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Immagine del redattoreSara Serenelli

Nota di lettura a "Viaggio incolume" di Tomaso Pieragnolo

Non appena si varca la soglia di Viaggio incolume di Tomaso Pieragnolo (Passigli Editori, 2017), si inizia con un tentennamento, si vaglia la possibilità di arretrare, si rimane per qualche istante fermi a rimuginare sull’uscio. Il titolo in copertina prometteva altro: non saremmo dovuti partire per un viaggio e tornarne illesi, indenni, intatti…incolumi? Sin dai primi versi concitati si avverte che questa non è una raccolta che lascia chi la sfoglia come lo aveva trovato. E a fronte di quella esitazione iniziale, continuiamo a leggere e a leggere d’un fiato perché la sinfonia orchestrale dai movimenti ampi e articolati ci attrae come un canto di sirene, una sonata con la quale procedendo impariamo a sentirci in sintonia: i versi iniziano a vibrare all’unisono con noi, a battere un tempo che riusciamo a seguire, come qualcosa che riviene alla mente, un cantico che abita in noi da sempre ma che, per qualche motivo che ci è oscuro, avevamo dimenticato. E allora lo straniamento del primo incontro lascia il posto a un senso di pienezza e di allineamento che ci concede il tempo di arrivare, di penetrare, di essere nella poesia. Le dinamiche della scrittura e la particolare e attenta costruzione dei versi di Pieragnolo rappresentano di certo gli elementi di distinzione più interessanti della sua raccolta che si potrebbe non a fatica definire come un poema in versi, che fluisce incessante da componimento a componimento in un discorso poetico che non si interrompe mai, anzi riparte sempre e sempre nuovo da dove sembrava essersi concluso. La migrazione e la ripresa di versi, parole, immagini chiave da un momento all’altro, da un testo all’altro dell’opera (spesso dalla chiusa a un incipit successivo) costringono il lettore a procedere senza arrestarsi, a non porre intermezzi al gesto poetico rinsaldando una struttura che per altri aspetti invece si presenta come diversificata e aperta. I versi arieggiano ampi, caratterizzati da una grande varietà ed eterogeneità di accenti e battute che dettano un ritmo che sembra rispondere perfettamente alle esigenze del nostro respiro, ai colori della nostra voce. Un canto ora attenuato, quasi bisbigliato, a voce fioca, commosso, ora tenuto a gran voce, scandito con energia, a tratti convulso. Le parole si mescidano irriconoscibili alle immagini fervide e sfolgoranti, scuotono il libro come fossero indomabili acque che incontrano il fiume al termine di una cascata. A caduta piovono i versi veloci e pericolosi come sassi, mentre le visioni delle immagini poetiche e la sonorità del dettato straripano ben oltre il rigo e ci investono. Tutto straripa: il componimento non si ferma in sé stesso, straborda oltre, si rompe il muro del suono, le figure poetiche fioriscono l’una sull’altra, si accavallano, si accatastano senza però mai confondersi tra loro. Un folto di presenze, un esubero di presenza: un bestiario ricco di animali d’ogni genere, piante e alberi, luoghi imprecisati, il richiamo a creature mitologiche, le stagioni, gli oggetti più svariati. Quasi a voler accogliere e raccogliere con la poesia il mondo intero per mezzo di una fecondissima pulsione immaginativa che reca il carattere di una visionarietà. Una visionarietà tuttavia, si badi, che non rinuncia a consegnarci fatti tangibili. La solennità, finanche la sacralità (non religiosità, lo sottolineo) dei movimenti e delle evocazioni poetiche trasferiscono sempre, alla fine, nella vita e alla vita ineriscono, al suo senso più profondo. Evocazione e figura che paiono costituirsi come solide fondamenta per articolare il dettato e che concorrono a saldare l’intreccio insolubile tra le immagini e le fila del racconto: figure che ora avvitano ora sfaldano. Horror vacui verrebbe da dire ma solo precisando che in questa abbondanza non c’è nulla di enfatico o ridondante. Non sono orpelli messi a mo’ di ornamento, le parole non lustrano un guscio vacuo. Dentro c’è la complessità dell’esistenza, dello stare nel mondo, dello starci con il corpo e con i pensieri, c’è il nostro esserci in divenire. A reggere in piedi questo potente apparato due umani: un lui, l’io poetante, e una lei, «ragazza / con l’augurio in primavera», «genitrice della terra» che «apprende dalla vita la scintilla». Distanti in principio, diventano poi sempre più vicini tanto che l’amore che li lega si fa dogma in cui credere, l’unico forse in cui sperare («Tu sei per me il più antico dogma amore»; «Lo amerò / per tutto il tempo che rimane»; «ma tu / vedrai per me oltre la vita»; «che amore / può per sempre ribaltare le certe asprezze / di un pianeta in dissolvenza»), autentica dedizione che restituisce significato alla vita altrimenti svuotata («in forse questa vita è solo viva»; «ma in fondo / questo viaggio è per viaggiare»; «è un viaggio / con il reso sulle spalle»). È un inno il loro all’amore e alla vita stessa, alla forza rigeneratrice della memoria del passato che sembra nel corso della raccolta vivificare il presente. A dare forza e avvio alla poesia spesso sono proprio i ricordi di lui o di lei, i loro pensieri o i loro ragionamenti che si configurano come veri e propri paesaggi psichici e interiori, aggiungendosi alla grande ricchezza di paesaggi descritti all’interno dell’opera: simbolici, concreti, naturali ma anche mentali. Accanto agli innamorati un altro grande protagonista: il tempo. Un «passato e / remoto come inedito avvenire», un «presente / in goccia d’acqua evaporata», un «futuro» di «falene».



