Nota di lettura a "Un altro che ti scrive" di Cristiano Poletti
C’è spazio, nel pubblico di lettori di oggi, per parlare di un padre che se ne va e di un figlio che resta. C’è spazio per la trama che i legami di sangue intessono tra presente e passato. C’è spazio per il dialogo silenzioso tra un lettore-poeta e i suoi autori-guida. C’è spazio per penetrare nelle emozioni semplici, che sono le più dense e che si incuneano passaggi della vita: il confronto, la perdita, l’attesa, la ricostruzione. C’è spazio, insomma, per una raccolta come l’ultima di Cristiano Poletti, Un altro che ti scrive (Marcos y Marcos, 2024), dove l’autore scende nei dedali della quotidianità e del flusso di coscienza di chi la vive. Non è un caso che una raccolta come questa venga pubblicata nell’era in cui trionfa la letteratura alla Sally Rooney, quella dei legami interpersonali come principale sfida per chi sceglie di raccontare il mondo con le parole e dell’introspezione assunta non tanto come rifugio ma piuttosto come abilità di scrutarsi a fondo, leggendo lo scorrere dei propri pensieri come codici numerici da decifrare su uno schermo per dare un senso alla realtà.
Sei diviso da chi sei.
Volevi seminarti, sfuggirti, e per intero
pendi ora dalla parte del silenzio.
La vita nei versi di Poletti è un continuum di pensieri e letture, monologhi entro cui il poeta offre la voce a ciò che tace – che siano le montagne o il padre defunto - come in una locanda affacciata sul mare dove gli autori incontrati stando sui libri si alternano, tra citazioni più o meno dirette, dando corpo a un luogo che è l’interiorità profonda del poeta. Una locanda, appunto, affacciata sul mare dove i balenieri affidano il proprio destino a Dio e custodiscono nei cuori aridi la voce possente dell’oceano. Tanto è capace di fare un singolo essere umano, capitando per caso in un luogo e in un tempo specifici, attraversandone i vuoti lasciati da chi, prima di lui, se ne è andato.
Per una locanda
«I balenieri, la loro locanda / prima dei mari: c’è chi si domanda / del cupo di quel quadro nel vestibolo / e chi si raccomanda / a Dio. Io, Samuele, / emergo da profondo della storia / per profezia e di un popolo o una vita / vi dirò. / È per destino che passo di qui: / passo portando il peso di una voce, / amando moltitudini sapendo / che quella voce non è mia».
La poesia di Poletti è una poesia del silenzio, nonostante la musicalità non le manchi: i versi si assaporano come flussi di coscienza interiori, ritornelli sapientemente custoditi che si estendono, elastici, tra terzine dal sapore di haiku e prose poetiche, inseguendo i sentimenti inafferrabili del cuore. Ma Poletti non se ne vergogna, nella sua poesia c’è spazio soprattutto per questo: il cuore. Un cuore indurito dall’essere passato attraverso la pressa del tempo, tanto che nel succedersi dei componimenti della raccolta non sfuggono via inosservate le stagioni, quelle cicliche, con la neve che copre il paesaggio davanti alla casa del poeta, e quelle eccezionali, come il Covid che trasforma Bergamo in una fortezza impenetrabile all’orizzonte.
Accanto a noi
Poi venne la peste, in non poco passò e
non ne fummo toccati.
I morti però accanto a noi erano tantissimi
tra famiglia e lavoro.
Bergamo già fortificata, ancora più lontana coi suoi baluardi,
era di una bellezza incredibile
come un dipinto.
Ma questo arrendersi alla quotidianità e adagiare i propri versi tra le sue pieghe, non impedisce a Poletti, nel flusso di coscienza orchestrato in poesia, di elevarsi al di sopra di essa. È un elevazione spirituale che discende, in realtà, dall’essersi osservato a lungo dentro, dall’essersi chiamato da fuori come un estrane, dall’essersi (de)scritto attraverso uno specchio, come un padre con un figlio, rimproverandosi i guai, appesi come quadri numerati (intitola così Poletti le prose poetiche della sua raccolta) e analizzati nel dettaglio, ma anche indicando al tempo stesso i momenti di luce, che per essere colti e impressi sulla tela della poesia, richiedono di stare all’erta, sempre.
Quadro 4
Il tuo sguardo è in cerca d’altro. C’è uno spazio tra parola e falsità, che da te a me sporgeva e te fiaccava. Tutto continuava e prosegue, si forma e distrugge. Non ti accontentavi. All’interno: buccia di cipolla, miracolo di fiore e aria, e tu all’esterno ti davi, alla cassa di risonanza di un viale disperdevi l’antica sporca ansia. Eccoti, sei e eri, in cerca di simboli. Hai forma di lettera e un compito. Hai un nome, lo conosco: tutto è smarrito e in te.
Ti scrivo da Berlino. Ci sei venuto tanti anni fa. Forse non ti ricorderai, e nemmeno di me, forse ti è rimasta solo un’immagine: vicino all’università, la città ruvida, noi sul viale dei tigli in un giorno di sole, chiarissimo. Non ti nascondevi.
Si avvicina così alla chiusura, rappresentata dal poemetto America, la raccolta di Poletti, con una sezione che torna «al tema della luce, il tema dell’inizio» e un’altra invece di ritorno a casa. Qui l’autore, uscendo da sé stesso come per riemergere alla vita, dopo aver intessuto con la morte e l’assenza un rapporto così stretto, riscopre radici e decolli. Sono, queste ultime due, le sezioni della massima elevazione linguistica da una parte e della discesa alla parlata dialettale bergamasca dall’altra, in una contraddizione necessaria per raggiungere l’altro che scrive a Poletti e di cui Poletti scrive: in definitiva, il padre. Che in quanto caro perduto richiede la stessa disposizione d’animo della preghiera e in quanto legame famigliare richiede la stessa capacità di scendere in profondità degli alberi.
Io che ti amo ti prego
questa mia lettera inviala tu.
C’è scritto: siamo
stranieri alla terra e in cerca di patria
nel caldo e in attesa crescente
noi, amorevolmente, d’acqua
respirando
il siccitoso respiro del mondo.
Casa infinita
All’angolo al canto del gallo
vusà mamaaa: son questi
miei tremori del petto che fondono
altri mondi in un verissimo spasimo.
Veniva dai mobili un rumore…
poi improvvisa la figura del padre…
Ti dico: chiaramente è mia
la colpa, vedi i quadri scuri che abito… ma era
una luce strana… l’era precìs spacàt…
Confinò queste parole in un amico soltanto quando
la stagione era tutta nei soffioni
e i fiori del rosmarino sfidavano
le piante in ritardo. Postremo pereunt imbres…
Ecco cos’è ridurre al vero
la mente immaginosa, la sognante
casa infinita tenerla
sullo sfondo e ritrarre in primo piano
l’animale, mortale specchio nostro,
portarlo tutto nel corpo del testo.
Cristiano Poletti (1976) ha scritto Porta a ognuno (L’arcolaio 2012) e Temporali (Marcos y Marcos 2019). Ha curato la parte testuale di Libellula gentile, documentario di Francesco Ferri dedicato alla figura e al lavoro di Fabio Pusterla (Marcos y Marcos 2019). Dal 2007 al 2017 ha diretto Trevigliopoesia, festival di poesia e videopoesia. Lavora all’Università di Bergamo.
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