Nota di lettura a “Verso la foce” di Riccardo Canaletti
Poi, a un certo punto si legge «Ma il vero mistero sono gli uomini».
Così, come il colpo improvviso di una mano senza più guanto. Fuori metafora, fuori dalla lingua impossibile del verso. Che spinge a chiedersi cosa c’è prima. Cosa c’è prima di quella pagina 46, cosa prima del libro.
In Verso la foce (Interno libri, 2024) Riccardo Canaletti, al suo terzo libro di poesia, riposiziona gli occhi, nel tentativo di volgerli al “vero” mistero, separato da tutte le sue possibili copie degradate, facili, illusorie, mediate. Orientati, cioè, a quegli uomini somiglianti a una caduta, il cui corpo è testimonianza della pienezza della vita e del suo crollo. «Quelli che agli occhi dei fiori sono fiori al contrario».
Immagine elettiva di questa umanità è il nonno preda dell’Alzheimer che tiene tra le mani i genitali, il suo sguardo sulla palude, a cui viene dedicata la prima sezione del libro. Sofferenza che diventa agli occhi misura dell’incomprensibile, una delle sue possibili forme, attraverso il corpo che finché ha indumenti resta. Un corpo a cui trovare ancora posto, in cui trovare ancora un posto.
È questo un primo punto. Il corpo segnato dal male, infatti, sembra portare con sé verso un’oscura lontananza anche tutto ciò che ha reso possibile la vita viva degli altri (mi insegnavi i venti o altrove gli ascolti di Chopin). In questo tutto d’universo che trapassa, nella generazione dei padri che scompare, sembra insinuarsi, come in certi romanzi di McCarthy, la perdita del confine che delimita e custodisce la vita giusta, vera, annebbiando la frontiera (così come l’Alzheimer fa con la memoria), confondendo strade e transiti («vedo gli altri andarsene come un elastico che torna indietro»).
Ma a scongiurare un ripiegamento melanconico del dolore, a sbloccare una sorta di impasse tra padri e figli («Non esci più, siedi accanto a mio padre che ha negli occhi l’onda vasta del tuo nome di cui sono conca esausta»), sembra essere soprattutto la potenza di madri trapassate, presenti e future che rimette in moto lo sguardo verso molteplici orizzonti, per ridare futuro, generatività, forza.
È il secondo ampio movimento del libro. Sono ancora una volta nomi, corpi, gesti del romanzo familiare dell’autore, ma questa volta di femminilità che sembrano trasformare il limite chiuso della casa in una soglia aperta, esposta ancora all’incontro col mondo, alla vastità del suo avvenire («Cosa fa il mare/lo fanno anche le madri»). Come la nonna «con lo straccio sulle spalle/con il latte sul seno consumato/con il senso sulle gambe». O come i versi dell’enigmatica bisnonna poetessa Francesca Scarciglia Cavallo posti in esergo al testo «Benedirò la vita, pur se rotte/le spalle a 0tarda sera mi dorranno/ ma il cuor sarà colmo di dolcezza/d’aver tutto donato». Fino al nome di Jessica a cui consegnare la propria vita.
Ecco, il dono. La libertà di ricevere e donarsi, lo spendersi senza riserve, il trattenere lasciando andare, deponendo la ragione, il calcolo, la pretesa del pensiero «A volte è il solo guardarti un significato che resta». In un’altra parola, l’amore e la sconcertante consapevolezza di non esserne padroni «Vivere è lasciare la foglia che diventi cenere ogni mattina».
È questa, forse, una delle possibili immagini della foce con cui si chiude (o si apre?) il libro. Immagine che si fa termine di pienezza, offerta della vita che vuole la vita, ma non terminale, conclusa. Più che a un pacificato approdo, infatti, la foce sembra coincidere, ancora una volta, con uno sguardo mobile, vigile, in movimento, che non appagato cerca segni («Chiedo ancora bellezza») e da ogni punto, da ogni altura o radura possibile, sembra voler dire, nonostante tutto, «Ma quant’è bello da qui il mare».
Dall’addome disteso
escono i fiori
della vecchia istruzione.
Gli ascolti di Chopin.
Lo percuoterei
per sentire ancora
risuonare nella cavità
di quella casa
un po’ di musica.
*
Somigliante a una caduta
invece in volo
sulle spalle della camicia
indorata di sudore.
Ma basta non riponga
Niente sulla sedia.
Finché abita indumenti
resta.
*
Ma il vero mistero sono gli uomini
al di sopra della terra
quelli che agli occhi
dei fiori sono fiori al contrario.
Lo vedi, padre?
Uno fuma dai monti
mentre saliamo.
*
Ingresso dello scavo con la parola.
Nella voce di tutti sotto la spera
dove festeggiamo Silvia
è dolce addormentarmi
con le tue mani sul viso.
Le ruote della mia auto
riposano nelle buche
i rumori si acquietano.
Ma all’orecchio che ospita i gesti
e il tuo gioco
non può che arrivare saperti
lo spazio intero
in cui ha foce la vita.
Riccardo Canaletti è editor di Mow e scrive su Substack (Free Private Thoughts). Laureato in filosofia all'Università di Bologna, ha pubblicato i libri di poesia La perizia della goccia (affinità elettive 2017) e Sponde (Arcipelago Itaca 2019; premio Pordenonelegge 2020) e alcuni suoi versi sono stati tradotti in russo, catalano e spagnolo.
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