La terra è sempre grata nel suo intarsio

– medita lei dalla vista mareggiata – stupisce

l’impudenza che è vestale negli animi

annosi dei disusi viaggiatori, sopra questo

oscillante marchingegno laddove

si amalgama la noria minerale, un vaglio

allo spanarsi della sierra o quasi

cipiglio corrugato dai colori; sotto il velo

inamidato dell’occaso lei in tempo si scopre

fragilmente una formica, millesimo

di ritmiche funzioni che replica il battito

cardiale delle spore, sottile

come un raggio in rifrazione o docile

sprone da una luce alla sua ronda.


Atterra sulla strada polverosa la storia

futura di due ombre abbottonate, non lungi

c’è l’assunto vegetale e appare reale

ormai il passato che è accaduto, l’involto

della terra e il suo bagaglio ma poco

più edotto di vent’anni immaginati; è un crisma

dentro un legno scorazzato appena desunto

con lei sopra inerpicata, è un sole

meridiano che l’accende e serafico attende

la venuta della sera, le stelle

che rivelino se stesse o ieratico attende

in questo tempio di sapere, il brolo

delle resine fondenti e cosa prometta

questo livido salato, roccioso,

dolceamaro, più veloce, che i seni e la cute

le solletica imprudente, sicuro

che fin qui nessuno giunga e che cresca

coerente questa notte come pozza

di una fertile metà già dissonante.


Sopra il carro colorato con le mani lui intento

la siede con le gambe a penzoloni, guardando

i solchi avanti per cercare ad ogni suo passo

dopo passo la capanna, cresciuta

in un pianoro del pruneto; terrà schioccate

le redini dei buoi più lieve parlando

del futuro che è passato, un’ora

dopo un’ora ricordando dilemmi

cifrati senza istanze né riscontri, dissenso

doveroso per creare un uomo e una donna

da un sinonimo abitati.


