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Immagine del redattoreFrancesco Destro

Nota di lettura a "Itaca deserta ruggine" di Francesco Randazzo

Si potrebbe definire un viaggio nell’assenza, quello che ci racconta con i suoi versi Francesco Randazzo in Itaca deserta ruggine (Fara Editore, 2020).

Una raccolta dedicata a una riscrittura della figura e del mito di Ulisse, in cui dall’assenza sgorgano non tanto la nostalgia quanto, soprattutto, rammarico e rimpianto. Sentimenti che si intrecciano ad ammissioni di colpevolezza, manchevolezza e finitudine, riscrivendo il rapporto con l’amore, gli dèi e il proprio destino.

La voce dell’aedo è sostituita da quella di Odisseo, che in prima persona ci rende partecipi di una credibilità (o menzogna?) soggettiva, con un’espressione diretta del rimpianto, dell’ossessione, del lamento.

In questo poemetto, agile e nervoso al contempo, elementi del mito greco s’intrecciano a una visione ben più contemporanea, proiettando e sintetizzando l’epopea di Ulisse ai tempi nostri.

Nel corso della lettura si conferma più volte l’impressione di «una memoria che è sempre in movimento», come suggerisce in un accenno iniziale Salvatore Ritrovato, con sguardi sì ravvicinati sulle cose e le donne che ha amato, ma comunque nebbiosi, come sottolinea invece Pippo Ruiz nella postfazione. Un io poetante che ha bisogno di ricordare, dunque, un Ulisse che si è «perso nel labirinto d’acqua dell’inquietudine» dopo aver «vagato su mari e terre, in fuga e ricerca, forsennato, egoista, scaltrissimo vigliacco, perché tutto della vita mi spaventava».

Un navigante, un naufrago divorato da sé stesso, dai suoi amori e dalla sua disperata ricerca di un senso che continua a sfuggire: una narrazione che, a tratti, nel suo sviluppo viene affidata alla voce di alter ego quali la figura di Penelope, anch’essa rovesciata nel suo ruolo di attesa.

Quella di Randazzo è una rivisitazione vivida nelle sue intuizioni e intelligente nei suoi rimandi al presente, con un particolare valore nel descrivere quel multiforme e sopracitato viaggio nell’assenza. Assenza che immagino nel suo significato primordiale, ovvero “essere lontano”, con un protagonista che potrebbe essere specchio di ciascuno di noi: tormentato e forse disgiunto e distante in primis da sé stesso, incapace di godere dei suoi stessi sforzi, in fuga sia dal già noto sia da ciò che gli si porrà davanti nel suo prossimo futuro.



Piove ad Itaca, dal mio arrivo. Le onde dabbasso

si frangono in spruzzi, dall’alto si schiantano gocce

rabbiosamente tristi, risuonano sul metallo e sembra

che la ruggine si sciolga in sangue velenoso, corrosivo.

Tutto è rimpianto, eppure niente mi sembra mio quanto

questo simulacro di casa, questa tomba di famiglia.


Da qui trivellavo le profondità marine, io furbo,

imprenditore, manager intraprendente: petrolio o gas

– dicevo – Superata l’acqua c’è il fondo, e sotto la ricchezza,

da qui estrarrò potenza, energia e denaro! Questo è il mio Regno.

Quanta solitudine, nel potere e nel denaro, mi aggiravo rabbioso.

Perché nulla poteva bastarmi, nulla aveva senso e la vita soltanto

accumulo ottuso. Guardavo il mare con lo sconcerto e il panico

che avrebbe potuto spazzarmi via in un momento, e di me niente

sarebbe rimasto, se non la menzogna di un’esistenza vana.


Tutto è vanità tranne il cercare, l’andare, il navigare l’acque,

e incontrare, conoscere, in movimento diritto e pendolare,

nel tragitto tortuoso, nel groviglio serpentino della spinta,

il senso dell’assurdo vitale, fino allo specchio che sta in fondo

ad ogni strada. Anche questo mare e questa piattaforma sono

lo specchio in fondo al mio cammino, mi ci rifletto e vedo,

tra ricordi e rimpianti, il branco di pesci migranti che mi abita.

