Nota di lettura a "DADAADALDA" di Sergio Carlacchiani
Nella raccolta poetica DADAADALDA (RPlibri, 2024), l’accezione critica del presente e il rimuginare sui nuovi istanti vissuti hanno come scopo cogliere altre acquisizioni più compiute sulle persone e sulle cose. Il tutto tramite due aspetti fondamentali: i limiti, cioè la consapevolezza della propria finitudine, e le fonti, cioè la ricerca dell’origine, della radice, da intendere come comprensione e, va da sé, come cura. Così, i rasoi utilizzati dall’autore, Sergio Carlacchiani, mirano a giungere all’ossatura stessa di ogni singola parola, puntano a trovarne e mostrarne, tramite i numerosi e inevitabili balbettii e zone d’ombre, quella serie di elementi che possono dare appigli per l’agire quotidiano.
Dunque, si tratta in primo luogo di un problema gnoseologico. La conoscenza appare, a occhi disattenti, mutevole e, pertanto, effimera. Di sicuro, tutt’altro che stabile. Ecco, allora, il paradosso tratteggiato da Carlacchiani: cogliere la forma reale delle cose tramite non il mero utilizzo della ragione, ma attraverso il punzecchiare della stessa con il linguaggio poetico, fatto di svariati rimandi, contrassegnato da un alfabeto che costitutivamente sfugge a un duro catalogo logico-deduttivo.
Da qui si può dare valore a quella sfida alle parole che Gabriela Fantato analizza sapientemente nella Prefazione al testo. Ci si trova dinanzi a un opporsi capace di collocare al centro il proprio io, il singolo stare al mondo, che, ripulendosi dagli sguardi consueti, riesce a cogliere il gusto, la bellezza e, da lì, spingersi fino alla grazia, cioè alla capacità di cogliere la benevolenza di Dio nei riguardi dell’uomo. Proprio questa comprensione non può essere irradiata senza un lungo e articolato percorso che, platonicamente, spinge l’uomo – tramite l’afferrare semplici barbagli – a godere della luce.
Si tratta di aggirarsi tra le ombre, che occorre indagare con cautela e, al contempo, con forza. Infatti, le ombre possono essere simulacri, possono assumere l’instabile forma di quelle ombre muffa (che danno il titolo alla prima delle quattro sezioni che conformano il testo) cioè quelle ombre che rannuvolano il quotidiano e, se ci si vuole addentare nell’orizzonte compositivo, la creazione poetica. Quest’ultima deve rispecchiare in tutto e per tutto le moltitudini del singolo, le contraddizioni e le brutture del proprio tempo, gli slanci esistenziali, i voli meramente mentali che, per dirla con Pessoa, fanno stringere «al petto ipotetico più umanità di Cristo» o creare, ma in segreto, «filosofie che nessun Kant ha scritto».
Al contrario, le poesie contenute in DADAADALDA hanno bisogno di espandersi totalmente nel loro orizzonte fino al punto da sentirne il peso e inevitabilmente straboccare, come accade nella poetica di Alda Merini, autrice che, sin dal titolo, viene evocata a più riprese, così come esamina nella Postfazione Maurizio Soldini.
Del resto, basta il primo verso della composizione posta in limine alla silloge per capire come scrivere voglia dire per Carlacchiani effondere tutto se stesso: «se scrivo sono tutto poeta uomo anima carne / preferisco piangere lamentarmi in maniera / infondata». Da lì, il bisogno di costruire nella solitudine («mi ritengo uomo forte da quanto ho imparato a / restare solo») che si contrappone a quell’«arido deserto» di persone che popolano infelicemente gli scorci del quotidiano.
Tramite questa lenta e incessante attività poetica si giunge a un approdo: affidare all’altro il compiersi dei propositi rimasti tali, il decifrarsi dei tratti insoluti, lo sgretolarsi della solitudine, l’io farsi noi: «fai per me ciò che puoi / scovami se vuoi quelle poche parole / che non sono riuscito a trovare ti lascio / se lo chiederai il mio indirizzo di posta».
se scrivo sono tutto poeta uomo anima carne
preferisco piangere lamentarmi in maniera
infondata non mi diverto a ridere anzi perdo
tutta la possibile allegria la mia abitudine a dire
e muovermi l’umore ormai si è così appesantito
che il mondo mi sembra arido deserto le persone
che lo popolano palesemente infelici bevono si
drogano ammazzano e si ammazzano poco altro
mi ritengo uomo forte da quando ho imparato a
restare solo non sarò mai un materialista perlopiù
dialettico non ho difficoltà a comunicare con l’oltre
anche se la mia religione preferita tradita purtroppo
è credere nell’essere umano mi lascio sorprendere
più dal passato che dal presente o futuro da venire
sono energico e generosissimo pretendo moltissimo
da me cerco il superlativo del minuscolo ma l’anima
prevale sulla tecnica detesto essere valutato bene e
male al microscopio sono tenuto d’occhio dalla luce
preferisco non lavorare con gli altri irascibile iroso
divento troppo duro non ammetto sbrodolamenti
o scuse di vario tipo tutto è necessario se qualcosa
manca c’è un perché che va affrontato presto risolto
a questo scopo cerco e preferisco usare me stesso in
modo completo sino a che l’anzianità lo permetterà
la vecchiaia sempre comunque una bruttissima fine
fintanto non arriverà lavorerò per chi già non c’è più
*
mai è la stessa la solitudine
cambia continuamente bisogna
provarla come qualsiasi cibo per
riconoscerne le caratteristiche
è un singolare stato per cui è
possibile raccogliere pensieri e
idee riflettere creare sistemare
dando senso e sostanza a ciò che
creativamente si vorrà comunicare
chi non ne ha mai gustato il sapore
non saprà mai ciò che si è perso
grande privilegio quello di sfuggire
alle consonanze alle rispondenze
si aprono porte misteriose di silenzio
splendori d’ombra di frutto maturo
radici e regni di struggente poesia
Fai anche tu
a questo punto del libro avendo
già fatto tutto quello che potevo
fare caro lettore farò breve sosta
tu intanto fai per me ciò che puoi
scovami se vuoi quelle poche parole
che non sono riuscito a trovare ti lascio
se lo chiederai il mio indirizzo di posta
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