Nota di lettura a "Del tutto diversi" di Alberto Fraccacreta
Gli incontri vivificano e talvolta scandiscono i tempi della nostra esistenza. Determinano spesso un prima e un irrimediabilmente dopo. Gli incontri diventano luoghi, profumi, odori, colori. Si legano a stagioni, a canzoni, a versi letti e dettati in un altro tempo, permettono loro di esistere in un altrove e gli danno un significato nuovo. Si cristallizzano in convinzioni, si trasformano in ombre, inafferrabili presenze o insostenibili assenze. Gli incontri sono nostalgie, sono apparizioni, quando siamo fortunati sono epifanie. A volte ferocemente reali inviluppati senza assoluzione dentro alle cornici che li ha visti accadere, altre invece bramosamente immaginati ed elaborati nella mente, minuziosamente e magistralmente costruiti su misura dalla nostra psiche. Esploriamo noi stessi per mezzo dell’incontro: un incontro con una persona in carne e anima, un incontro con una fantasia o un luogo che profetizza, un incontro con la poetica di un autore o il suo modo di stare nella poesia. Del tutto diversi di Alberto Fraccacreta (Interno Poesia Editore, 2023) è una raccolta di incontro e di incontri. Eminentemente posti al centro del discorso quelli con il tu femminile che diviene interlocutore d’elezione, alterità con la quale dialogare e scontrarsi. Un canzoniere denso, strutturato, narrante, cadenzato da agnizioni, sovrapposizioni, discostamenti, allontanamenti. L’io poetante «infimo e misero», come Fraccacreta stesso lo definisce nella Nota Da parte dell’autore a chiusa del libro, è posto nudo di fronte al triforme tu di Delia, Cornelia e Flaca, «da leggersi in un unico volto muto». Un volto trinitario in una certa maniera che potremmo arrischiarci a leggere quale correlativo oggettivo di una estenuante e intenzionata ricerca «di verità sull’amore, sull’alterità e sull’infinita ricchezza della diversità». Una poesia quella di Del tutto diversi che mi pare si ponga come istanza di conoscenza e di scoperta di una umanità e di una diversità che sorprende, disallinea, rassicura o impensierisce. Un incontro con l’altro, o meglio l’altra, che ora crea tumulti, ora ricompone e riappacifica, ora dona speranza, ora promette, ora torna a farsi umbratile presenza o assenza aggrovigliata. Lo sguardo invola, il nome, le parole e la poesia concedono di trasfigurare quello che è corpo, quello che è terreno. L’incontro con il tu è “trasumanato” e posto in una dimensione che si fa sempiterna perché è lo spazio della poesia e la penna del poeta a renderla tale. E al contempo l’essenza del dettato è calata magistralmente in uno spazio preciso e riconoscibile che è quello della ducale Urbino con i suoi vicoli, i suoi collegi, il suo orto botanico, i suoi torricini, i suoi bar affollati di studenti, la sua Università, il suo inconfondibile rossore e i suoi giovedì corsari. E anche il tempo e lo scandirsi delle passeggiate, degli appuntamenti, dei fortuiti avvistamenti e degli improbabili ritrovi è quello proprio e del tutto peculiare della città ideale. E questa autentica vista conferisce e convalida la veridicità del verso: non perché essa poggi su basi manifestatamente autobiografiche (l’autore anzi ci invita a non rintracciare nella presenza femminile alcunché di autobiografico) ma quanto più perché essa muove a partire da un’ideale – e a tratti profetico – incontro con l’altro e a un auspicato dialogo conoscitivo e arricchente nel quale ciascun lettore può trovare le proprie ragioni e riconoscersi. Sono versi di attesa, di speranza, di indugi, di fallimenti, di rincorse. Una partita giocata tra presenze e assenze, tra acquisti e perdite, tra scontri e incontri. «Essere insieme» è la posta in gioco, «il vero unico luminoso fine» per il quale si rivela così difficile disputare. Il poeta è custode e testimone privilegiato di questa ricerca di verità che si riflette, come nota Elio Grasso nella Prefazione alla raccolta, nella «volontà di conversazioni non precarie, ma onoranti il vero col dare conto leale a quel che si desidera dalla cara geografia». «La fibra del giorno» della poesia di Fraccacreta non ha solo il tessuto dell’incontro a tenerla in piedi: c’è la viva forma e memoria del paesaggio. Un’arteria paesaggistica che irrora le immagini poetiche e incastona l’io e il tu, il noi tra ellere, ippocastani, mele cotogne, anemoni, platani, diosperi, dando vita a un ricco e preciso erbario. Un paesaggio nel quale si muovono di tanto in tanto anche presenze animali con una predilezione per il dato ornitologico: cardellini, rondoni, martin pescatori, colombe, sterpazzoline. Dato quest’ultimo che ricorda lo straordinario bestiario in prevalenza erpetologico ed ornitologico dell’urbinate Paolo Volponi. «Il contorno» del «vuoto visibile» della poesia di questa raccolta, è una lingua, un linguaggio colto, preciso, attento, commisurato, ricercato ma non per questo meno leggibile o meno autenticamente inteso. La varietà stilistica e l’ampio patrimonio linguistico amplificano e allargano il tempo della poesia, arricchendosi degli echi, dei rimandi e delle citazioni che il poeta ci offre, forte dei «fecondi anni di letture, studi, critica accademica e militante». Da Guinizzelli, Cavalcanti e Dante a Claudel, Zagajewski e Heaney passando per de la Barca, Beckett, Benjamin e Pasolini, Fraccacreta ci accompagna a formulare nel pensiero l’ipotesi «di restare insieme», «per calcolo o per sbaglio» e ci invita a scendere «nello specchio chiaro del segno» e a dire «tu sarai quel segno».