Un pescecane ha spezzato i suoi denti

sulla mia coscienza, morendo esausto.


*


Tutto è vanità tranne il cercare, l’andare, il navigare l’acque,

e incontrare, conoscere, in movimento diritto e pendolare,

nel tragitto tortuoso, nel groviglio serpentino della spinta,

il senso dell’assurdo vitale, fino allo specchio che sta in fondo

ad ogni strada. Anche questo mare e questa piattaforma sono

lo specchio in fondo al mio cammino, mi ci rifletto e vedo,

tra ricordi e rimpianti, il branco di pesci migranti che mi abita.

Un pescecane ha spezzato i suoi denti

sulla mia coscienza, morendo esausto.


*


Ho vagato su mari e terre, in fuga e ricerca,

forsennato, egoista, scaltrissimo vigliacco,

perché tutto della vita mi spaventava, ero,

sono, sarò, sempre, come quel punto che si muove,

forsennato, infinitamente piccolo, spinto, sparato

a velocità supersonica da scienziati che si credono Dei,

in un acceleratore di particelle, fino all’ultimo schianto,

ineluttabile, che si conclude nella scoperta del fallimento,

con l’ansia di trovare esigui frammenti infinitesimali,

che possano dare un senso e una spiegazione all’esistenza.

Non c’è forse nient’altro che giustifichi la vita,

se non la spinta stessa e il pulsare, senza meta,

sapendo, in ogni cellula, in ogni atomo di sé,

che tutto il mondo non è che un grano di polvere,

soffiato da un Dio indifferente, che ci ignora.


*


Voi donne che ho amato e rifuggito, voi tutte mie struggenti amiche amori,

voi tutte, preparate un funerale, vestite l’aria e date fuoco sacro, l’ultimo,

a me, alle cose che di me vi restarono, alla stupida brama mia di fuga,

bruciate sulla pira dell’espiazione, il mio ricordo vestito all’occasione.

Non vestitemi con l’abito più bello, quello meno mio,

mettetemi una camicia ben stirata e un maglione caldo,

coi bottoni, i pantaloni di velluto, o quelli di fustagno

della mia infanzia. Trovate, insomma, quel che mi diede

conforto e piacere, calore nel muovermi per il mondo,

abbracciato da abiti che in me sentivano l’agguanto della vita.

Quello sarò io. E brucerò per voi. Ancora, un’ultima volta.

Il fumo sorvolerà tra mari e terre, supererà montagne di disperazione,

ed oltre le colonne d’Ercole della mia sconosciuta esistenza, si dissolverà.



Francesco Randazzo si è laureato in Regia all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio D’Amico” di Roma nel 1991. Siciliano della diaspora, sovente col cervello in fuga all’estero, è scrittore e regista. Ha pubblicato, con vari editori, testi teatrali, poesie, racconti e tre romanzi; ha ottenuto numerosi riconoscimenti in premi e festival nazionali e internazionali. Molti suoi testi teatrali sono stati rappresentati all’estero e tradotti in inglese, francese, spagnolo, ceco, sloveno. Ha svolto attività didattica con corsi di recitazione, regia, drammaturgia e scrittura creativa, storia dello spettacolo, stages e conferenze per varie istituzioni pubbliche e private. Ha creato e gestisce il blog Mirkal. Delle Arti e delle Lettere e Ozarzand (questo non è un diario). Per la webzine Maredolce.com cura la rubrica “Le lettere di Woland”. Ha pubblicato i seguenti libri di poesia: Come un pesce azzurro, Edizioni Il Filo, 2003; Di traverso, Photocity Edizioni, 2013, Premio Fondazione Di Liegro (Premio della Giuria); “Enueg”, in Se soltanto partissimo, antologia a cura di Dacia Maraini e Letizia Leone, edizioni L'Erudita, 2014; Alito e calce, Edizioni Ensemble, 2017; Infidelis peregrinatio, Ozarzand Studio Press, 2018; Tre poesie in Premio Poesia a Napoli, Guida Editore (vincitore sezione italiano), 2020; Itaca deserta ruggine, Fara Editore 2020, Premio Narrapoetando.

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