenda tutte le cose in una dimensione eterea, irreale.
Ecco l’immobilità, che non è stasi, ma una sorta di fermo immagine che azzera il logorio del tempo, la corrosione, un’immobilità che trova un corrispettivo esatto nell’immagine della pianura, tanto presente e persistente nell’immaginario poetico di Floris da sempre, una pianura che sconfina nel nulla, che la nebbia paralizza, che le gore e i canali solcano con il loro moto lieve, impercettibile, una pianura che la piena minaccia con il suo fragore e che occorre custodire, preservare. Quel paesaggio familiare, e al tempo stesso allusivo, assurge così a simbolo di una condizione e la neve che cade senza requie si fa strumento capace di fermare il tempo, di restituire nuova vita, così come gli alberi spogliati dall’inverno che rifioriscono in primavera. Un paesaggio fatto di cortili, di campi, un paesaggio in cui la presenza dell’uomo si fa marginale, rarefatta e sono invece le piante a prendere il sopravvento – i salici, i gelsi, l’ibisco, le rose rampicanti – o i lupi, le volpi, i pipistrelli che abitano quella natura e si rivelano solo a tratti e per frammenti.
La poesia di Floris mostra una fedeltà incrollabile a quel sistema che ha sapientemente costruito negli anni, a un alfabeto personalissimo che si regge su un equilibrio costante tra una dimensione materiale, fisica, quasi materica e un qualcosa di etereo, di volatile – «un po’ di terra, un po’ di cielo», come titola l’ultimo testo del libro – cadenzato dal ritmo ostinato degli endecasillabi che paiono quasi cercare di dare un ordine a una materia, com’è la nostra vita, per natura magmatica, sfuggente. Però in questo libro si misura uno scarto più netto rispetto alle raccolte precedenti, e quel paesaggio anonimo, per quanto intimamente riconoscibile, si apre a una nuova geografia, a toponimi che rivelano capitoli oscuri della storia contemporanea, morti, stragi, uccisioni – e si pensi a Damasco, Kabul – che sembrano irrompere nella quiete irreale del paesaggio consueto a sgranare un rosario dolente di lutti.
Una svolta civile all’apparenza, un aprirsi dell’io e del suo mondo al mondo che esplode fuori, un riconoscersi tragicamente in una storia collettiva che ci riguarda in qualche modo tutti, o forse una presa di coscienza, quella del poeta che sa che non potrà arginare l’erosione del tempo, l’andare delle cose, ma che ha il dovere profondo di raccontare tutto quel vuoto, prestando la sua voce a chi non ha voce per parlare.
Raffaele Floris è nato a Pontecurone nel 1962, ove vive tuttora. Sue poesie sono apparse nella rivista La clessidra e nell’antologia Poesia Alessandrina (Novi Ligure 1999). È incluso nell’Antologia della poesia in Piemonte e Valle d’Aosta (puntoacapo Editrice, Pasturana 2012) e nell’Antologia della poesia in provincia di Alessandria (ivi 2014); in vari blog e riviste letterarie, tra cui: www.larecherche.it, www.ladimoradellosguardo.it, https://alfredorienzi.wordpress.com/. Dal 2013 è membro della giuria del concorso G. Gozzano – A. Monti di Terzo (AL). Recentissima è invece la sua collaborazione con l’International Web Post con le rubriche PROPOSTE DI LETTURA e Rileggendo POESIA. Pubblicazioni: Il tempo è slavina, ed. Lo Faro (Roma 1991) – silloge poetica; L’ultima chiusa, ed. Joker (Novi Ligure 2007) – silloge poetica; La croce di Malta, puntoacapo (Pasturana 2013) – romanzo breve; L’òm, l’aşi e ‘r pulóu, PiM ediz. (2016) – detti, proverbi e filastrocche in dialetto pontecuronese, con cenni di grammatica; Mattoni a vista, puntoacapo (Pasturana 2017) – silloge poetica; Senza margini d’azzurro, puntoacapo (Pasturana 2019) – silloge poetica.
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