Donna prosaica
Cercai per lungo tempo una donna
che compensasse i miei vuoti,
non li moltiplicasse.
Raziocinante, ordinata interiormente,
senza ombra di sospetto,
una scienziata che sapesse allineare
come in un’equazione le operazioni della mente.
Dottoressa, credente anche se ipocrita,
esponente della borghesia dominante
che tenesse a bada le rivoluzioni
interne con il regime del terrore
e obbedisse così, indifferentemente,
al lasciarsi andare di chi
ha già tagliato la testa.
Una ‘giusta’ che ripulendomi in realtà
mi assecondasse. Donna molto pratica, poco
concettuale, mai contraddittoria,
fintamente umile se possibile,
inserita nelle dinamiche sociali e mondane
che prescrivesse limiti e gioghi
nei quali organizzare la vita,
e non sobillasse il focolaio
delle inquietudini, anzi le isterilisse
con l’analgesico della consuetudine.
E, incapace di perdere, mi conducesse
all’establishment, al premio, alla serietà.
Cercai una donna prosaica,
ma volli una donna poetica.
La Flaca
Dopo una mattinata a rimuginare
se tu fossi o non fossi ancora qui,
da uno scaffale sotto il porticato
appare ‘Farse spagnole dell’epoca d’oro’.
Mi commuovo e lo sfoglio credendoti già distante,
nel mutante teatro di un’altra farsa
via da Tirso de Molina, Calderón de la Barca.
Cerco in allerta il tuo nome nel testo
ma leggo solo doña Juanita, doña Isabela:
no se puede encontrar la Flaca.
Lo sfrigolare delle dita sulla carta ambrata,
un’ape che plana molesta a mezz’aria,
la frusta del maestrale che non si placa
e lo sfogliare vorticoso senza risposta
simile a una chiamata persa,
simile a una chiamata senza risposta,
mi fa riflettere che non trovandoti nemmeno
in un testo comico – comica la mia parte,
non ti vedrò mai più spuntare in piazza
(anche il sentore è defalcato)
come una dama scortese dal viso chinato,
né sorridere nel cuore del disagio
lucidato dal tuo incedere frusciante.
Flaca, prima eri dove non sei ora
e rimane abbagliante la presenza dell’assenza,
il contorno di vuoto visibile, il catafalco
entro cui scorgere un tattile segmento di spazio
nel filo di rame dov’eri e non sei più,
avverando Eraclito, non si beve
due volte nello stesso pub.
Compro il libro per rimpianto,
il libraio ambulante ammicca intuendo il miraggio
e indica con l’indice annerito altri volumi,
persino un ‘curso de idioma’.
Davvero tutto è perso, penso,
ogni cosa deflagra e ha completato
l’inane suo compito, il giro di vite
si è allentato per sempre
nel tuo sguardo compìto,
nella plaga fra noi a passo di flamenco
e non ci rivedremo più.
O forse no, forse in un altro tempo
di Flaca.
Le nostre ricerche
Ora che non sei qui,
non farò altre ricerche.
Ti terrò legata alla festuca,
la vermena del sogno
quando solo risalirò
via Puccinotti al crepuscolo,
per le fauci di via Saffi
andrò sfondando la gola
di piazza del Rinascimento.
Le braci e la stortura
della discesa non osteranno
al cominciamento dei palmizi.
Avrò alle spalle le asperità
del cerro, l’intelaiatura castana
della Cesana, la casa intabarrata
di Volponi, al fianco
il mausoleo dei duchi.
Tu sarai con me,
e lo saprò allo smottare
dell’ultimo bastione, prima di andare.
Tu sarai: questo attende
chi, come me, incede
nel vischio e il lampo, scende
nello specchio chiaro del segno.
E tu sarai quel segno.
Alberto Fraccacreta (1989), originario di San Severo, è assegnista di ricerca all’Università degli Studi di Urbino Carlo Bo. Collabora con alcuni quotidiani nazionali. Ha pubblicato il volume Sine macula. Poesie 2007-2019 (Transeuropa, 2020) e Spin doctor. Prose e racconti (Fara Editore, 2021).
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