Nota di lettura a "Che i fichi nascano rossi" di Valentina Demuro
Valentina Demuro intitola la sua neonata raccolta poetica, edita da Pequod, nel mese di aprile 2024 Che i fichi nascano rossi e subito apre al lettore il dolce sapore della speranza, un desiderio di compimento non soltanto nel senso della bellezza ma anche e soprattutto nel senso del bene, di un qualcosa che sia finalmente davvero buono a dispetto della pioggia, che pure è sempre pronta a scendere, a rovinare i tentativi, i sacrifici, il resistere. Nel congiuntivo “nascano” è racchiusa una supplica, quasi una preghiera, che Demuro rivolge più all'umano che a Dio perché il suo sentire e con esso la sua poesia, si originano da una matrice emotiva che si addentra nella terra, una terra madre amata e sospirata, la terra assolata delle sue origini pugliesi, pregna del passaggio di venti antichi in cui riecheggia la voce potente delle tradizioni, portata avanti dagli avi e che la poetessa, lo sa, deve continuare a farsi ascoltare cosicché l'inconsistenza del presente possa assumere una qualche profondità, un sorriso: «Sarà ancora il rivolo marino / che accende azzurri i confini / e una fede / così attaccata alla vita e alla terra che porta tutto il sangue / come un'eco cavernosa e antica // . Sarà ancora scintilla unica / di un incanto enorme/anche quando cadranno le ossa nel buio / spoglie di un luminoso fiato».
Valentina Demuro con una lucidissima consapevolezza, ha saputo osservare l'avanzare irrispettoso e anaffettivo dei tempi e l'incapacità di noi tutti di ostacolare l'avvento “di questa burrasca di ombre”.
Sarebbe bastato non “recidere le radici della memoria”, “tornare daccapo” per arginare questo nichilismo oscuro e imperante.
Il libro è costellato di immagini i cui cromatismi accendono il piacere della contemplazione.
Gli elementi naturali, la terra, la neve, la pioggia, la luce, il mare, fondendosi e dando voce ai sentimenti, divengono quasi simboli di un atavico percepire, lo esprimono e lo portano alla luce come un santo in una processione.
Giovandosi di un linguaggio ritmico, incantevolmente armonioso, pervaso di ombra e luce, Demuro percorre la realtà delle stagioni, dell'amore, degli affetti con un passo delicatissimo in cui tutti i sensi sono chiamati a partecipare sempre in maniera intensa, abissale: «Sono disadorne le ore / nel pomeriggio di gennaio / bianche di niente / queste non luci / e tu ricompari / e svanisci. // Non so dire il tuo nome / sortilegio che accade / in ogni punto del corpo».
Il senso di una giustizia, di una grazia non raggiunte impregna molte pagine, ed è cantato da Demuro con una voce struggente, altissima, che rivela una ferma volontà di denuncia, una brama di cambiamento, il sogno di un possibile passaggio verso un universo mondato dal dolore, di nuovo degno di essere vissuto, di nuovo edenico, dove uomini e natura sono conciliati e i fichi possono tornare a nascere rossi.
Sono rimasti i topi sfuggiti al fucile
dormono tra i grossi rovi
che hanno mangiato il viale
nessuno raccoglie le prugne
cadono flaccide e offrono
alle formiche un odore acre,
lo spettacolo di una morte lenta
al cappotto abbandonato sulla sedia
*
Passando davanti a un albero
vedi come la stagione
esplode in un chiasso di fringuelli.
Poi, piano piano
questo si quieta.
Spaventa la vita
l'ombra che cammina da sola
*
L'acqua prova a nascondere i piedini
della bambina che grida, fugge e ritorna
ride tutta nei suoi pochi denti.
Io non ho che le mani e la voce
per posare un sassolino sulla sua meraviglia
mentre il maestrale
già arrota i versi all'aria
che ora porta un'incrinatura, un mistero
e le ombre dei pescatori affrettano
la fatica della barca.
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