Nota di lettura a "Fioriture invernali" di Luca Campana
La poetica di Luca Campana è fortemente segnata dal bisogno di rintracciare uno stato dell’essere che, nell’immediatezza dello sguardo, sembra non offrirsi mai nella sua interezza. Per ovvie ragioni, l’incessante ricerca di un sostrato è inglobata nella successione ciclica dei fenomeni naturali. Di conseguenza, ogni caotico scorcio quotidiano è da includere pur sempre in un quadro più ampio, che presenta un procedere unitario e omogeneo che spesso sfugge a uno sguardo disattento.
Da qui, la silloge Fioriture invernali (Interno Libri Edizioni, 2021) prende corpo da un apparente paradosso: cercare la mancanza di contraddizioni immergendosi a capofitto nelle contraddizioni stesse.
Soffermarsi su questo aspetto significa, in primo luogo, notare come l’autore mostri quanto l’azione di intingersi nel divenire possa portare riscontri soltanto frammentari. In altri termini, agendo in tal modo si diventa possessori di un puzzle i cui pezzi sono piccole dimostrazioni che fanno leva su una meticolosa attività deduttiva praticamente sterile per i fini preposti.
Per unire tutti questi brandelli e formare i tratti della permanenza inseguita in ogni campo, Campana chiarisce il bisogno di effettuare un salto che superi i limiti razionali e dipani il paradosso di cui si diceva poc’anzi. Ecco perché la voce di quest’articolato processo contenuto nella raccolta ha inevitabilmente un’intonazione poetica.
La tensione accumulata nella ricerca, derivata da atti e movimenti psichici incessanti, trova sfogo soltanto nei versi. Così, i vari componimenti ripercorrono l’aspetto assunto da ogni tappa del percorso e si spingono al punto da offrire la definizione metaforico-artistica dell’intero agire che scalfisce (e, in egual misura, invera) l’indagine geometrico-deduttiva.
Analizzata da questo punto di vista, quella di Campana è innanzitutto l’illustrazione poetica della resistenza alle avversità e al tempo. Proprio in merito, si legge tassativamente nella silloge: «Parlo di quanto resta / quando tutto è sciamato altrove». Pertanto, risulta inevitabile sottolineare che la voce dell’autore non è sostenuta, così come potrebbe sembrare, da un procedere autarchico. Ogni poesia di Fioriture invernali ha bisogno di lettori poiché si propone di rinvenire e, ancor di più, di far conoscere i tratti di ogni ginestra di leopardiana memoria. Per quanto detto, l’intera raccolta è un’apologia di tutti quei fiori avvinghiati «a una terra inaridita» che continuano a proliferare in ogni ciglio avverso del presente.
Inevitabilmente, per comprendere la forza di questa resistenza, l’attenzione è spesso riposta sull’ostilità data dall’inverno, metafora proprio di quel variopinto terreno così duro da calpestare. La stagione dominata dal freddo e dalla neve – altro termine estremamente simbolico legato spesso all’atteggiamento malinconico e, al contempo, creativo del soggetto poetante – assume i tratti delle difficoltà sia del singolo, sia della comunità.
Da qui, le poesie si caricano di ricordi e tracimano spesso nel presente, imbevendosi con più possanza di molteplici avvenimenti cronachistici. L’inverno si fa disagio, vecchiezza e riflette nature umane solo apparentemente inaccessibili. In merito, il rimando principale è alla terza sezione del testo in cui emerge a chiare lettere il tema dell’autismo.
In ogni inverno le radici continuano a essere tali, perfino sotto numerosi strati di ghiaccio. Di più: nelle avversità risulta possibile cogliere l’essenza poiché, afferma l’autore, essere nati «nel cuore dell’estate» non basta affatto per fiorire.
È ormai superfluo sottolineare come questo modo d’agire implichi il rifiuto categorico di ogni affermazione accolta sulla fiducia. Campana invita a seguire la disposizione naturale dell’uomo di credere, ma coi suoi versi urla soprattutto l’impossibilità di considerare sufficienti tutti quei motivi che «sentiamo incompleti». Dando credito alla sfera del sentire – e, da qui, ineluttabilmente, all’azione poetica – si possono spazzare via tutta la serie di abitudini che portano a considerare separati concetti o cose in realtà indivisibili.
Brandelli d’ali e resina, il miele
seccato nei favi: parlo di quanto resta
quando tutto è sciamato altrove, della brina
che cova i suoi cristalli fra gli sterpi,
lungo i rami ulcerati dalle notti.
L’estate è stata l’ultima illusione,
la più crudele: lei
li ha tenuti al caldo, lei li ha nutriti,
li ha consegnati tutti a questo corpo
spoglio, questa lingua di crosta
che continua a ripetere scalfiscimi
con fame affilata di precisione,
affonda nella polpa fino all’osso,
prepara le ossa a morsi chiusi, ai moniti
dell’inverno che viene.
*
Sono nato dal cuore dell’estate,
dalla fame stipata nei suoi favi ancora pieni,
dalla breve opulenza che obbliga a ripetere
la verità di gesti quotidiani, di nomi abituali
mentre ogni giorno cede un po’ di sole
e un po’ di miele
*
C’è un proverbio marchigiano che dice
che quando canta l’allocco
appollaiato tra le foglie della quercia
puoi già vedere il ramo divenuto osso,
lo scheletro nascosto sotto il verde,
la quercia nera, un ricordo
del tempo che verrà.
L’allocco del tuo inverno
è silenzioso, i luoghi artigli
immersi dentro il ghiaccio: solitario
non canta nessun canto, nessuna primavera
gli fa tenero il cuore, a volte solamente
osserva gli altri, ognuno in fondo troppo preso
dalla sua stagione bella
per pensare alla neve.
Luca Campana (1980) insegna lettere nel Liceo classico di Ascoli Piceno e collabora con il Dipartimento di studi umanistici dell'Università di Macerata. Collabora inoltre con le riviste Pangea e Nuova Ciminiera. Ha pubblicato il saggio La stella che sorge dal mare. Un'interpretazione di Carlo Michelstaedter (Il Poligrafo, 2019) e le raccolte poetiche Pietra pelle (Nervi, 2020) e Fioriture invernali (InternoLibri, 2021). Alcune sue poesie sono state tradotte in inglese e in russo da Katia Margolis nell'ambito del progetto Porte aperte alla città (dicembre 2020), promosso dalla fondazione V-A-C Zattere di Venezia (https://sreda.v-a-c.org/en/read-13).
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