*


Il carro titubante e le sue ruote tratteggiano

il molle salmodiare della sabbia, avanzano

più lenti ed aggravati dal parco bagaglio

di quest’uomo e questa donna, sorpresi

nell’intarsio di due fiumi nel punto

predetto in cui le acque sono amene; e tutto

è questo stallo brulicato, nell’aria da tutto

suturata inquieto limbo, motteggio

improponibile e perpetuo che esplicita tinte

di vivenze appena date. Assorta

guarda lei l’oceano plumbeo e questa allusione

che lei sente inalberata, plasmata

la radura la zittisce, sentirla foriera

e quasi esente come un vanto, un prisma

le sue piante laminate, un argo ceruleo

le sue gocce evaporate; volani

senza cruccio lievitati diteggiano rotte

inaugurali come assolo, solfeggiano

le loro partiture con lievi vernici

nel sedato bassopiano e tutto il viaggio

è per arrendersi al retaggio, reiterarsi

nella verginità inebriarsi, di questa

ludica stagione quasi drastica, di questa

cortina di colori impaludati; dove sarà

la capanna appena nata, come sarà

del primo bacio l’attesa, o solo

la dogmatica pretesa di questo

presente sempiterno girotondo.


*


Ma ti ricordo ancora nelle pozze – medita lui

dimenticando di scordare – che guardi

il tuo riflesso duplicato, comunque

rinchiuso in trasparenze e labirinti

di guizzi in cui da sola ti raggiri sommersa e

sospinta in un frammento sempre fermo.

Così rammenta lui le ore esperte, passato e

remoto come inedito avvenire, presente

in goccia d’acqua evaporata, attratto e

respinto da un rovello ormai affinato, sermone

senza peso recitato e arcano cartiglio

delle sue memorie corte. È questo

che di lei più si ricorda, che più rammenta

in questo giorno in cui la scorge – cupido è lui

dell’immagine che sogna – come donna

genitrice della terra temendo menti

che calpestano il futuro, ristretto

tra parole fuorvianti e quasi a un passo

che stentava a riconoscersi; è qui

che la rammenta acqua in marzo dall’utile

nesso di due mani assaporata, qui dove

si frenò qualsiasi dubbio che infine la vita

quando è viva porti gioia, per lei

qualsiasi dogma sia inclemente, ma ogni

orazione sia sostanza che non mente. Così

ricorda lui nascere amanti (alianti?)

soffiati a una stagione che non venne, a lei

che l’acconsente e in primavera discende

una neve che si scioglie fuori tempo, vestale

o allusione o vaticinio, così

complesso nelle parole di chi impara

a inventarsi in questa ressa un’utopia.


Tomaso Pieragnolo è nato a Padova nel 1965 e da 30 anni vive tra Italia e Costa Rica. Ha pubblicato “Viaggio incolume” (Passigli 2017), “nuovomondo” (Passigli 2010), “Lettere lungo la strada” (Edizioni del Leone 2002), “L’oceano e altri giorni” (Edizioni del Leone 2005), “Poesía escogida” (Editorial de la Universidad de Costa Rica e Fundación Casa de Poesía 2009), libri risultati finalisti e vincitori di alcuni premi (Palmi, Metauro, Minturnae, Marazza, Saturo d’Argento - Città di Leporano, Città di Marineo, Guido Gozzano di Belgirate, Libero de Libero, Ultima Frontiera, Minturnae Giovani). Come traduttore dal 2007 ha proposto nella rivista Sagarana principalmente autori della Costa Rica non ancora proposti nel nostro paese, e curato le prime antologie italiane di Eunice Odio (“Questo è il bosco e altre poesie”, Via del Vento 2009, e “Come le rose disordinando l’aria”, Passigli 2015, in collaborazione con Rosa Gallitelli), di Laureano Albán, (“Gli infimi crepuscoli”, Via del Vento 2010 e “Poesie imperdonabili”, Passigli 2011); nel 2019 per Arcipelago Itaca “Non importa ormai vivere bensì la vita” di Juan Carlos Mestre. Questi libri sono risultati finalisti ai premi per la traduzione Camaiore, Città di Morlupo, Città di Trento, Marazza. Ha partecipato a Festival di poesia nazionali (Pordenonelegge, Poetry Vicenza, Fiera delle Parole di Padova, Quota Poesia di Trento, Cartacarbone di Treviso) e internazionali (Festival di Poesia di Granada in Nicaragua e Festival Internazionale di Poesia Costa Rica).

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