Nota di lettura a "Poesie inedite – Dylan Thomas" a cura di Emiliano Sciuba
«These once-blind eyes have breathed a wind of visions»
«Questi occhi un tempo ciechi hanno respirato un vento di visioni[1]».
Quest’anno ricorre il 110° anniversario dalla nascita di Dylan Thomas (27 ottobre 1914, Swansea, Regno Unito - 9 novembre 1953, New York, Stati Uniti) e Crocetti Editore ha pensato di fare a tutti gli amanti della poesia un dono, un volume tutto nuovo sull’autore gallese curato da Emiliano Sciuba.
Quando penso a Dylan Thomas, le mie connessioni sinaptiche impazziscono, e parlare di lui scatena emozioni contrastanti, sento alternare eccitazione a terrore, ma gradualmente si fa più chiara tra la foschia delle emozioni la parola “leggenda”.
Poeta visionario, leggendario, dal profilo inequivocabile e dallo stile inconfondibile; siamo in molti a conoscere a memoria alcuni suoi versi, ad esempio questi di una delle sue poesie più note: «Benché gli amanti si perdano l'amore sarà salvo; / E la morte non avrà più dominio»[2].
Le poesie di Dylan Thomas pubblicate in italiano fino al 2023 in varie traduzioni, fanno riferimento alle prime due sillogi comparse curate da Roberto Sanesi per Guanda nel 1954 e Ariodante Marianni per Einaudi nel 1965.
Con Poesie inedite (Crocetti editore, 2024) si assiste a un completamento dell’opera di Dylan Thomas, in quanto Emiliano Sciuba che ha curato integralmente i testi con le sue traduzioni, ha raccolto in questo volume 62 poesie: 22 di queste sono state estrapolate da 4 raccolte che i curatori italiani sopracitati non inserirono nelle sillogi; 27 sono poesie che Thomas non antologizzò mai; 13 sono poesie scritte in epoca adolescenziale (tra gli 11 e i 16 anni).
In questo nuovo volume avremo completa la “visione delle visioni”, leggere Thomas dagli esordi, osservandone la crescita dello stile e della forma poetica. Fin da subito appare ben definita la tendenza ad affrontare temi quali il mistero della vita, la nascita, la morte, il peccato soprattutto quello della carne, e l’amore. Come dice Sciuba nell’introduzione al testo: «l’unicità delle visioni e il linguaggio personalissimo, basato su strutture volutamente antitradizionali e metafore arditissime composte in un linguaggio, sebbene oscuro, sempre carico di una comunicatività prorompente, hanno attirato l’attenzione di critici e traduttori fin dalla sua morte» e Sciuba stesso ha riportato il mito di Dylan Thomas ancora più vivo e pulsante grazie a queste poesie finora sconosciute a molti.
Trasporre il significato di un componimento da una lingua all’altra è un lavoro arduo che accomuna i traduttori, e Sciuba con competenza e padronanza ha restituito all’originale testo a fronte l’aderenza al messaggio primordiale.
Interessanti le scelte linguistiche e i tentativi di mantenere alcune forme metriche ad esempio:
«There are many who say that a dog has its day[3]»
«Sono in molti a sapere che ogni cane ha un potere»
Mentre tra i vari cortocircuiti, interessante è questo:
«No tell-tale lover has an end more certain,
All legends’ sweethearts on a tree of stories,
My cross of tales behind the fabulous curtain.»
«Nessun amante cantastorie ha fine più certa,
Tutti gli innamorati del mito in un albero di storie,
Il mio crocifisso di fiabe dietro il sipario di favole[4].»
Sono molti i riferimenti all’Antico Testamento, diversi profeti ed episodi delle antiche scritture sono citati, e a questi vengono metaforicamente paragonati alcuni uomini contemporanei conosciuti dall’autore (es: il Sig. Jones La Torta[5]).
In questo volume della Crocetti si conferma un Thomas neo-romantico, dalla vita travagliata e dai temi ossessivi.
Tra le ombre, i vuoti nevrotici dell’umano e la consunzione del tempo, a tutti voi che mentre leggete Dylan Thomas immaginate di sentire la sua voce che tuona dissonante tra le folli visioni, buona lettura.
Da Eighteen Poems (1934)
If I were tickled by the rub of love
If I were tickled by the rub of love,
A rooking girl who stole me for her side,
Broke through her straws, breaking my bandaged string,
If the red tickle as the cattle calve
Still set to scratch a laughter from my lung,
I would not fear the apple nor the flood
Nor the bad blood of spring.
Shall it be male or female? say the cells,
And drop the plum like fire from the flesh.
If I were tickled by the hatching hair,
The winging bone that sprouted in the heels,
The itch of man upon the baby’s thigh,
I would not fear the gallows nor the axe
Nor the crossed sticks of war.
