Nota di lettura a "Pomeriggi perduti" di Michele Nigro
«Leopardi», scriveva Francesco De Sanctis, «produce l’effetto contrario a quello che si propone. Non crede al progresso, e te lo fa desiderare; non crede alla libertà, e te la fa amare. Chiama illusione l’amore, la gloria, la virtù, e te ne accende un desiderio inesausto. È scettico, e ti fa credente». Con la medesima intenzione con cui De Sanctis leggeva magistralmente i versi leopardiani, potremmo accostarci alla lettura della raccolta di Michele Nigro, Pomeriggi perduti (Kolibris, 2019). C’è infatti, ad attraversare la silloge, un viscerale e “infinito” amore per la vita, «la voglia di andare a vedere», «l’intenzione di vivere» che si celano, quasi paradossalmente, dietro a disillusioni, a «dolori infreddoliti del mondo», a «nuvole nere», a «false certezze» e a «indolori ferite di schegge». Si legge e si sente che Nigro è un poeta che sa auscultare ciò che gli pulsa di dentro e al contempo ciò che il mondo gli rimanda, in un medesimo momento trasmettitore e ricevitore di messaggi, sentimenti, sensazioni. Le poesie si popolano di oggetti, persone, momenti, ricordi, non tutti nominati precisamente ma non per questo meno nitidi nelle loro immagini. È una poesia che si dà al lettore fortemente radicata, quando si getta nei ricordi e nella ricerca delle proprie radici, ma insieme “fluttuante”, perché non si erge a custode di verità preconfezionate («la verità custodita / senza proclami»), e tenta di traversare la vita, concreta e astratta, esteriore e interiorizzata. Nigro non si mette al centro del suo mondo poetico che, come ben nota Stefano Serri nella prefazione al libro, sa configurarsi sia come «mappamondo» che come «cronografia», riuscendo a mettere in dialogo, senza sacrificare l’uno o l’altro, tempi e spazi che rimandano tanto a momenti, movimenti e spazi interni quanto esterni, tanto lontani quanto vicini. Unendo con maestria un lessico moderno a uno più lirico e tradizionale, Nigro ci fa compiere, con la sua raccolta, un viaggio: ogni poesia è un cosmo concluso e bastante a sé stesso, che ci parla e ci affronta. Non è difficile rendersi conto che Nigro ci dona una poesia che è stata prima profondamente riflettuta (o meglio, “auto-riflettuta”), che si lascia guardare da fuori e vivere di dentro. Mentre leggiamo, la parola ci viene incontro, moderata, mai troppo altisonante e mai troppo distaccata. Ci pungola nel punto vivo e, quando capita, è perché il poeta è stato abile ad accoglierla e digerirla prima di gettarla sulla carta. Nigro ha fatto propria la virtù della “lontananza”, richiamata non casualmente dal sottotitolo («elogio della lontananza») della poesia omonima al titolo della raccolta, che gli permette di prendere le distanze dall’ambiente che lo circonda proprio per saperlo meglio rendere indietro in versi, per «mitigare arsure» e «decifrare siccità interiori».
Le cose belle di sempre
(La dispensa)
E prima di partire
faccio scorta
di immagini e di vento
di stelle sorgenti
di colori e ronzii
nel silenzio dell’angolo,
riempire occhi e mente
con strade deserte
foglie morenti
frutti appesi al tempo
e la voce di lei
che mi raggiunge nell’assenza.
Nuvole nere incombono
sulle cose che cambiano
spinte dai primi sospiri
autunnali, non ancora
decisi nel dire addio
a quest’estate maledetta.
Fanno bene all’anima
il suono lontano di una campana
i monti definiti dall’ultima luce
il saluto di un amico che studia la psiche
le comuni radici a cui bisogna ritornare
il vecchio e il suo cane
in cerca degli anni perduti
sotterrati chissà dove
come ossa di storie sbiadite
le zolle marroni di terra arata
che presto accoglieranno
sementi di futuro.
Osservando una ghianda
nel palmo della mano
rivedo il giovane
che non divenne rinomata
tavola di quercia tarlata
dagli obblighi
ma agile desco
per frugali banchetti
su cui bere vino
e fare versi.
Prima di partire
in avide dispense
metto da parte
le cose belle di sempre,
per gli inverni
che non tarderanno.
