Nota di lettura a "Maceria" di Francesco Lorusso
«Parevano gli ultimi e insignificanti sussurri di inchiostro, macchie o, meglio, brecciolino fastidioso e sdrucciolevole. Ma questa macerie era fatta di pietra “viva” e stava invece nascondendo e componendo il muro di un edificio e di un confine che si stava già nuovamente innalzando e superando». In calce alla propria opera (Maceria, Arcipelago Itaca, 2020) Francesco Lorusso così descrive il percorso che ha portato all’elaborazione di un testo poetico così rarefatto quando non propriamente difficile. Sì, perché seguire i tagli e gli accostamenti di parole e immagini di Maceria implica uno sforzo, una presenza forte, per non dire fortissima, da parte del lettore.
La verità però è che per apprezzare lo sperimentalismo insito in quest’opera bisogna accettare di perdere in partenza la battaglia con un tipo di comprensione esplicita e piena. Sperimentalismo, dico. Però lontano da quel virtuosismo di maniera e intellettualistico di certe avanguardie. Lorusso vuole, senza proclami ma anche senza sconti, risalire alla fonte di quell’esperienza poetica che parte inevitabilmente dalla presenza immancabile del soggetto, il quale rielabora l’esperienza dell’esistenza senza più ricorrere ad appigli comunicativi, ma anzi rifondando l’atto stesso del nominare le cose e gli eventi per trovare nuovi agganci e spiragli di comprensione. Come lucidamente sottolinea Giacomo Leronni nella prefazione dell’opera, però, il soggetto qui non è presente in quanto testimone di uno sguardo, quello poetico, costitutivamente diverso da tutti gli altri, bensì in maniera esclusiva come «facitore di linguaggio».
La mancanza di una qualche progressione o scansione narrativa del libro (rivelata soprattutto dall’assenza di una divisione in sezioni e da qualsiasi forma paratestuale), rivela proprio il carattere di una poesia che guarda all’attimo ma non va oltre, che non fa esperienza ma rimane, pronta a sbocciare («perso fra le panchine / fiorisce un vortice / attorno ad una rima» o ad allontanarsi («parole divenute ostili») in maniera del tutto imprevista e casuale.
Quali sono allora i temi rintracciabili in questa raccolta volutamente così frammentaria, episodica?
Uno, che ritorna e lambisce le parole più volte, è il silenzio. Non il Silentium di mistica matrice, bensì un silenzio che è constatazione di una continua e definitiva assenza, quella del senso. In quest’ottica, allora il silenzio, l’attività che prelude al raccoglimento dell’immagine poetica, serve a catturare i frammenti di un significato che appare, ma che poi si sfalda nell’incongruità dell’esperienza. («Trovi il silenzio aspettare / in sosta oltre la svolta»).
Un silenzio, quindi, che non rivela nulla perché nulla sembra esserci da rivelare, se non propriamente questa «essenza senza senso / che si percepisce sempre nei presenti»
Contrapposto al silenzio, però appare anche il tema della luce, che arriva sempre inaspettata e rinnova, seppure per poco e illusoriamente, lo sguardo, trovando una nuova connessione, un lampo inconsueto di calore, un sorriso rubato (e proprio il caso di dirlo) dalle macerie. Allora, nonostante la consapevolezza dell’oscurità stessa del vero linguaggio, solo «la lingua la conosce / quella sua foga di attimo» e le parole si trasformano in «sapidi semi».
Poesia dunque priva di fronzoli, scarna nel tentativo di ridurre il tutto a un’immagine, a un frammento, quanto poesia che vuole mostrare le ossa, la durezza dell’essere e la rigidità dello stare al mondo («il disagio e il cosmo / coesistenti come unico fondo»).
14.
È stato uno strappo
finito nelle vampe del vento
un’onda posseduta dall’ombra
di quella parola nata troppo corta.
Un colpo distolto e già riposto
immutato come era prima.
La copertina distante respinge il colore
e nasconde lievemente la cicatrice tra le parole
15.
Si svelano i sapidi semi
che ci conducono al giro
come il sogno di una donna
ottenuta dalla carta di mano.
L’arco inerte del cielo
raccoglie il mistero
nella linea nuda perduta
col nostro comparire continuo.
Risulta incisa solo sul tavolo
la linea di una fortuna leggera
che fa aprire la stella ritrosa
rimasta sempre giunta in preghiera.
27.
Solo la lingua la conosce
quella sua foga di attimo
o la forza del nettare,
con l’aprirsi oltre la luce
in soli pochi margini,
nell’arco di un inganno
teso silenziosamente alla notte.
42.
La cosa può restare questa stessa
senza neanche uscire dall’imprevisto
o dalle precise porte che la fissano
con legacci minimi a povere parole
aspetta nuove coniugazioni di linea
sulla loro perimetrale
da dove registrano la perdita
in ricchi volumi di gente
spicchi di aromi che si sprigionano
assieme ai loro motori comodi
e al vizio di un rilevatore climatico.
Il battente adesso stagna con lo stipite cavo
cardine ancora di questa calma a sorpresa
che mantiene fra di noi la diagonale perduta.
Francesco Lorusso, musicista e poeta barese, è nato nel 1968. Sue poesie e letture critiche sono apparse sulle riviste “Poesia”, “Atelier”, “Anterem”, “incroci”, “Il Segnale” e, online, su siti quali, tra gli altri, “Sulla Letteratura (On Literature)”, “La Recherche”, “Poetarum Silva”, “Cartesensibili” e “Imperfetta Ellisse”. In volume ha pubblicato: Decodifiche (Verona, Cierre Grafica 2007) con prefazione di Flavio Ermini, L’Ufficio del Personale (Milano, La Vita Felice 2014), con prefazione di Daniele Maria Pegorari, Il secchio e Lo Specchio (Lecce, Manni Editore 2018) con nota introduttiva di Guido Oldani.
Ringrazio Giuseppe Cavaleri,
per la bella e precisa lettura del mio libricino, Maceria, dichiarandone la non immediatezza di lettura, evidenziando i miei tentativi di lavorare la parola e sviscerando gli elementi conduttori della raccolta.
Un grazie a Alma Poesia per lo spazio concessomi.
Un saluto alla Redazione e a tutti i lettori di questo interessante luogo di incontro poetico.
Francesco Lorusso