Nota di lettura a "Visite notturne" di Stefano Simoncelli
Aggiornamento: 24 set
Entrare in Visite Notturne di Stefano Simoncelli (peQuod, 2024) richiede di varcare un confine delicatissimo per poter accogliere tutte le parole e le loro ripercussioni emozionali. Simoncelli non è un poeta da artifici retorici e proprio per questo si conferma un maestro: i versi sono sempre privi di prodezze immaginifiche, arditi giochi fonetici o costruzioni verbali studiate a tavolino; è un poeta che scrive con il cuore nudo, chiama ogni cosa con il proprio nome. Le visioni sono potenti perché hanno il coraggio della sincerità e ogni sillaba custodisce una verità propria e altrui. Solo con lo stesso cuore disarmato, forte e fragilissimo, bisogna ricevere la sua poesia. E da questa esserne inevitabilmente trafitti. Il libro si muove tra le ombre del passato e del presente con un sentire vivo e profondissimo, alla ricerca di un’Euridice che non tornerà, e nemmeno potrà mai andar via del tutto. «Alcune cose che davano senso alle strade / dove ci abbracciavamo si sono nascoste / da un’altra parte per non guardarmi.»; «Non hai mai tregua questa tua pendolarità / senza sosta tra l’andare e ritornare notturno».
Come il topos della catabasi richiede un sacrificio (l’anima del defunto può parlare solo se beve il sangue di un animale sacrificato), così l’uomo rivede l’amata, la sfiora, le parla in queste visioni notturne, a scapito della propria quotidiana disperazione. È la morte che chiede il suo obolo di vita. Ma è un sacrificio consapevole, poiché in questo mondo-altro i due si ricongiungono con la stessa intimità del passato, nella trasfigurazione dei luoghi che si fanno parlanti, indicatori della “stranezza” tipica del sogno quando ci fa capire che siamo e non siamo allo stesso tempo, sospesi nell’angolo misterioso del ricordo e dell’emozione. Il sentimento della mancanza qui si fa unico veicolo di un’operazione estrema: vivere ugualmente trovando nei gesti del dolore e nella liturgia degli oggetti della perdita, una quotidianità nuova che proprio nell’assenza, nel vuoto muto e disarmante, trova una nuova voce. L’amore travalica le finitudini. La parola del poeta è, qui, la parola del naufrago che ricompone una geografia del cuore per poter, in qualche modo, tornare a casa. Diverso egli stesso, diversa la casa (chi mai, al ritorno, trova la stessa Itaca?) si muove in questo percorso tra le ombre, se non per vedere la luce, quantomeno per salvarne il ricordo e avere la possibilità di coltivarlo, con la poesia, nella culla profondissima del cuore. Seguendo una strada che si snoda attraverso le ultime tre pubblicazioni – insieme, quindi, a Sotto falso nome, peQudod, 2022 ( finalista al Premio Strega Poesia ) e l’autoantologia Stazioni remote, Marcos y Marcos, 2023 – Simocelli chiama a sè tutti i suoi fantasmi e alla morte, dentro la morte, con la fragilità e la forza di un uomo che ama, porta una parola che risponde sempre con la vita.
Niente dormire, niente bere, mangiare,
sigarette finite all’alba e le finestre
sbarrate guardano all’interno
l’assordante silenzio postumo della casa.
Da ore sono chiuso qui dentro ad aspettarti.
Dove ti sei nascosta? Dietro le tende a spiare
le barche nella spenta risacca della notte?
L’ultima volta indossavi una sottoveste
nera con un grande livido sulla gola.
«Non guarirò più» mi hai confidato
«e non andremo mai più a passeggiare
tra le querce che ci scendevano addosso».
«Non guarirò nemmeno» io ti ho risposto
*
Non ha mai tregua questa tua pendolarità
senza sosta tra l’andare e ritornare notturno
come se fossi passeggera in uno di quei treni
Che traversano l’alba diretti verso gli addii
che custodisco nel cuore. In un tramonto
ti ho vista dal finestrino di un intercity
che mi salutami con la mano. «Dove vai?»
ho urlato. Hai sorriso e non hai risposto.
Un lampo e sei sparita. Non c’era tempo
come quando guardo da una finestra
strade e vicoli dove abbiamo camminato
o studio le ombre sui muri, sotto i portici
e sulle banchine abbandonate delle darsene.
Ritorno sempre in tutti i posti dove siamo stati,
ai giardini al mare, nella piazza dei marinai defunti
al faro, sugli scogli dove salgo e non ho più paura.
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