Nota di lettura a "Prodigi" di Anna Ruotolo
Nella bellezza altrui
Solo nella bellezza altrui
vi è consolazione, nella musica
altrui e in versi stranieri.
Solo negli altri vi è salvezza,
anche se la solitudine avesse sapore
d’oppio. Non sono un inferno gli altri,
a guardarli il mattino, quando
la fronte è pulita, lavata dai sogni.
Per questo a lungo penso quale
parola usare: se lui o tu.
Ogni lui tradisce un tu, ma
in cambio nella poesia di un altro
è in fedele attesa un dialogo pacato.
(Adam Zagajewski)
«Solo nella bellezza altrui / vi è consolazione / nella musica / altrui e in versi stranieri», scriveva Adam Zagajewski. E nella bellezza, nella musica e nei versi stranieri che però risuonano da subito anche intimamente nostri, familiari, consueti di Anna Ruotolo c’è la salvezza, c’è consolazione. Prodigi. Poesie 2007-2020 (peQuod, 2023) è un camminamento salvifico che accompagna noi che lo leggiamo a risalire corde silenti dell’anima. Ciò che prima era messo a tacere, o da sempre rimasto nella penombra muto, ora tintinna un suono dolce e lieve. Alla fine del cammino tra i righi e gli inarcamenti della scrittura di Ruotolo ci si ritrova più leggeri, tesi al volo, pronti alla danza, riuniti con ciò che avevamo dimenticato di essere, pacificati con quello che c’è e c’è stato: uno stato di grazia. D’altronde è questo che fanno i prodigi, riconnettendo nel profondo ciò che si era altrove spezzato. L’etimologia di questa parola ci giunge in soccorso: dal lat. prodigium, comp. di prod-, pro- «davanti, prima», e *agiom der. di aio «dire» (quindi originariamente «preannuncio») o, secondo altra interpretazione, der. di ago «spingere, condurre»: un segno profetico, un momento chiarificatore, l’annuncio presagito di quello che dentro e fuori c’è sempre stato e noi non avevamo mai compreso. La raccolta di Ruotolo, le cui tappe sono scandite da prodigiose rivelazioni talvolta misteriose ma sempre nel fondo intuibili da chi le legge, è un tragitto che rinsalda le stagioni poetiche della poetessa che vanno dal 2007 al 2020, edite e inedite. Stagioni che però sembrano aver da sempre fatto parte di un unico ciclo astrale, orbitando non da ora ma fin dal principio attorno a un medesimo nucleo pulsante di poesia. Respiri, come li definisce Gianfranco Lauretano nella bellissima postfazione al libro, che hanno da sempre animato un unico corpo veggente e senziente, un corpo che è questo libro. Sembra a chi legge che l’architettura portante sia stata lì chiara e decisa sin dal primo mattone in versi poggiato, sin dalla prima pronuncia poetica. Una pronuncia, un sussurro di versi che sicuramente cambiano si trasformano si evolvono nel tempo, ma che restano comunque sempre tesi tutti, dal principio alla fine, dalla chiarezza riconoscibilissima di quell’io poetante che dice e sente e guarda e scrive; un io poetante che non facciamo fatica a sovrapporre all’io-lettore: con Ruotolo e la sua poesia entriamo in comunione. Sembra di essere di fronte a una partitura orchestrale nella quale ogni elemento, ogni attacco, ogni levare, ogni battere, ogni dissoluzione della tonalità arriva per noi nel momento più opportuno; un momento al quale la poetessa ci ha sapientemente preparato. I versi sono sussurri, soffi caldi, suoni lievi anche quando ridicono il dolore, ripercorrono la separazione, inoltrano le assenze. Una voce arcana di forza ancestrale. Una preghiera, una supplica dignitosa e onesta che sa rifarsi poesia tra i solchi di tutte le cose. È ritrovare l’afflato panico in quel «tu», al quale la poetessa fa costante appello, negli elementi della natura, negli oggetti che significano sempre altro, nelle circostanze che attendono. A leggere questi versi di Ruotolo ci si sente fluire come placida acqua che anche quando viene ingabbiata nella durezza dello scoglio prosegue nel suo divenire. E anche il dolore diventa bello e nella bellezza del dolore chi legge compartecipa, cura e si lascia curare, si ritrova nella tenerezza. Una raccolta che è disarmante, un percorso che ci libera da presenze contundenti e che nel frattanto ci accoglie dentro una superficie liscia e calda, non per questo meno complessa. Se un verbo dovessi mai scegliere per ridire quello che nel complesso lasciano questi versi di Ruotolo sarebbe «accordare»: perché rimettono al centro del petto il battito, sintonizzano il cuore, armonizzano una tensione panica, uno slancio vitale che tutto tiene insieme; anche il prima, il durante e il poi, in un tempo senza tempo. «Forse il mio / cuore / era una pietra» ora non lo è più. «Qualche sopravvissuta stella / riesce pure a toccarci» in questa casa costruita da Ruotolo. E ci tocca chiamando a raccolta tutti i nostri sensi: mi pare ci possa essere nell’opera di Ruotolo un’epica della percezione che immobilizza e nel contempo libera le presenze richiamate dalla parola nella cornice che le trattiene. Sequenze figurative, piccoli scorci che fanno presagire che il mondo osservato, interno ed esterno, cela dietro la propria superficie, oltre ciò che è visibile, una rete di rimandi e segni che la poesia si incarica di disvelare e di condurre alla luce. È la visceralità delle percezioni (mi sembrano numerosi i verbi percettivi all’interno della raccolta) che dal corpo conducono fuori, che dall’io conducono al tu e infine al noi. Ci conducono alla fine dove «il canto si fa dialogo», come scrive Lauretano, e infine si allargano volendosi tendere verso tutte le cose.
