Nota di lettura a «Non scusarti per quel che hai fatto» di Mahmoud Darwish
La poesia di Mahmoud Darwish è intrinsecamente politica: ma di una politica alta, spirituale. Nella sua ultima raccolta Non scusarti per quel che hai fatto (Crocetti 2024), l’esilio, il dolore del non ritorno, l’impossibilità di abitare lo spazio del cuore, l’assenza di un orizzonte nominabile e riconoscibile rappresentano, insieme alla «poetica della resistenza», i tratti caratteristici dell’ultima evoluzione poetica del nostro autore.
Darwish è poeta errante per essenza. Nato nell’Alta Galilea nel 1941, finisce a sette anni in esilio tra l'Europa, l'Egitto, il Libano; rientra più tardi in Palestina (ma non nel suo villaggio, nel frattempo distrutto) e resta attivo nella militanza politica per anni, subendo anche diverse incarcerazioni. Ma il suo rimanere attivo consiste soprattutto nell’essere soggetto di parola: il suo impegno politico si incarna in primis nella scrittura.
Non scusarti per quel che hai fatto rappresenta la summa dei temi e dei toni di tutta la sua precedente produzione poetica. L'amore per la Palestina è presente ovunque, sia nell’allusione malinconica alla sopraffazione politica subita, sia nella nostalgica evocazione delle persone, dei luoghi e delle cose irrimediabilmente perdute.
Ho la saggezza del condannato a morte:
non possiedo niente perché niente mi possieda,
scrissi il mio testamento con il mio sangue:
“Confidate nell’acqua, oh abitanti del mio canto”.
Poi mi addormentai imbrattato e coronato dal mio
domani…
Sognai che il cuore della terra è più grande
della sua mappa,
e più chiaro dei suoi specchi e della mia forca.
Sognai una nuvola bianca che mi portava più in alto
come fossi un’upupa, e il vento le mie ali.
E all’alba fui svegliato dal mio sogno e dalla mia lingua
dalla chiamata della guardia notturna: “Vivrai un’altra
morte,
cambia le tue ultime volontà,
l’esecuzione è stata rinviata una seconda volta”.
Domandai: “Fino a quando?”.
Disse: “Aspetta ancora per morire di più”.
Dissi: “Non possiedo niente perché niente mi possieda”.
Scrissi il mio testamento con il mio sangue:
“Confidate nell’acqua
oh abitanti del mio canto!”. Ho la saggezza del condannato a morte:
non possiedo niente perché niente mi possieda,
scrissi il mio testamento con il mio sangue:
“Confidate nell’acqua, oh abitanti del mio canto”.
Poi mi addormentai imbrattato e coronato dal mio
domani…
Sognai che il cuore della terra è più grande
della sua mappa,
e più chiaro dei suoi specchi e della mia forca.
Sognai una nuvola bianca che mi portava più in alto
come fossi un’upupa, e il vento le mie ali.
E all’alba fui svegliato dal mio sogno e dalla mia lingua
dalla chiamata della guardia notturna: “Vivrai un’altra
morte,
cambia le tue ultime volontà,
l’esecuzione è stata rinviata una seconda volta”.
Domandai: “Fino a quando?”.
Disse: “Aspetta ancora per morire di più”.
Dissi: “Non possiedo niente perché niente mi possieda”.
Scrissi il mio testamento con il mio sangue:
“Confidate nell’acqua
oh abitanti del mio canto!”.
Con la sua carica vitale e linguistica, Darwish esplora la memoria e l'oblio, riflettendo sulla caducità del tempo e sulla necessità – per chi è sprovvisto di un luogo a cui tornare – di ricordare e testimoniare il proprio mondo.
Ma qui niente resiste, tutto sfuma, eppure tutto resta, tutto è presente: sono questi i sentimenti e i pensieri di un poeta migrante, costretto dal destino a peregrinare, a concepirsi apolide, e allo stesso tempo con la necessità di organizzare una lingua che possa dare forma alla propria storia umana, politica e culturale.
Darwish innesta la sua poetica sulle radici della lingua madre, cercando di abitarla appieno per poter così offrire un rifugio alle cose perdute e smarrite del mondo.
In conclusione – semmai sia possibile concludere qualcosa – Non scusarti per quel che hai fatto si rivela testimonianza poetica potente della condizione umana, della lotta per l'identità alla ricerca di un luogo chiamato casa.
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