Nota di lettura a "La lingua della città" di Mara Venuto
Qual è la lingua della città? Quale parole usa? E, soprattutto, cosa sta provando a dirci?
La riflessione profonda che Mara Venuto sviluppa all’interno della sua ultima raccolta, intitolata appunto La lingua della città (Delta 3 Edizioni 2021), si fonda proprio sulla corresponsione tra il linguaggio e il contesto spaziale in cui esso è usato e che, quindi, va a rappresentare: esistono termini capaci di raccontare un luogo in tutte le sue sfaccettature, nella sua anima, e ci sono luoghi che, dentro un certo vocabolario, acquisiscono una seconda dimensione, una costruzione nuova.
Venuto, già nella scelta della forma poetica, è non solo perfettamente conscia di questa bi-direzionalità, ma è anche consapevole che per potere dire riguardo a qualcosa di complesso e contraddittorio, come ciò che una città contiene, occorre uno strumento che tali complessità e contraddizioni sappia contenerle e restituirle in una forma capace di farci acquistare una visione lucida sulle stesse, e la poesia, in questo senso, è strumento efficacissimo. Lo è, soprattutto, per il lavoro di cesello che Venuto ha compiuto sulla parola e sul verso, depauperandolo da ogni elemento di arzigogolo e rendendolo freccia che affonda nell’intimità delle cose per guizzare, poi, verso un esteriore alto, quello di chi sa che è necessario guardare lontano per potere vedere. La Taranto cantata in questo lavoro è intrisa di dolore, di sporco morale e, allo stesso tempo, di bellezza e di forza: essa incarna, senza bisogno di aggiungere orpelli rispetto a quello che accade nella realtà, le azioni di uomini e di donne, atti a creare così come a distruggere; Venuto ci restituisce, attraverso una poesia di scavo ed esplosione, l’ambivalenza del fare umano e, dunque, del suo essere, avvalendosi dell’elemento spaziale, non tanto come personificazione bensì, piuttosto, in qualità di specchio o di cartina tornasole. Su Taranto è giorno e poi è notte: i cicli si alternano, si compiono, la vita e la morte passano tra le onde del mare, nelle reti dei pescatori e dentro le case, dove sembrano abitare più assenze che presenze; c’è un buio, di colpe, di responsabilità, di silenzi e una voce – elemento centrale di tutta la raccolta – chiamata a dare voce, a ripopolare i vuoti, a ri-costruire la speranza.
Giorgio Galli, che firma la prefazione a La lingua della città, scrive che quest’opera è «il canto di dolore della città di Taranto: un dolore fatto di esistenze spezzate, di paesaggi aridi e devastati, di vite operaie cariche di dignitosa amarezza.»; perché Venuto, con coraggio, attraversa la devastazione (che è, anche, disillusione) passando dalla sofferenza atavica del singolo, per mostrarci come il male grande, di un paese, di una città, di una nazione, parta e finisca sempre in quell’uno che siamo o possiamo essere tutti. Ed è da lì, dalla coscienza di ognuno di noi, che bisogna ripartire, rimettere le barche in mare e riprendere, con etica e rispetto, la navigazione.
Sui ponti l’inizio ricorda la fine,
il verso comincia dove giunge,
nel mezzo la luce cade e
si rintana nel grembo della madre.
Non ha cresciuto figli,
li ha lasciati al buio della strada
alle fiamme del camino, il più feroce dei focolari.
Quegli orfani amano come Dio,
non ricordano, hanno pietà,
scrivono sulla polvere la lingua della città.
*
Anima mia anima del suolo
gretto pestato fratto.
Una nenia scolora la luce
cade dai rami in gocce di tempesta,
una pozza si apre un varco
dove calzare i piedi,
uno specchio per le ombre
romperle e lasciare il vuoto
un istante prima della nuova forma.
Gli acuti riempiono le bocche
escono fantasmi di generazioni e intenzioni,
e i giovani aironi lasciano la terra.
*
Vincenzo,
la terra e i suoi dolori ti paiono grappoli d'uva,
muschi odorosi dove posi i piedi,
la grazia di Dio alla tavola dei vinti.
L'erba e le lacrime del mattino
ti ricoprono, affondi su un cuscino di taràssaco
soffi la purezza dentro le bocche,
il perdono dei maledetti e la fine.
Vincenzo,
la città non ti riconosce più,
ti vede lontano, vestito senza tempo senza età.
Non parli e ridi, ridi, ridi
*
Non c’è verso che possa unirmi alla città
in sillabe che finiscono. Inutile esercizio
le poche parole della mia vigliaccheria,
incapaci a dire ciò che si dovrebbe,
un respiro senza affanno. Mi ricordo
quando all’alba tornavamo al porto,
vagoni con l’innesto di acciaio al corpo della madre.
Le rotaie della ferrovia le vedevamo dall’alto,
braccia e gambe torte, le membra di un’anima
che vanno staccandosi. Anni ci sono dovuti
per sentirci interi, e non eravamo più noi,
eravamo altri.
Mara Venuto è nata a Taranto, vive a Ostuni. Tra le sue pubblicazioni: i monologhi teatrali Leggimi nei pensieri (2008) e The Monster (2015, testo finalista al Mario Fratti Award 2014 di New York per la drammaturgia italiana); le raccolte poetiche Gli impermeabili (2016, menzione di merito al Premio internazionale Piero Alinari 2014) e Questa polvere la sparge il vento (2019, opera segnalata al Premio Bologna in Lettere 2018 - Sezione Raccolta inedita di poesie; menzione speciale al Premio Internazionale di Poesia Don Luigi Di Liegro 2020 - Sezione Raccolta edita di poesie). Ha curato e pubblicato numerosi altri volumi, tra cui un ciclo di pubblicazioni al femminile.
Sue poesie sono state tradotte e pubblicate in polacco, inglese, russo, hindi, albanese e spagnolo.
È inclusa in una trilogia di monografie dedicate alla poesia italiana femminile contemporanea
(Macabor Editore, 2017). È stata ospite di Festival internazionali di Poesia, tra cui il IX Festival di Poesia Slava a Varsavia nel 2016. Suoi testi e corti teatrali su tematiche sociali - The Monster; Gli Eroi; Faith; Zitti zitti; Miché; N.N.; Gli Argini di Spoon River - sono stati premiati in ambito nazionale e internazionale e rappresentati con buon riscontro di pubblico e critica. A maggio 2021 è uscita la sua ultima raccolta poetica La lingua della città (Opera segnalata al Premio Bologna in Lettere 2020 - Sezione Raccolta inedita di poesie) nella collana Letture meridiane diretta da Eleonora Rimolo per Delta3Edizioni.
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