Parliamo del prodigio
e del prodigo, una radice
tolta alla terra e una lettera d’inciampo:
un prodigio e un prodigo perfetto
fulminante pane stellato
ricetta infinita di doti
cosi ignote prima, cosi remote
e regni, un posto regale
una religione tutta
e un cratere che sorregge
col suo fuoco.
Un assalto che non finisce piu
un tendine teso per il salto
la tentazione, intima, di vederlo
continuare per sempre.
Ma il prodigio e prodigo tutto per sé,
dispone il lampo del miracolo
e prende una sua via diritta
e leggera,
quasi sempre nel momento
in cui ridiamo e piangiamo
per quel che porta e lascia
accanto a noi,
proprio quando ci stringiamo per lui
dandogli le spalle
– immense e illuminate –
nel mentre del suo volo.
*
In quel tempo
crebbe l’erba sui tuoi stivali
grido una notte lilla sulla porta
si apri e richiuse una veduta
l’acqua cadde e aspetto
che ne facessimo un bene
e una cosa rara.
Avrei voluto fartelo vedere, questo.
Forse, se vieni che sono via, fuori,
e scosti due libri, qualche mattone
e rimasto un appunto, un filo dell’erba
un’ampollina splendente, alla tua destra.
*
Gioco dell’assente
Facciamo che una bellissima giornata
io lasci la sponda del letto
e poi ti guardi poco
venirmi davanti alto come un fusto di vento
– da dietro le stanze e le pareti –
e preparare il sole nella tazza
il caffè, le smancerie
da bere e da mangiare.
E facciamo che io non ne tocchi
nemmeno una di queste dolcezze
di pane, te e miele
non le lasci arrivare alla mia terra
e alla mia nazione.
Facciamo che ti tolga il saluto
la parola innamorata,
facciamo che per una volta
in tutto questo tempo non ti fissi
negli occhi che sono la Via Lattea
e il lago che abbiamo visitato
un sabato mattina che tu non lavoravi
e il cielo che sta per dare aria alla neve
e tutte le più inaspettate feritoie
accese addosso quando stai per camminare.
Facciamo pure che tu tenga il gioco
e sforzandoti di stare serio
prenda le tue masserizie, ad una ad una
e piano piano
158 159
ti riappropri della voce e dei tuoi movimenti
e saluti la casa benedetta e sveglia
prima di lasciarti in una macchina
verso le tue faccende,
come ogni giorno che saluta
l’altro appena passato.
E facciamo che nello stesso di
io non ti pensi per niente
(e una pazzia, falsa e irriverente)
e pero quel pomeriggio
io cucini un po’ di più, come se
aspettassi un ospite improvviso
o, in fondo, perché domani avanzerebbe
più tempo per spandersi
nello spazio della terra
a guardare certe rondini di ghiaccio
certe misure astrali sulle mappe
fare cose, insomma, che non si fanno mai
così
quando poi ritorni,
chiusa la citta nel suo vagone
e la tua fatica nelle giacche degli altri,
quando apri con tutte le chiavi
delle tue mani
tutte le nostre porte, porticine, il portone
finestre e centimetri di vetro
e io faccio il sorriso più grande
che mi viene
e un po’ tremo nelle gambe
e, per il resto, tremo tra le tue braccia
che tu sappia
quanto, quanto mi sei mancato
in questa recita d’assenza!
E quanto tutto, tutto
sembrava assente insieme a te,
straniero, senza il tuo continente
da abitare.
Anna Ruotolo ha pubblicato Secondi luce (LietoColle 2009, nota a cura di Elio Grasso), Dei settantaquattro modi di chiamarti (Raffaelli 2012, prefazione di Gianfranco Lauretano), Telegrammi/Telegramas, poesie bilingue italiano/spagnolo (’Roundmidnight 2016, traduzione a cura di Jesús Belotto, postfazione di Giovanna Rosadini) e Le stelle dormono a nord, raccolta di brevi racconti (Fara Editore 2021). È presente in varie antologie poetiche, si segnala: La generazione entrante. Poeti nati negli Anni Ottanta (Ladolfi 2011, a cura di Matteo Fantuzzi e con una prefazione di Maria Grazia Calandrone). Suoi testi sono apparsi in «Poesia» di Crocetti, «Capoverso», «Poeti e Poesia», «Italian Poetry Review», «Gradiva» (con una introduzione di Giancarlo Pontiggia), «La Clessidra», «UT» e in blog e magazine online. Un testo tradotto in spagnolo da Jesús Belotto è pubblicato nel num. 4 della rivista internazionale «Poe +» e alcuni testi tradotti in rumeno, a cura di Eliza Macadan, nella rivista «Poezia», poi confluiti nell’antologia LIDO uscita in Romania per i tipi di Editura Eikon di Bucarest, che riunisce le poesie di alcuni poeti italiani contemporanei. Ha collaborato, scrivendo recensioni, con le riviste «Poesia», «Atelier», «La Clessidra» e con blog letterari.
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