Shall it be male or female? say the fingers
That chalk the walls with green girls and their men.
I would not fear the muscling-in of love
If I were tickled by the urchin hungers
Rehearsing heat upon a raw-edged nerve.
I would not fear the devil in the loin
Nor the outspoken grave.
If I were tickled by the lovers’ rub
That wipes away not crow’s-foot nor the lock
Of sick old manhood on the fallen jaws,
Time and the crabs and the sweethearting crib
Would leave me cold as butter for the flies,
The sea of scums could drown me as it broke
Dead on the sweethearts’ toes.
This world is half the devil’s and my own,
Daft with the drug that’s smoking in a girl
And curling round the bud that forks her eye.
An old man’s shank one-marrowed with my bone,
And all the herrings smelling in the sea,
I sit and watch the worm beneath my nail
Wearing the quick away.
And that’s the rub, the only rub that tickles.
The knobbly ape that swings along his sex
From damp love-darkness and the nurse’s twist
Can never raise the midnight of a chuckle,
Nor when he finds a beauty in the breast
Of lover, mother, lovers, or his six
Feet in the rubbing dust.
And what’s the rub? Death’s feather on the nerve?
Your mouth, my love, the thistle in the kiss?
My Jack of Christ born thorny on the tree?
The words of death are dryer than his stiff,
My wordy wounds are printed with your hair.
I would be tickled by the rub that is
Man be my metaphor.
S’io fossi solleticato dal prurito d’amore
S’io fossi solleticato dal prurito d’amore
– Una prostituta s’impadronì di me con i suoi fianchi,
Sfondai la sua paglia lacerandomi il frenulo coperto –
Se il solletico rosso come un vitello partorito
Fosse ancora capace di strapparmi una risata dal polmone,
Non temerei la mela né il diluvio
Né l’empio sangue della primavera.
“Sarà maschio o femmina?” chiedono le cellule,
E lasciano cadere la prugna come fuoco dalla pelle.
S’io fossi solleticato dai capelli del nascituro,
Dall’osso alato germogliato nei talloni,
Dal solletico dell’uomo sulla coscia del bambino,
Non temerei il patibolo né l’ascia
Né i bastoni incrociati della guerra.
“Sarà maschio o femmina?” chiedono le dita che
Ingessano i muri con verdi ragazze e i loro uomini.
Non temerei l’irruzione dell’amore
Se fossi solleticato dalle voglie irritanti in
Continuo calore sopra un nervo dalla punta infiammata.
Non temerei il diavolo nei genitali
Né l’esplicita tomba.
S’io fossi solleticato dal prurito degli amanti
Che non cancella le zampe di gallina né il blocco
Di una virilità vecchia e inferma su mascelle cascanti,
Il tempo e le piattole e l’amorevole culla
Mi lascerebbero freddo come burro per mosche,
Il mare dei rifiuti potrebbe annegarmi come s’infranse
Morto sulle dita dei piedi degli innamorati.
Questo mondo è metà del diavolo e metà mio,
Impazzito per la droga fumante di una ragazza
Avvolta al bocciolo che le biforca lo sguardo.
Fusosi uno stinco di vecchio col mio osso
E con tutte le aringhe fetenti del mare,
Mi siedo a guardare il verme sotto l’unghia
Consumare l’essenza viva.
E questo è il prurito, l’unico prurito che solletica.
La scimmia gibbosa che oscilla il suo sesso dall’umida
Oscurità d’amore e il movimento della nutrice
Non potranno mai sublimare la mezzanotte d’un ghigno,
Nemmeno quando trova un incanto nel seno
Dell’amata, della madre, degli amanti, o della sua
Sepoltura nella polvere pruriginosa.
Cos’è dunque il prurito? La piuma della morte sul nervo?
La tua bocca, amore mio, il cardo nel bacio?
Il mio Jack di Cristo nato spinoso sull’albero?
Le parole della morte sono più aride del suo cadavere,
Le mie verbose ferite sono stampate nei tuoi capelli.
Vorrei essere solleticato da questo prurito:
L’uomo sia la mia metafora.
***
Da The Map of Love (1939)
I make this in a warring absence
I make this in a warring absence when
Each ancient, stone-necked minute of love’s season
Harbours my anchored tongue, slips the quaystone,
When, praise is blessed, her pride in mast and fountain
Sailed and set dazzling by the handshaped ocean,
In that proud sailing tree with branches driven
Through the last vault and vegetable groyne,
And this weak house to marrow-columned heaven,
Is corner-cast, breath’s rag, scrawled weed, a vain
And opium head, crow stalk, puffed, cut, and blown,
Or like the tide-looped breastknot reefed again
Or rent ancestrally the roped sea-hymen,
And, pride is last, is like a child alone
By magnet winds to her blind mother drawn,
Bread and milk mansion in a toothless town.
