Nota di lettura a "Ponti sdarrupatu. Il crollo del ponte" di Alfredo Panetta
I sentimenti collettivi, posti a fondamento dei legami umani, possono essere evocati nei modi più disparati. Senza alcun dubbio, accade anche con la poesia che, proprio nel diventare civile, è capace di celebrare o denunciare determinate situazioni sociali o politiche. È quanto avviene nella raccolta poetica Ponti sdarrupatu. Il crollo del ponte (Passigli Editori, 2021) di Alfredo Panetta i cui contenuti, come si intuisce sin dal titolo, prendono le mosse dal tragico avvenimento accaduto a Genova il 14 agosto 2018: il crollo del Ponte Morandi.
Guardandosi bene nel non sfociare nella retorica, l’autore si avvicina emotivamente alle vittime compiendo un’operazione poetica singolare che, come afferma Giovanni Tesio nell’accurata Prefazione al testo, fa leva sulla «concretezza estrusa di una parola incarnata, che coltiva gli schianti e che pare sporgere dalle rughe o dalle crepe profonde del vivere».
Senza alcun dubbio, sono numerose le caratteristiche ritmico-espressive che connaturano le composizioni incluse nella silloge, il cui numero complessivo, quarantatré, corrisponde a quello dei morti che causò proprio la drammatica vicenda che scosse l’intera Penisola. In questo contesto, sopra ogni altra cosa, risulta fondamentale riferire che quella compiuta da Panetta è un’operazione che, per giungere a cogliere le conclusioni sperate, si avvale di idee composite, di varie proposizioni che emergono dalla voce, chiara e pungente, a cui, di volta in volta, tramite i versi, si offre una nuova dimensione.
Di sicuro, ogni specchio poetico contenuto nel testo è da inglobare nell’impeccabile azione analitica in cui l’autore, man mano, riconosce una nuova parte di sé. Così, ogni strappo compositivo risulta essere un vero e proprio legame da presentare ai lettori. Pertanto, qualsiasi vicenda descritta, pregna di risvolti complessi e dolorosi, viene sussunta in uno sviluppo storico-artistico individuale sfociante nell’analisi più nitida di quell’attualità verso la quale Panetta mostra di nutrire diverse riserve. In tal senso, gli esempi contenuti nel testo sono innumerevoli, ma basta riportare alcuni emblematici versi contenuti nel secondo componimento intitolato Acque sante: «Non ha nulla di santo / quest’acqua d’inizio millennio / non riconosco le sue note / né la voglia antica di scaldare».
Dunque, prese autonomamente, le poesie contenute nella raccolta sono singoli pilastri attraverso i quali si costruisce metaforicamente quel ponte che serve alla quotidianità di ognuno per vivere con più criterio il proprio presente. A ben vedere, si tratta di un atto di mediazione che, da una singola realtà a un’altra, giunge a determinate conclusioni che, da ogni linguaggio specifico – anche sotto questa prospettiva può essere letta la forza del dialetto calabrese che, come al solito, viene utilizzato dall’autore – finiscono per parlarne uno universale.
Il tono confessionale prescelto da Panetta è pungente, pervade ogni strofa e si insinua in tutte le parole adoperate. Nel testo, uno degli aspetti mostrati con più vigore è che l’antropomorfismo dominante porta a una sempre più dirompente espressione degli istinti e della sopraffazione umana. Da qui, anche Dio risulta essere costruito sul modello dell’uomo. Nelle varie composizioni questa distorsione viene urlata o sottaciuta in base alle figure a cui viene data voce. Così, nella costruzione della sua Spoon River – che del capolavoro di Edgar Lee Masters ne presenta il ghigno, quel reverbero tagliente di ogni storia – Panetta si spinge fino all’analisi dei tratti di una nuova religione imperante. I dogmi che la nutrono sono sempre soltanto affermati e mai provati. Di conseguenza, dominano e regolano i gesti e le coscienze senza che risultino essere mai accolti con spirito critico. Occorre precisare che il dolore capace di trasudare dalle composizioni di Panetta non è un ostacolo al raggiungimento del bene o finanche della felicità collettiva. Non si tratta neppure di una mera sublimazione alla sofferenza. Inoltre, presentare i drammi collettivi e individuali non è neanche un mezzo di purificazione, né tantomeno di elevazione morale.
L’esperienza che viene strappata dal quotidiano, che diventa lampo, che si carica di ogni bruttura e di ogni nefandezza umana è un pungolo per spingere all’azione e non ristagnare in una qualche sterile polemica che, per dirla con l’autore, «aggiunge sporco al marcio». Da qui, l’invito a concludere l’opera iniziata, in un agire che diventi collettivo: «Chiedo aiuto / a finire questa poesia, ciascuno / c’infili gli aghi che crede / o concime fresco di armenti / che ci liberi dall’effimero / in cui siamo precipitati». Sono i reduci, chi è scampato alle catastrofi, che nella raccolta si annodano (si veda in merito, come esempio, La prima gettata, il diciassettesimo pilastro) a doversi fare carico delle ingiustizie e a trovare azione e concretezza.
Acqui Santi
Pilasthru n. 2
Teni ncarcosa ‘i larriu
stu battiri strèusu
sup’è jidita, sti gocci
duri comu cùcuja,
nt’o cimenthu a singazzi
nte tondini rruggiati
nta capa fora postu
d’i christiiani.
