Nota di lettura a "Equinozio" di Stefano Carrai
Composita e stratificata, la raccolta Equinozio di Stefano Carrai (Industria & Letteratura, 2021), ma anche attentamente bilanciata. Come scrive Clelia Martignoni nella sua prefazione, infatti, «tracce, residui, [...] frammenti incisivi di vita sociale del secolo, sono raccolti ed espressi con sistematica e inventiva sicurezza», così che «fatti e dettagli inesauribili di una storia italiana» siano «portati a galla», montati in un quadro d’insieme che sa di scavo generazionale (p. 13). A una rapida scorsa, le sezioni interne confermano una dialettica tra frammentismo e struttura, tra dissipazione di particolari minimi e necessità di un’architettura solida ma non rigida, anzi cangiante come i mille rivoli in cui la ricerca di Carrai si divide.
Così, alla lunga sezione Dopo l’estate, dolente ouverture in cui i vent’anni del poeta rivivono sul filo delle passioni politiche e della minaccia strisciante dell’eroina («Due anni dopo era morta di overdose. / I suoi sedici anni / mi restano nella fotografia», p. 26), ne seguono cinque più brevi, oscillanti tra un confronto personale e disilluso con la Storia («Oggi il mondo è un bambino / [...] / domani si risveglierà aguzzino», sezione La casa di Anna Frank, p. 60), e un’autoanalisi egualmente distaccata, l’io poetico fragilissimo e sul punto di dissolversi («mi sono costruito una coscienza / con materiali spuri / [...] / un po’ da trovarobe», sezione Emblemi, p. 65). Eppure, all’attraversamento dei residui del Novecento più tragico (la Shoah, la Seconda guerra mondiale...), fa da controcanto una quotidianità tutt’altro che pacificata, anzi abitata da uomini e donne che di altre guerre e altre tragedie, molto più vicine a noi, sono a loro volta scarti, residui («il Cristo ancora a braccia / larghe che ostende in spiaggia una tovaglia / e dice / molto bella poco caro», sezione Adagio di lamentazione, p. 79). Allo stesso modo, le sezioni Stefanofora e Carte d’imbarco sviluppano la linea dell’io verso una maturità problematica, a sua volta dialettizzata dal confronto-scontro con il passato e con figure chiave sia del mondo familiare (la madre), sia di quello letterario e accademico (Valduga, Bandini, Dionisotti...).
È insomma un grumo di tensioni, questo libro. Grumo che nemmeno la linearità temporale (dalla giovinezza alla vita adulta) riesce a disbrogliare. Perché la conquista della maturità non avviene su un’assimilazione del passato; perché il passato torna in forme ironiche e indecifrabili (Dionisotti in sogno che suona il sax, pp. 96-97), o tracimando come l’Arno durante la piena del ’66, al cui ricordo la vecchia madre «spossata» non può che opporre un flebile, sibillino «sì» (pp. 86-87). Oppure, semplicemente, perché una vera conquista non c’è, se in fondo anche l’ultima poesia, Professori di Trento, più che concludere, riapre un confronto doloroso con un momento apparentemente felice («Siamo in cinque una sera / [...] / che stiamo per andare in trattoria»), al quale, però, il destino ha già impresso una curvatura tragica («fra due di noi sta nascendo una storia / [...] / uno morirà prematuramente / ma nessuno potrebbe immaginarlo», p. 104). E allora, questo scavo nella Storia e nelle storie di sessant’anni di vita non può che fermarsi al di qua di ogni sentimentalismo, sulla constatazione che la poesia è, sì, «testimonianza di vita», ma anche, dialetticamente e tremendamente, «certificato / di morte».
Una ragazza di Milano bruna
minuta
innamorata di Picasso
mi portò lei a Punta bianca
lei
sulle Apuane a fare
il bagno nelle pozze d’acqua dolce.
Due anni dopo era morta di overdose.
I suoi sedici anni
mi restano nella fotografia
in bianco e nero in cui ha i pantaloni
a zampa d’elefante
le scarpe da ginnastica
una maglietta rossa
con in nero il viso di Che Guevara.
Sul retro c’è la dedica
con tanto amore
Sara.
*
Viva Marx viva Lenin all’unisono
ma si era letto al più il Manifesto
l’abregé del Capitale
e qualcuno
il libretto di Mao
e di Lenin Che fare?
o Estremismo malattia infantile
mitologia del mio sovversivismo
vestito di camicie
e giacche militari
e dopo solo
tanti piccoli ossari.
*
Oche
germani
folaghe
tordi
starne
beccacce
altri uccelli di passo
si abbattono sull’acqua
oppure gli s’impigliano
le penne nella rete
e allora te li trovi
al semaforo che
con l’ala rotta
ti bussano sul vetro.
*
Professori di Trento
in ricordo di Saverio Bellomo
Siamo in cinque una sera
di primavera al Passo del Cimirlo
che stiamo per andare in trattoria
prima della diaspora
fra due di noi sta nascendo una storia
d’amore però gli altri non lo sanno
uno morirà prematuramente
ma nessuno potrebbe immaginarlo.
Paradosso della fotografia
essere testimonianza di vita
e anche certificato
di morte
lo stesso della poesia.
Stefano Carrai (1955) vive a Firenze. Dopo Il tempo che non muore (Interlinea 2021 - Premio Pisa per la Poesia 2013 e Premio Contini Bonacossi 2014) e La traversata del Gobi (Aragno 2017 - Premio Viareggio-Rèpaci per la Poesia 2017) questo è il suo terzo libro di poesia. Insegna Letteratura Italiana alla Scuola Normale di Pisa.
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