Nota di lettura a "Tenerissimo amore" di Filippo Davoli
È così che ci si innamora/è qualcosa di minimo e ostinato/che ferisce e cattura.
Civitanova Marche. Stazione. È venuto a prendermi, direzione Smerillo, Festival della Montagna. Il suo arrivo è annunciato dall’autoradio che spara Mina a tutto volume. Un’epifania. Lo provoco allora. Gli chiedo che ci trova in quella voce. “La voce”, mi risponde. E poi? “Ti pare poco, una che sparisce e lascia solo quella”. Chi lo conosce sa che potrebbe proseguire dicendo qualcosa tipo: c’è chi cerca nell’arte, invece, una pericolosa forma di esibizione. Ma questa volta soprassiede, assorto com’è alla guida tra queste sperdute valli. Abbiamo sempre trovato il centro Italia strano e indecifrabile. Ma il verso di una sua poesia lambisce forse il mistero di queste province, che lui non ha mai abbandonato:
L’occhio indaga/i volti già trascorsi, i luoghi amati/nascosti dentro al cuore.
Filippo Davoli è così. Ha un sorriso da bimbo furbo, frequenta l’ironia come pochi, e quando parla spiazza, decentra, decostruisce, demitizza la poesia stessa. Dice che per questo forse l’ha pagata. Ma non gli importa. Si tiene strette le parole, fra gli altri, di Loi, Morasso, Raffaeli. Si tiene i giovani poeti (e non) che lo seguono, lo cercano, gli scrivono. Ma se gli dici che potrebbe essere un maestro, si incazza. E intanto un crocefisso importante gli penzola a destra e a manca sopra la maglietta nera. Potrebbe essere anche un frate, un monaco, un pastore di queste colline. Lui dice “un cercatore”. E infatti scrive:
Oh quante volte ancora Ti ho cercato/e Ti ho trovato nei crocefissi del mondo.
Il destinatario è sottinteso. Dice di aver dovuto scrivere diversi libri prima di arrivare a concepire versi come questo in Tenerissimo Amore (Industria&Letteratura, 2022). Un titolo di chissà quale epoca. Non la nostra, che ammicca sempre più nel linguaggio (e anche nei versi e nei titoli) a una freddezza da laboratorio di analisi. Tenerissimo. Amore. Ci vuole coraggio e troppa libertà per scrivere, oggi, due parole così. Ma si sa, più si cresce e più ci si libera, con le relative conseguenze:
La libertà che schioda fa paura,/a un popolo di consuetudinari.
L’immagine deriva dalla mandria assatanata di porci che, al Suo gesto, precipita dalla rupe. È una stazione tra le tante “evangeliche” del libro titolate in maiuscolo: GIUSEPPE, UNA GROTTA, CANAAN, GERICO, ASCENSIONE. Ma c’è anche il filippino che ha bisogno evidente di parlare/di niente e di tutto, il cane Axel preso dal ritmo della fine, Gabriele Galloni portato dentro la mia povertà come perla/da difendere a oltranza. Dal vangelo secondo Davoli.
Gli parlo di un mio amico morto qualche mese fa a 29 anni. “Beato lui, perché adesso è nella Sua luce”. Potrebbe suonare come una bestemmia. E invece è una visione chiara e definitiva:
Chi se non Lui/dal fondo del principio/ nel segreto/ritmo che muove il mondo.
Ma non ingenua. C’è del dolore nelle sue pupille annacquate, c’è anche il crollo. Come per tutti gli uomini autenticamente di fede. Che non toglie nulla a quella certezza. Semmai aggiunge, potenzia. La rende credibile perché sofferta, patita:
È la luce di Lui: una luce di taglio/che ricongiunge (o separa?) / che colma (o divarica?)/anche la notte è una grotta/di promesse sussurrate ed enormi.
Si maneggia materia incandescente qui, nella sua invisibilità. Ma che invisibilità, mi corregge. È sempre tutto più semplice, sempre tutto così disponibile sotto gli occhi. Ma bisogna guardare, riconoscere. Il cieco, il paralitico, Simeone, ci frequentano. Siamo noi. Sono loro. Quelli che ci passano accanto all’Eurospin e ristabiliscono verità inaspettate:
Quante pagine ho perduto per attenderli/questi volti dispersi che mi assomigliano/Sono il libro più carico della mia vita/povero scriba che credevi chissà cosa.
Poesia che si fa strumento della parola. La Parola. Ma non la intellettualizza, non la complica. Ma la rischiara. Come quella per il “giovane ricco” al fondo delle nostre oppressioni quotidiane:
Una cosa ti manca. Una soltanto. Essere come il vento, non curare/da dove vieni e dove sei diretto/ essere vento, respiro che si illumina/dilatandosi in dono.
