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Immagine del redattoreAlessandra Corbetta

«Per esorcizzare la notte»: recensione a Né padri né madri di Marco G. Maggi

Dopo due raccolte poetiche (l’esordio Punto di fuga per Puntoacapo del 2014 e Il quadrato delle radici, Ensemble, 2018) Marco Maggi si misura con l’impegno del poemetto e pubblica nel novembre 2020 con Ladolfi Né padri né madri.

Lavoro intenso quanto urgente, l’opera riprende alcuni temi chiave dell’autore (i rapporti familiari e le età della vita, la realtà sociale, il tempo, la sua scrittura «al neon» — luce d’antan citata qui come nella poesia che dà il titolo alla precedente silloge — ) e li riorganizza in una struttura organica e compatta, coerente nel disegno e a forte tenuta stilistica su registro medio e lessico attuale, dove le redini della sintassi danno misura alla strofa e ritmo al verso. Un gioco di anadiplosi crea irregolari esiti di coblas capfinidas che legano la forma al concatenarsi dei contenuti con grande leggerezza.

Scorrono così, in lettura snella e contenuti densi, le tre parti del poemetto in cui l’ «io» poetico, con il pretesto del recupero di un diario, misura gli esiti dei suoi sogni di ragazzo e, rialzandosi dalla delusione storica che abbraccia un «noi» di «uomini vuoti» eliotiani, li richiama a una rivoluzione epistemologica antiscientista, anticonsumistica, ecologica, finalmente antropocentrica.

La prima urgenza è denunciare i mali del presente, il «progresso diventato regresso»: streghe danzanti sulle paure e sul qualunquismo ammantano di inutilità e sterile rimpianto le idee di giustizia e uguaglianza del passato e nutrono il futuro di speranze illusorie. Ci lasciano «Né padri né madri» quindi per l’infertilità del passato e del futuro, «orfani» di un presente alienato, disorientante, inautentico. Notevole l'intreccio che permette all'autore di spaziare su molteplici macrotemi di attualità, senza sbavature nella consequenzialità logica (fra i tanti lo sfruttamento del pianeta e del lavoro, la tragedia dei migranti, l'indifferenza, la fede puerile in un dio consolatorio o nelle proprie certezze). Il tono è severo, nelle similitudini il migliore amaro sarcasmo.

Dal diario alle musicassette anni Settanta, nella seconda parte la memoria riscatta il passato: ne recupera i valori e lo proietta su un trampolino di speranza per «noi, orfani del quieto vivere», disorientati dal silenzio comunicativo prodotto da raffiche di banalità. Gli ideali hanno frantumato il loro carattere programmatico e visionario in mille «idee» a loro volta «modellate per ogni occasione», relativizzate. Essi dovrebbero invece percorrere come allora la via del dialogo, l’apertura all’alterità che pirandellianamente smascheri il teatrino occidentale plutocratico e «irrisolto», curi la miopia eurocentrica; dovrebbero reinsegnarci ad «abitare il mondo».

Lo svuotamento di senso degli ideali e dei valori viene severamente imputato da Maggi non solo alla Storia, ma anche alla letteratura contemporanea con foscoliana rabbia: il romanzo si lascia mercificare, i poeti annaspano, si asservono come «aedi alla mensa dei Proci». L’autore non vede in loro la soluzione (o almeno non esclusivamente in loro) in quanto vittime e carnefici del decadimento culturale.

Entra in scena l’Amore, svela un poco la visione, ma non si dà come semplice risposta: viene in primis problematizzato, rovesciato nella sua liquidità baumaniana su tutte le età della vita, sui rapporti familiari, di coppia, sui figli (sempre Maggi si sofferma sul proprio ruolo di padre), sulla παιδεία, sulle prospettive dei millennials, sui «vecchi […] superati da un presente che gira troppo veloce». Interessantissime a questo punto le considerazioni sulla libertà, che nell’anziano si contrae insieme alle sue abilità in ragione della dipendenza dagli altri e in tutti è tenuta all’arpione dall’interesse di pochi.

