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Immagine del redattoreLuca Gamberini

Nota di lettura a "Preistoria primavera" di Michele Ghiotti

Ruvido e aulico, primitivo e futuristico.

La nuova raccolta di Michele Ghiotti è una pietra levigata per farne punta di lancia, con la quale però il poeta percorre sì sentieri destinati alla caccia, ma con altro intento: è una immersione antropologica e plastica. La scelta lessicale che Ghiotti compie è molto chiara: attingere al patrimonio semantico dei primi secoli di esistenza dell’uomo sulla Terra, quando la vita stessa era messa a repentaglio e ogni giorno era una sfida di sopravvivenza:


Abita in noi una violenza

antica non abbastanza.

Gioco di ferirsi, mia assurda preistoria,

alfabeto tracciato di corsa.


E ancora:


Quali tempeste si addensano laggiù?

Gli invasori hanno il vento dalla loro?

Chi, cosa depone

uova sui fondali?


Ghiotti, tuttavia, preferisce incamminarsi in un sentiero molto più difficile che la semplice narrazione antropologica. Non si tratta né di una ricerca dell’Eden né di una immersione naturalistica. La violenza che lentamente emerge dalle sue poesie è un elemento caratterizzante sia l’uomo di allora che l’uomo contemporaneo.

Andando a scavare, storicamente, nella genesi del genere umano diviene quasi necessario cercare una nuova nascita, una ri-nascita, il bisogno costante di rigenerazione:


rifarsi attorno utero e placenta

e rompere da solo le tue acque.


Molto interessante soffermarsi sul lessico materno, gravido di implicazioni, che Ghiotti propone. È un continuo ripresentarsi di espressioni e parole che rimandano al mito-rito della fecondazione e della gestazione:


Una pinna recisa di netto e le branchie succhiavano di nuovo.


E ancora:


Gattonare al ventre del buio,

una forma che possa allattarti.


Ma anche:


Allora il lupo potrà farsi avvicinare d

al bambino che non ritrae la mano

e allattare il suo sterminatore.


Anche se il climax è raggiunto con la poesia dedicata ad Alberta:


Madre, che tenerezza le briciole a mani giunte –

nascondi la faccia nel tuo

rosicchiare di criceto.


Non parli, sussurri, mordicchi, e ti amo per la prima volta forse

da quando sono sceso dalla ruota.

Così a lungo ho dovuto aspettare

prima di voltarmi di nuovo o ti avrei trovata morta nel mattino.


Madre albina, madre occhi rossi,

Madre delle Briciole, Madre Pollicina,

cuore acino, bacca, mani rose, roditrici,


cavia della vita più di tutti, così poca dolcezza è scesa a abbeverarti nella gabbia.



Poesia struggente e potentissima. L’evocazione-preghiera che racchiude in sé il significato materno e allo stesso tempo di Dea Madre – perché Ghiotti inserisce spesso riferimenti paganeggianti, primitivi, appunto di una religione preistorica, frutto di un credo tanto naturalistico quanto panico.


Che dio lasciamo

rintanare in noi, noi albero e lui

scoiattolo, lui picchio?


E ancora:


Parlo agli alberi, ai lampioni,

merli in volo mi portano ostie,

dèi minuti mi descrivono il mondo come a un cieco.


C’è tuttavia un secondo punto che non è stato ancora preso in considerazione. Se da un lato, come dicevo inizialmente, si tratta di un’immersione antropologica e plastica, e se il lato antropologico è stato sin qui indagato, resta da valutare l’aspetto plastico. Avrei potuto utilizzare un altro termine: guerreggiante? Aspro? Violento? Guerriero? Forse. Ma avrei tradito un giudizio qualitativo che invece Ghiotti non ci propone. Al poeta interessa primariamente il racconto. Ecco perché scelgo l’aspetto plastico: la guerra è parte integrante della vita di sopravvivenza dell’essere umano. E questo da sempre. Non è un tratto temporaneo, transitorio.

Emblematico al riguardo è l’esergo tratto dal De bello gallico posto in apertura di una delle poesie più forti di tutta la raccolta: L’uomo di vimini.


L’uomo di vimini


Giorni come questi sono bestie

impuntate che trascino al sacrificio,

ore che cucio in stretti occhielli

ricamati in geometrie d’ufficio.


Come posso guardarmi mentre entro,

mentre entriamo dentro il grande simulacro?

Barbaro cuore,

brami il bianco rogo, lo sterminio.

Vuoi che l’anima dia in ceppi chi è già puro.


Invadono la mia

foresta inconfessata,

schiantano la mia

superstizione santa.


Resti alta runa indecifrata l’uomo che intreccio di versi, la forma che fabbrico imbruciata.


Ancora più decisa è l’intitolazione di una sezione successiva, di fatto la penultima di tutta la raccolta, Le guerre iniziano sempre in primavera, nella quale si condensano tutti i temi affrontati sin qui: dall’inseminazione-fecondazione, al censimento del bestiario primordiale, al rapporto uomo-dio, all’inquieto domandarsi del proprio posto nella storia, anzi nella Storia, dell’umanità, e di fatto all’amore che appare sempre meno sullo sfondo e sempre più in primo piano:


Io so abitare solo una stanza per volta –

chi è abituato ai recinti o alle serre lo sa.


È questo che voglio da te: un compagno di cella, il respiro

fuori dal campo visivo prima di prendere sonno.


Viene allora da chiedersi: dove ci ha condotto il poeta? All’amore o alla guerra? Alla divinità pagana o al Dio cristiano? Alla preistoria fatta di “mappe di inferno” o al tempo attuale fatto di “lampi sull’asfalto”?

Non lo sapremo. O forse sì. Lo sappiamo leggendo l’ultima poesia che chiude sezione e raccolta. Ed è una risposta da poeta, non da storico, ma lo storico e critico erano necessari compagni di viaggio per svelarci un mistero che di fatto continua ad accompagnarci dalla notte dei tempi.


Michele Ghiotti (23 novembre 1989) è nato a San Marino, dove vive e insegna Lettere presso il Centro di Formazione Professionale. Suoi versi sono stati selezionati dallo scrittore e poeta Davide Rondoni per il concorso In che verso va il mondo e dal poeta e critico milanese Maurizio Cucchi per La bottega di Poesia de «La Repubblica» (ed. Milano). Sulle riviste letterarie «Crack», «Carie» e «Retabloid» sono apparsi due suoi racconti brevi, Diario metempsicotico e A volte l'aria è più solida del cemento. Recentemente ha pubblicato la sua prima raccolta di poesie Preistoria primavera (Italic Pequod 2021).

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