I versi di Davoli fanno i conti con il nucleo più duro e originario di quella Storia. Che chiama alla vita, alla sua esposizione vertiginosa, senza scuse, né scorciatoie:
Ti spezzi nella parola che gli rivolgi/lo salvi da sé stesso. Ma non lo liberi/dal lettuccio. Non gli togli la croce/Nemmeno a Te la togli. In essa che entra dal nostro tetto al cuore desolato/ci apri la strada alla luce.
Arriviamo frattanto a destinazione. Smerillo. Questo angolo di mondo sperduto. Ma ricordato da Dio, se è vero che il sorriso dei bimbi è anche il Suo. Ce ne sono diversi qui. Domani leggeremo qualcosa, parleremo di poesia. E saremo presi di nuovo dall’imbarazzo, da quella costante inadeguatezza del dire. “La poesia…forse nemmeno si scrive” dice Filippo, senza guardarmi. Contempla le persone accorse a popolare questo paese. Poi guarda il cielo. E mi pare di sentirgli pronunciare alcuni dei suoi versi più belli. Mi pare che coincida con la loro musica:
La Tua orma raggiunge nel profondo/chi aspettava il Tuo giorno, li affranca/la Tua mano infinita che sorride/li risolleva, li ristabilisce/Riapre il Cielo un sorriso senza sconti/un tenerissimo amore che commuove.

Un bel giorno, sparite le ombre, dilatato
il tempo come nell’alba, mi parve
di scoprire – ma dentro – come una luce nuova
una stabile calma, una pace.
Collimava quell’aura col grande
silenzio di un azzurro spiegato.
E conobbi, ho capito, che fosse
quel volo segreto dell’anima
che al colmo dei crolli si libera
dall’ossessione del cuore.
*
Il cielo azzurro fila le sue bave
tra macchie verdi e ocra. Laggiù vedi
le case come ciottoli sul rivo
umide ai lembi, forti alle cimase.
E il rondinìo che flebile accompagna
l’ora che ormai s’attarda nel meriggio
schiude come un mistero, scioglie un grumo
d’ansia segreta. È l’ora in cui s’avanza
il tempo che rimane, e l’occhio indaga
i volti già trascorsi, i luoghi amati
nascosti dentro al cuore.
Nemmeno te ne crucci, sai che è andato.
Tra poco il fresco audace della sera.
CENACOLO
Quanto rumore, dopo. Al primo piano
della stanza che ultima Ti vide
prima del grande segno, tutti tacciono
reclusi per paura e smarrimento.
Quando verrà il Tuo soffio che consola?
Ma io lo so, Ti riconosco. È amore,
è gelosia di me che mi fa terra
bruciata intorno e non si sazia il cuore.
Giona, Giacobbe, quante schiere d’uomini
convocasti per nome a tu per tu.
Non c’è tregua possibile, nei giorni.
Li parli nel Tuo cifrario che riconosce
chi ha il sigillo di Te dentro la carne.

È nato a Fermo nel 1965. Voce tra le migliori della poesia italiana contemporanea (Rondoni), in
ambito poetico si ricordano Alla luce della luce (1996 – Introduzione di Franco Loi), padano piceno (2003), Come all’origine dell’aria (2010), I destini partecipati (2013 – vincitore del Premio
“Città di Fabriano”), La luce, a volte (2016 – con una nota di Massimo Raffaeli), Dentro il meraviglioso istante (CartaCanta, 2021 – introduzione di Giovanni Tesio), Tenerissimo amore (Industria&Letteratura, 2022 – introduzione di Daniele Mencarelli) e il recentissimo In questa strana luce (Firenze Libri, 2024). Tra i vincitori del “Montale” per l’inedito, pubblicato in 7 poeti del Premio Montale (Crocetti, 2002), il meglio della sua vasta opera poetica è confluito nell’antologia Poesie 1986 – 2016 (2018, introduzione di Massimo Morasso). In ambito critico si ricorda, tra l’altro, il volume In quel punto entra il vento (Quodlibet Studio, 2008) curato con Guido Garufi e dedicato alla ricezione dell’opera di Remo Pagnanelli nelle giovani generazioni. Col cantaurore Claudio Sanfilippo ha pubblicato il cd Avevamo un appuntamento, in cui le canzoni di Sanfilippo dialogano con le poesie di Davoli lette da Neri Marcorè. È tradotto in Francia a cura di Daniel Bellucci.
Commentaires