Nota di lettura a "L'ottavo giorno" di Gianni Ruscio
Leggere L’ottavo giorno, l’ultima raccolta di Gianni Ruscio uscita per Oedipus nella scorsa primavera, secondo i criteri tradizionali con cui ci si approccia a un libro di poesia è certo un’operazione sommaria e inconcludente, così come andare alla ricerca di una qualche trama sotterranea, di una chiave che aiuti a decifrare un linguaggio talvolta oscuro, se non addirittura criptico, o valutare la progressione della sua scrittura, l’incedere della parola per trovare l’approdo, la salvezza.
La verità è che per comprendere la ratio che guida la penna di Ruscio è necessario guardare dal di dentro quella deflagrazione che genera la sua poesia, lasciarsi travolgere dall’onda d’urto che ne deriva, andare, insieme al poeta, a raccogliere i pezzi sparpagliati, suturare le ferite, riempire le fessure che si sono aperte, rintracciare insomma il vulnus originario da cui il suo gesto trae spunto, e in qualche modo nutrimento. Si potrebbe addirittura affermare che per certi versi la scansione esatta di questa raccolta, al netto di riferimenti religiosi di cui si dirà oltre – e che comunque svelano un retroterra filosofico e spirituale ben più profondo di quanto si possa intuire dalla superficie – sia un primo indispensabile tentativo di dare ordine al disordine e che occorra guardare al di là di quello squadernare le giornate, pensandole non come contenitori, o come incerti confini temporali, ma piuttosto, tutte insieme, come il diario convulso di una ricostruzione dell’io – sempre però in una dialettica incessante con quella decostruzione che incombe.
Se si vuole appunto andare al midollo di questo libro non si potrà prescindere poi da alcuni tratti precipui della sua scrittura. Anzitutto dalla consapevolezza che le parole per Ruscio non sono mai semplici medicamenta, ma che esiste una coesione intima, quasi sanguigna, tra il linguaggio e l’io. Ce lo ricorda in apertura in quella che pare, a tutti gli effetti, una lirica proemiale, quando ci dice che in quel «vuoto» che ci implode dentro, in quella «fessura» «passa / ci attraversa, come corrente /come vento, il linguaggio» – e altrove ci parlerà delle «sillabe della pelle» a rimarcare quella corporalità della parola che resta un tratto costante. La lingua, insomma, con tutto il suo carico di suoni, con la superficie ruvida del suo significante che, prima ancora di raggiungere e accogliere il significato, è un approssimarsi alle cose per definirle e farle proprie. Si dovrà poi constatare, in seconda battuta, come esista un’unione, altrettanto tenace e inscindibile, tra il dentro e fuori, tra il corpo e il cuore, di come cioè non ci sia una separazione tra la pelle, le ossa e quello che ci brucia dentro, di come quelle fenditure, quelle ferite, quei tagli che affliggono il corpo siano spade affondate fin dentro l’anima e la malattia ci prenda fino alle radici, fino al midollo.
La scissione è certo un elemento fondante di questo libro, come si sarà compreso, e la successiva, necessaria ricomposizione ne attraversa le pagine, una scissione che diviene talvolta moltiplicazione, che da quella rottura iniziale, e in un certo senso primigenia, tra l’io e l’altro conduce a una selva di soggetti, di destinatari, di voci che talvolta si sovrappongono: il “tu” che sta dentro e fuori di noi, il “tu” come specchio dell’ “io” o come altro da sé e l’io frantumato, scomposto, a pezzi che cerca di riassemblarsi, di riunirsi, di tornare all’uno. Tutto nell’universo apparente di una stanza che si misura nello spazio tra il letto e la finestra, con il mondo che respira fuori e prende colore in pochi luoghi sparpagliati, nei passi che ci separano dalla tavola, dove troveremo la tovaglia ben stirata, il pane da spezzare, il vino e la nostra comunione.
Da questa “ultima cena” in cui l’Io stesso si offre come “corpo” – un corpo, ancora una volta, «sfilettato» e dilaniato – si potrebbe agilmente muovere per illuminare quel microcosmo di elementi religiosi che si intravede talvolta in trasparenza, altrove in maniera più ostentata. Se è vero che i sette giorni sono una concessione piuttosto chiara alle parole della Genesi, e prima ancora a una tradizione complessa che affonda in tempi ancor più remoti, è altrettanto vero che la parte più consistente di questo libro è in quell’ottavo giorno, al di là della creazione di tutto, quando il gesto oramai si è compiuto, e l’uomo da solo deve costruire e ricostruire, fare i conti con la propria finitezza, sperimentare la drammatica nostalgia del tutto. E in quell’ottavo giorno il pane si spezza ancora, la tavola si apparecchia un’altra volta e alla fine di tutto, sopravvive la parola, quella “lanciata”, quella “data” e quella “ricevuta”, quella uscita dalle fessure dell’io che si è fatta luce. E così sia.
Rigurgitano ancora sangue
le valigie di casa. Esce e non senti
che da queste vene innevate
non possono ancora, le labbra,
scandire il tuo nome.
*
Cuore steso e sconosciuto.
Il sangue sfuggito
dalle crepe:
ritorniamo, ve ne supplico,
al nostro carteggio letterario.
*
Concentravi tutto l’amore
dietro le mani di Roma.
A Termini il mare era un’arca
senz’arpa, e il fumo scivolava nelle tempie.
Ogni concerto intorno al lumino
della coscienza
poteva essere spento
o acceso, innocenza per innocenza.
*
Orli e coralli, brandelli di carne,
brani di pelle, coratella freschissima
apparecchiati nella stanza
del pianoforte. Una gialla tovaglia
per celebrare le gocce
nascoste dal lungo addio delle membra.
Siamo pronti per questa comunione
universale…
Mente per mente, raccogliamo la sabbia
del nostro demone alato: che inizi il canto
più leggero del creato.
Gianni Ruscio è nato a Roma nel 1984. È musicoterapista all’Antennina 00100, comunità diurna e residenziale per adulti e minori autistici con disagio psicosociale. Ha pubblicato le raccolte di poesie Amore è l’errore (2008), Nostra Opera è mescolare intimità (Tempo al Libro 2011), Hai bussato? (Aler Ego 2015), Respira (Ensemble 2016), Interioranna (Algra 2017), Proliferazioni (Eretica 2017). Attualmente è redattore della rivista Inverso - giornale di poesia.
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