She makes for me a nettle’s innocence
And a silk pigeon’s guilt in her proud absence,
In the molested rocks the shell of virgins,
The frank, closed pearl, the sea-girls’ lineaments
Glint in the staved and siren-printed caverns,
Is maiden in the shameful oak, omens
Whalebed and bulldance, the gold bush of lions,
Proud as a sucked stone and huge as sandgrains.
These are her contraries: the beast who follows
With priest’s grave foot and hand of five assassins
Her molten flight up cinder-nesting columns,
Calls the starved fire herd, is cast in ice,
Lost in a limp-treed and uneating silence,
Who scales a hailing hill in her cold flintsteps
Falls on a ring of summers and locked noons.
I make a weapon of an ass’s skeleton
And walk the warring sands by the dead town.
Cudgel great air, wreck east, and topple sundown,
Storm her sped heart, hang with beheaded veins
Its wringing shell, and let her eyelids fasten.
Destruction, picked by birds, brays through the jaw-bone,
And, for that murder’s sake, dark with contagion
Like an approaching wave I sprawl to ruin.
Ruin, the room of errors, one rood dropped
Down the stacked sea and water-pillared shade,
Weighed in rock shroud, is my proud pyramid;
Where, wound in emerald linen and sharp wind,
The hero’s head lies scraped of every legend,
Comes love’s anatomist with sun-gloved hand
Who picks the live heart on a diamond.
“His mother’s womb had a tongue that lapped up mud,”
Cried the topless, inchtaped lips from hank and hood
In that bright anchorground where I lay linened,
“A lizard darting with black venom’s thread
Doubled, to fork him back, through the lockjaw bed
And the breath-white, curtained mouth of seed.”
“See,” drummed the taut masks, “how the dead ascend:
In the groin’s endless coil a man is tangled.”
These once-blind eyes have breathed a wind of visions,
The cauldron’s root through this once-rindless hand
Fumed like a tree, and tossed a burning bird;
With loud, torn tooth and tail and cobweb drum
The crumpled packs fled past this ghost in bloom,
And, mild as pardon from a cloud of pride,
The terrible world my brother bares his skin.
Now in the cloud’s big breast lie quiet countries,
Delivered seas my love from her proud place
Walks with no wound, nor lightning in her face,
A calm wind blows that raised the trees like hair
Once where the soft snow’s blood was turned to ice.
And though my love pulls the pale, nippled air,
Prides of to-morrow suckling in her eyes,
Yet this I make in a forgiving presence.
Compongo in un’assenza tormentata
Compongo in un’assenza tormentata, quando
Ogni antico minuto dal collo di pietra della stagione d’amore
Dà riparo alla mia lingua ancorata e allenta la bitta,
Quando – benedetta la lode – il suo orgoglio per l’albero
maestro e la fontana
Ha fatto vela abbagliando l’oceano dalla forma di mano,
In quel fiero albero maestro con i rami sospinti
Attraverso l’ultima blindata barriera vegetale,
E questa debole casa diretta a un paradiso dalle colonne-a-midollo
È gettata in un angolo, è uno straccio di respiro, una
malerba scarabocchiata,
Una futile testa d’oppio, uno stelo corvino gonfiato reciso
e scoppiato
Che come spilla avvolta dalla corrente ha ripiegato di
nuovo le vele
O ha lacerato il primordiale imene del mare legato,
E, ultimo viene l’orgoglio, è come un bambino solo
Trascinato da venti magnetici verso la madre cieca,
Magione di pane e latte in un paese sdentato.
Lei compone per me l’innocenza dell’ortica
E la colpevolezza di una colomba di seta nella sua fiera
assenza,
Nelle rocce disturbate l’involucro delle vergini,
La genuina perla chiusa, i lineamenti delle ragazze marine
Luccicano nelle grotte sfondate a forma di sirena
– C’è una vergine nella laida quercia, presagisce
Un letto di balena e una danza taurina, il dorato cespuglio
dei leoni
Fiera come una pietra consunta e vasta come granelli di
sabbia.
Tali sono i suoi contrari: la belva, che segue
Con piede solenne di prete e mano di cinque assassini
Il suo volo fuso sopra le colonne dai nidi di cenere,
Chiama il famelico gregge di fuoco, è congelata,
Persa in un silenzio senza fame come un albero storto,
Lei che scala una collina di grandine con i suoi freddi
passi-focai
Crolla in un cerchio di estati e meriggi serrati.
Creo un’arma dall’ossatura di un asino
E cammino sulle sabbie tormentate presso il paese morto.
Bastono l’immensa aria, rovino l’est e rovescio il tramonto,
Tempesto il suo celere cuore, appendo con vene decapitate
L’involucro ritorto, e lascio serrare le sue palpebre.