L’Amore dicevo non è risposta scontata, esso è innesco e punto d’arrivo, ma l’appello che il poeta rivolge è a quel «noi», tutti egualmente inclusi, per una svolta antropologica. Uno sforzo intellettuale collettivo che muova dall’ascolto autentico della natura e dallo scavo interiore di ciascuno e «rimescoli occasioni e desideri», un cambio epistemologico che dipinga «il mondo con nuove tinte», ridefinisca i concetti stessi di Verità e Amore e con slancio epistolare dantesco li spedisca in cartolina affrancata «ai quattro angoli del mondo».

Maggi stesso nell’introduzione omaggia i propri riferimenti culturali senza frontiere di tempo né di nazionalità, mostra la propria attenzione al reale, alla letteratura novecentesca di testimonianza e di denuncia, al disorientamento che ha attraversato le Arti del sec. XX. Reagisce alla nausea e al nichilismo con una visione di speranza. Pennellate di verde allegorico, pallide in incipit poi più decise, accompagnano il lettore a questo monito ottimista, candido nelle intenzioni (anche il bianco è ricorrente nelle immagini) come i sogni dei giovani: non ci si potrà più dire «orfani» di ciò che oggi manca, appiattiti sulla menzogna, se si sarà assunta una responsabilità genitoriale nei confronti del Pianeta e della dignità dell’Uomo. Si rischia di ritrovarsi «né padri né madri» se non si risponde a questo appello con un personale impegno concreto e coraggioso; quindi anche il lettore è chiamato in causa, incluso nel «noi» collettivo, sfidato alla ricerca, a una collaborazione fattiva che non demandi ad alcuno questo dovere impellente «per allontanare la morte / per esorcizzare la notte».



Nasciamo orfani senza saperlo

figli di un tempo glabro e sterminato,

predestinati a compiere lo stesso viaggio

con appresso un bagaglio fragile

di rimpianti e di illusioni

attendiamo la resurrezione

nel re-incanto del nuovo mondo.

(Parte I, incipit)


*


Abbiamo un credito col passato

mentre il futuro resta qui e aspetta:

è una spiga di lavanda schiacciata

tra le pagine incartapecorite

di un libro mai aperto,

che pare proprio non volere accadere,

sprofondato nell’abisso dei valori

attende un segnale di risveglio

pubblicizzato su tutte le réclame

come l’effetto d’un esperimento tricologico

per la ricrescita miracolosa dei capelli.

(Parte II, p. 30)


*


Guardando giù dalle scale

che si arrampicano fino al cielo

sembriamo tanti chicchi di riso

gettati sui sagrati ai matrimoni,

davanti all’imponenza delle cattedrali,

le nuove chiese sono i luoghi della finanza

- i loro rosoni, quasi fauci spalancate

sempre pronte a divorare anime -

che spacciano porzioni d’infinito

quasi fossero villette di paese.


Ma ci sono chiese dai volti tumefatti,

costruite sul coraggio,

inerpicate sulle vette di un puro atto di fede

[...]

(Parte III, p. 35)


*


Ascoltando le foglie che cadono

e cadendo graffiano l’aria

riscopriamo il tempo per rimescolare

le occasioni e i desideri,

il tempo delle stagioni e delle costellazioni,

corriamo a comprare i francobolli

per affrancare cartoline

con una nuova idea di verità

da spedire ai quattro angoli del mondo.

(Parte III, p. 40)


Marco Giovanni Maggi (Tortona, 1968) è di professione imprenditore e vive in provincia di Alessandria. Per la poesia ha pubblicato Punto di fuga, (Puntoacapo Editrice, Novi Ligure 2014), e la silloge Il quadrato delle radici, (Edizioni Ensemble, Roma 2018), quest’ultima presentata al Festival Parole spalancate (Genova). Suoi testi sono stati selezionati e pubblicati online su L’Estroverso, Bibbia d’asfalto, Il Babau, la rivista Euterpe oltre che su I Quaderni di Èrato. È stato selezionato per la pubblicazione nelle antologie Il fiore della poesia italiana e Il fiore delle lacrime.


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