Nota di lettura a "Poesie di solitudine e di rivolta" di Riccardo Bravi
La silloge di Riccardo Bravi, edita da Arcipelago Itaca, Poesie di solitudine e di rivolta, è un intricato gioco di rimandi intertestuali, un labirinto di versi lunghi. Già la lingua, come scrive Umberto Piersanti in prefazione, «ci comunica una condizione esistenziale prima ancora che generale anche, se non soprattutto, attraverso il suono: “sguazzano”, “guazzabuglio”, “tugurio”».
Poesie di Solitudine e poesie di rivolta sono anche le due parti che costituiscono la raccolta.
Nella prima domina la malinconia, più che la solitudine: nella poesia di Riccardo Bravi c’è il rimorso per un tempo perduto e non apprezzato, o compreso: una fiamma adolescenziale che ancora brucia. La malattia, realtà che lo affianca a compagni di viaggio molto ingombranti come Proust, Borges, Camus, sembra configurasi come capacità di sguardo e di accesso alle cose: «Purtroppo, però, le nostre comunicazioni grandiose (si parlava di / questo e di quell’altro, delle mie inquietudini ancorché ansiose) / finirono e ad un certo punto finì il passato».
Una poesia che vuole essere commistione di temi e linguaggi e che, se da un lato ne costituiscono l’ossatura e il carattere più interessante, sembrano come sbozzati: l’intuizione non prosegue verso l’esattezza della pronuncia poetica, caratteristica necessaria per la presenza di riferimenti a temi storico-sociali e contemporanei; bensì è la saggistica che sostiene i testi, come utensili concettuali attraverso cui dare corpo alle idea dell’io lirico.
I fatti del mondo anche se solo accennati, nel loro rimanere in secondo piano, fanno intendere che l’io poetico fa parte del suo tempo (Ucraina, Covid, questione ebraica) per citarne solo alcuni: «Arcigni, spenti di ardore ecclesiastico sentivamo le voci dei coloni /nella parte est / qualcuno inzuppava il suo humour nell’arak, qualcun altro / viveva facendo finta / che la terra gli era dovuta, occupando sempre più pezzi già /occupati e facendosene bello / coi compagni infagottati. Soli eravate ma non lo sarete sempre, la / Terra non vi sarà così/ riconoscente.».
Come scrive anche Piersanti nella prefazione «una rabbia che prima ancora di straripante, risulta acerba e un po’ afflitta da un maledettismo adolescenziale».
Nella seconda sezione il tono assunto diventa invettiva contro l’esclusione, contro l’università, contro la decadenza incombente, a cui contrappore «[…] la vita / nella «rivoluzione e nell’amore puri» (André Breton)»; e sebbene la riflessione collettiva e storica qui dominante «resti ancorata alla costatazione di un male, senza però esplorare strategie di risposta», come scrive Angelo Vannini nella postfazione, a sentirsi in controcanto è sempre un urlo individuale, che tenta la sua lotta contro le barbarie del sociale e della storia.
A G. C.
C’erano ceppi ammaestrati e risate sconfitte
avevi dentro il ritmo vitale che serviva a spezzare le mie giornate
abbrutite.
Purtroppo, però, le nostre comunicazioni grandiose (si parlava di
questo e di quell’altro, delle mie inquietudini ancorché ansiose)
finirono e ad un certo punto finì il passato:
era come se non fossi mai esistito, invece il mio tempo l’avevi
segnato.
La fiamma riarsa, il cielo incandescente
in un pomeriggio disperato;
ti servivi di tutto, non meno del tuo afflato.
La vera vita era presente in quei tempi,
il vero piacere degli spostamenti, degli anni grevi
che erano come un peso a sconquassarci i denti.
Eppure il nemico, quello vero era in agguato,
i demoni non si sono frenati di sfregiarti
fino a quando dirimpetti
della tua vita ti hanno privato.
Le idee
Ho avuto la possibilità di sovvertire le idee sin dalla tenera età;
le ho smembrate soverchiate raggrumate
dentro interstizi della coscienza inamidati:
ero l’uno ero l’altro ero plurimo e quant’altro;
ma in fin dei conti che conta esser altro se non si ha qualcuno accanto?
Il terremoto
Sento una rabbia in me
che è la “mesure” di un equilibrio fuori posto.
Sento l’umidità sulla pelle di un’estate finita
ancor prima di iniziare;
recalcitrano in me i momenti di quando ero bambino
quando ho vissuto l’abbandono di un padre
è stato come se la terra si sfaldasse
per la potenza di un terremoto di intensità nove gradi
della scala Richter.
*
La nostra originalità
Il tempo che ci divide
dall’allegoria dei nostri mondi
è un tempo che non esiste.
Appena lo pronuncio è già passato.
La poesia è l’unico antidoto contro il disfacimento dei corpi
vita e carne
in rivolta contro demoni malintenzionati a squarciare la nostra
originalità.
Riccardo Bravi è nato a Chiaravalle (AN) il 14/10/1986. Laureato in Lingue e Letterature Straniere presso l’Università degli Studi di Urbino Carlo Bo, è autore delle seguenti pubblicazioni: Claudel e il teatro del mondo. Le Soulier de satin (prefazione di Massimo Raffaeli, Aracne 2019); La poesia, tra due mondi. Saggio sulla funzione dell’«immagine» in Yves Bonnefoy (prefazione di Alberto Fraccacreta, Aracne 2020); Poesie di solitudine e di rivolta (prefazione di Umberto Piersanti, postfazione di Angelo Vannini, Arcipelago itaca 2021); Train de vie (nota critica in risvolto di copertina di Daniele Piccini, Italic peQuod 2022). Collabora con “Il Foglio” e con la pagina online del “Sole24OreCultura”.
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