La distruzione, provocata dagli uccelli, raglia dalla mascella,
E, per il bene di quell’assassino, diffondo oscurità
E infezione fino alla rovina come l’incedere di un’onda.
Rovina, la stanza degli errori, un crocifisso crollato
Lungo il mare ricolmo e l’ombra di un pilastro d’acqua,
Pesata in un sudario di pietra c’è la mia fiera piramide;
Dove, avvolta in lino smeraldo e vento tagliente,
Giace la testa dell’eroe scuoiata di ogni leggenda,
Giunge il patologo dell’amore dal guanto di sole,
Che coglie il cuore vivo da un diamante.
“Il grembo di sua madre aveva una lingua che leccava il
fango”
Gridarono dalla matassa e dal cappuccio le labbraa-
petto-nudo lunghe un pollice
In quel luminoso terreno d’ancoraggio dove sono steso
nel lino
“Una lucertola che scaglia un filo di nero veleno
Si sdoppiava per riportarlo al bivio tra un letto di tetano
E la bocca velata del germe bianca come respiro.”
“Vedi,” risuonarono le inquiete maschere, “come
ascendono i morti:
Nelle infinite spire dell’inguine un uomo è stritolato.”
Questi occhi un tempo ciechi hanno respirato un vento
di visioni,
La radice del calderone attraverso questa mano un tempo
senza pelle
È evaporata in forma d’albero, e ha prodotto un uccello
di fuoco;
Con un vistoso dente strappato, una coda e un tamburo
di ragnatela
Le masse raggrinzite si sono dileguate oltre questo spettro
in fiore
E, mite come il perdono da una nuvola d’orgoglio,
Il mondo orrendo che svela mio fratello è la sua pelle.
Adesso nel grande seno delle nuvole giacciono placide
campagne,
Il mio amore dal suo luogo fiero cammina illeso
Sui mari emersi, non un fulmine sul suo viso,
Soffia un calmo vento che ha rizzato gli alberi come capelli
Dove un tempo il sangue della soffice neve divenne ghiaccio.
E sebbene il mio amore respinga la pallida aria del
capezzolo e
Gli orgogli futuri allattati dai suoi occhi,
Tuttavia compongo in una presenza indulgente
***
Da Poesie Sparse mai antologizzate (1930-1951)
No man believes
No man believes who, when a star falls shot,
Cries not aloud blind as a bat,
Cries not in terror when a bird is drawn
Into the quicksand feathers down,
Who does not make a wound in faith
When any light goes out, and life is death.
No man believes who cries not, God is not,
Who feels not coldness in the heat,
In the breasted summer longs not for spring,
No breasted girl, no man who, young
And green, sneers not at the old sky.
No man believes who does not wonder why.
Believe and be saved. No man believes
Who curses not what makes and saves,
No man upon this cyst of earth
Believes who does not lance his faith,
No man, no man, no man.
And this is true, no man can live
Who does not bury God in a deep grave
And then raise up the skeleton again,
No man who does not break and make,
Who in the bones finds not new faith,
Lends not flesh to ribs and neck,
Who does not break and make his final faith.
Nessuno crede
Nessuno crede a chi, quando passa una stella cadente,
Non grida forte e cieco come una talpa,
Non piange in preda al panico quando un uccello affoga
Giù nelle sabbie mobili con tutte le piume,
A chi non ferisce la fede
Quando scompare ogni luce e la vita è morte.
Nessuno crede a chi, senza piangere, pensa che Dio non
esista,
A chi non sente freddo nel calore,
A chi nel seno dell’estate non anela alla primavera,
A nessuna ragazza formosa, a nessun uomo giovane
E verde che non schernisce il vecchio cielo.
Nessuno crede a chi non si chiede il perché.
Credete e sarete salvi. Nessuno crede a chi
Non maledice ciò che crea e salva,
Nessuno su questa cisti di terra crede
A chi non trafigge la sua fede,
Nessuno, nessuno, nessuno.
E questo è vero, che non può vivere chi non
Seppellisce Dio in una tomba profonda
Per poi riesumarne lo scheletro,
Chi non distrugge e crea,
Chi nelle ossa non trova nuova fede,
Chi non dona la carne a costole e collo,
Chi non distrugge per creare la sua fede ultima.
[1] DYLAN THOMAS, Poesie inedite (Crocetti 2024), trad. Emiliano Sciuba
[2] DYLAN THOMAS, Poesie (Einaudi,1965), trad. Ariodante Marianni
[3] Poesie Inedite, The song of the mischievous dog, (Crocetti, 2024) Pag 194-195 trad. E. Sciuba
[4] Poesie Inedite, Today, this insect, (Crocetti, 2024) Pag. 51-53 trad. E. Sciuba
[5] Poesie Inedite, New Quay (Crocetti, 2024) Pag. 129-130 trad. E. Sciuba
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