‘N teni nenti ‘i santu
st’acqua ‘i principiu millenniu
non ricanusciu a sò musica
e mancu u spilu anticu pemmu scarda.
E non mi specchjiu nta stu temphu
‘i pocu ssestamentu, carni rottamata
comu màchini sup’è ponti. Cercu
thra i singazzi chiju perzi nt’è jorna.
Teni malta bastardu Brunu
nte premona, a notti mentu
u cascu mu s’ammuccia
e a prova scatulija nto canteri.
Thra sacchetti ‘i carci
assi e chjiova, avi a throvari
prima o po’ a sò minera
na surgiva ‘i falacchi chi dissita
nta ll’ìsthracu a gocci na jinesthra.
a Brunu, n’operaju chi venia d’Antonimina, nta provincia ‘i Riggiu
Acque sante.
Pilastro n. 2
Ha qualcosa di losco
questo battere assurdo
sulle nocche, queste gocce
dure come grandine
sul cemento crepato,
sui tondini arrugginiti,
sul cranio fuori asse
degli umani.
Non ha nulla di santo
quest’acqua d’inizio millennio
non riconosco le sue note
né la voglia antica di scaldare.
E non mi specchio in questo tempo
di precari equilibri, carne rottamata
come auto sopra i ponti. Cerco
tra le crepe ciò che ho perso nei giorni.
Ha malta bastarda Bruno
nei polmoni, la notte indossa
il casco per nascondersi
e a prova rovista nel cantiere.
Tra sacchetti di calce
assi e chiodi, troverà
prima o poi la sua miniera
una fonte di fango che disseti
sull’asfalto a gocce una ginestra.
A Bruno Casagrande, un operaio originario di Antonimina, provincia di Reggio Calabria
Guci ‘i rugha
Pilasthru n. 12
Ihhh surdalura, chi mbulicati!
Non si ponnu sdarrupari i ponti
stujativi a vucca. I ponti
su’ crijaturi ‘i Ddi, l’Angiuli
guardiani d’i pilasthri.
Ji formicheji disperati
cusì vocati òmani, authru
non fannu ca mbrattari i sò disegni
rendinu veru nzina l’assurdu.
Ma nci penza u Diavulu
cu sò micciu ‘i focu
‘u menti a postu ogni cosa
e addunca tuttu è giustu
accussì, Deus Pater
Beni e Mali si civanu
nto stessu piattu ‘i ceramica.
E se vaji storta ncuna cosa
nto fari sthraccu d’i cosi
è ca ndavìa ‘u càpita accussì
rendimu grazzii a Maria.
Pè amuri d’a verità pe’ finiri,
a Genova, u 14 d’agustu
di l’annu du Signuri 2018
non succedì nenti
non si sdarrupà nuju ponti.
Potiti jiri ‘n vacanza
filici comu malati terminali
u ggrediti ‘a staggioni.
è perzuni d’i cuarteri ‘i Sanpierdarena e Corneglianu
Voci di quartiere.
Pilastro n. 12
Non sia mai, cosa state mugugnando!
Non possono crollare i ponti
pulitevi la bocca. I ponti
sono creature di Dio, gli Angeli
le guardie dei pilastri.
Quelle formichine disperate
i cosiddetti umani, non fanno
altro che imbrattare i suoi disegni
rendono concreto l’assurdo.
Ma ci pensa il Diavolo
col suo sesso di fuoco
a mettere a posto le cose
è quindi giusto così, Deus Pater
Bene e Male banchettano
nello stesso piatto di ceramica.
E se c’è un imprevisto
nel corso santo delle cose
è perché doveva accadere
rendiamo grazie a Maria.
Per amore della verità, in conclusione
a Genova il 14 agosto
dell’anno del Signore 2018
non è successo niente
non è crollato nessun ponte.
Potete andare in vacanza
allegri come malati terminali
ad aggredire la stagione.
agli abitanti dei quartieri Sanpierdarena e Cornegliano
Alfredo Panetta è nato nel 1962 a Locri (R.C.). Nel 1981 si trasferisce a Milano dove tuttora vive e lavora nel settore infissi in alluminio. Scrive nella lingua madre, il dialetto calabrese del basso ionico reggino. Suoi testi sono apparsi su varie riviste tra le quali Nuovi Argomenti, Tratti, Il Segnale, Capoverso, La Mosca di Milano, Gradiva. Vincitore del premio Montale Europa per inediti nel 2004, con il suo primo libro, Petri ‘i limiti (Pietre di confine, Moretti& Vitali, 2005) si è aggiudicato i premi Albino Pierro, Lanciano-Mario Sansone e Rhegium Julii. Nel 2011 è uscita la sua seconda raccolta Na folia nt’è falacchi (Un nido nel fango, Edizioni CFR) vincitrice del premio Pascoli. Del 2015 è la raccolta Diricati chi si movinu (Radici Mobili, Ed. La Vita Felice). Nel 2018 pubblica Thra sipali e sònnura (Tra rovi e sogni, Ed. Punto e a capo) Tra i concorsi vinti con poesie singole o con sillogi: i premi Lago Gerundo, Noventa-Pascutto, Guido Gozzano. Membro di giuria dei premi letterari “Città di Galbiate” (LC) e “Daniela Cairoli” (CO), in una scuola primaria di Lecco coordina un laboratorio di composizione poetica.
Comments