Il momento perfetto
Esisteranno, un giorno che non chiameremo
più giorno
anche per noi
un tempo e uno spazio
(non più tempo, non più spazio)
in cui diluire la vita incompresa, la non riuscita
e quella non digerita, in cui disperdere
le questioni di principio e gli affanni
i quotidiani attriti dell’inutile fare
gli orgogli della carne e le posizioni in classifica.
Dove tutto sarà quasi pace, ingiudicato e incolore
o colorato a piacere, con le mani e i piedi della notte camminata
di stelle e vino, sospesi
solo una musica lieve e ricordi blandi di
una certa vita lasciata indietro, laggiù o lassù
da qualche parte, insomma... Senza nomi di città,
o di strade, o cognomi strani, o numeri civici e di telefono.
Ignoti, ignoranti e ignorati
in eterno.
Non c’importerà più di niente
perché niente saremo.
Forse vivi, forse no
in ogni caso non lo scopriremo.
Finalmente
sorridendo, senza sapere come
ci dimenticheremo
sui marciapiedi dell’universo.
Archivio
Conserviamo date, pezzi di spago
scatole di dolci vuote e biglietti
perché anche il dolore
esige una documentata
precisione, resistente al tempo
e all’umana distrazione.
Affinché ogni data diventi spina
per pungerci quando sembreremo
felici,
ogni pezzo di spago
un nodo che ci tenga
legati al passato,
una scatola
vuota della dolcezza che fu
per quando saremo pieni
di false gioie,
e biglietti di sola andata
per l’aldilà.
*
Pomeriggi perduti
(elogio della lontananza)
Spegnete i saperi
elettrici di sera
i confortanti aggeggi
le reti a maglie larghe
delle bugie a colori,
i fogli stampati
destinati all’oblio
a traslochi incartati
con titoli scaduti.
Spegnete tutto!
La verità custodita
senza proclami
dal vento d’estate
da nuvole nere
e salvifiche piogge
a mitigare arsure
a decifrare siccità interiori
si poserà come unguento
sulle ferite della mente offesa.
Nel silenzio,
prima dei temporali attesi
interrotto da ali sferzanti l’ignoto
i segreti del tempo
oltre questi tempi orfani di senso,
accogliere lezioni eterne
registrare l’universo
ripulendo il segnale dall’io
ritornare vergini alle origini
bambini non ancora istruiti
da civili menzogne.
Un sapere antico e umile
dimora nelle forme
nella lontana dimenticanza
nell’aria tempestosa
che smuove le fronde
degli alberi, mute sentinelle
ereditate
nel volo di penne pomeridiane
e piume per cuscini di cielo
nella fede perenne
di boschi scrutanti
il vorticoso costruire di avide mani
senza memoria,
nella lenta saggezza
dei ritorni d’umanità.
Catartica astensione dal mondo
dai notiziari dei potenti,
arroccati nel deserto dei Tartari
stiliamo pagine
dedicate al vuoto che
insegna senza dire.
Spegnete ogni cosa
superflua e lucente
figlia non voluta
del rumore di fondo della storia,
prima che la città dell’uomo
v’incateni per sempre
alla sua ignoranza.
Michele Nigro, nato nel 1971 in provincia di Napoli, vive a Battipaglia (Sa) dal 1978. Si diletta nella scrittura di racconti, poesie, brevi saggi, articoli per giornali e riviste. Ha diretto la rivista letteraria «Nugae – scritti autografi fino al 2009». Ha partecipato in passato a numerosi concorsi letterari ed è presente con suoi scritti in antologie e periodici. Nel 2016 è uscita la sua prima raccolta poetica – che ama definire “raccolta di formazione” – intitolata Nessuno nasce pulito (edizioni nugae 2.0). Ha pubblicato Esperimenti, raccolta di racconti; il mini-saggio La bistecca di Matrix; nel 2013 la prima edizione del racconto lungo Call Center, nel 2018 la seconda edizione Call Center – reloaded e la raccolta Poesie minori. Pensieri minimi. Nel 2019, per i tipi delle Edizioni Kolibris, viene pubblicata la raccolta di poesie intitolata Pomeriggi perduti (collana di poesia italiana contemporanea “Chiara”), che è anche il nome del suo blog. È del 2020 il volume 2 della raccolta Poesie minori. Pensieri minimi.
Grazie per l'ospitalità e per questa bella recensione!