Nota di lettura a "Casa mia non ha le ringhiere" di Lorenzo Mele
Casa mia non ha le ringhiere di Lorenzo Mele (Ensemble, 2020) tenta in una breve raccolta di comunicare l’indissolubile filo che lega madre e figlio con la naturalezza del quotidiano rapportarsi con l’altro, del suo esserci e del suo non esserci più. La casa, che nella geografia poetica è da sempre un luogo sentimentale prima che materiale, non ha qui ringhiere che possano proteggere dal dolore che comporta l’amore e l‘appartenenza forzata a chi ti ha avuto ancor prima della tua stessa esistenza. È uno squarcio che sgorga sangue e amore questo rapporto madre-figlio: «così i miei occhi nei tuoi / - a divorarsi nel letto - / proprio un attimo prima / di guardarsi dentro / per poi precipitare.», «Era grande quello che provavamo, e noi / troppo piccoli per reggere l’amore». Allo stesso tempo la figura materna sembra essere ringhiera forte che può proteggere dalle intemperie della vita e che, se pure destinata a cadere con il tempo, porta epiteti da combattente («Le madri non chiudono gli occhi / se ne stanno sveglie tutta la notte / con la notte, poi al mattino il chiudersi / dei palmi, a pugni chiusi contro la vita», «Com’eri potente la prima volta che ci incontrammo, / non lo ricordo bene, avevo ancora meno degli anni»). Mia madre non vuole morire è infatti la seconda sezione della raccolta, che ancora insiste sull’insita forza di una madre che “appesa alla fune dei giorni”, “distesa terminale”, non rinuncia alla dignità dei suoi piccoli gesti quotidiani – giocare al lotto, fumare di nascosto, pregare – pur consapevole della morte. Si riscontra poi la ricorrenza del tema del sogno, sia quando esso è esplicitamente citato (Lucciole, Quando non c’eravamo), sia quando l’esperienza descritta sembra appartenere più alla dimensione onirica e dell’apparizione che a quella reale (Hanno chiamato il mio nome, Memoria tattile). La relazione con la madre si interseca infatti con i ricordi dell’infanzia ma anche con un tempo fuori dal tempo, proprio perché questo rapporto sembra esistere eternamente da sempre. Non c’è dubbio che Mele abbia saputo suggerire con intensità poetica la residenza archetipica della madre dentro ognuno di noi senza astrazioni banalizzanti, ma mantenendo centrale la componente biografica e affettiva. D’altra parte, è chiaro fin dall’esergo che la poesia è per l’autore strumento necessario a comunicare ciò che rimane latente in posa eremita, come egli stesso si definisce.
Il tuo nome
Un giorno ti sei presa cura di me
e non mi conoscevi nemmeno
una chiamata nella notte, uno sbaglio
forse, che ti ha stravolto la vita.
Non sapevi l’amore di esser madre
nell’attimo in cui mi prendesti in braccio,
e io non mi sapevo figlio di qualcun altro
-se non tuo – proprio nell’attimo in cui,
per forza di cose, ho imparato il tuo nome.
Quando non c’eravamo
Questa mattina il sognarti a cuore aperto;
e tu senza voce che mi abbracci e piangi.
È una vita che ti aspetto, anche se ti sono
nato dentro. Aspetto che ti riversi in me
come ho fatto io ancor prima di esserci.
Tieniti pronta per quando ti verrò a cercare,
dovrai raccontarmi chi eravamo, tutto quello
che siamo stati quando non c’eravamo.
Fotografia
Questa è l’ultima volta che ci siamo visti:
guarda come mi guardi, guarda come ti guardo,
in piedi sui binari come per portarci via.
Era grande quello che provavamo, e noi
troppo piccoli per reggere l’amore.
E ce ne siamo andati. E te ne sei andata.
Lorenzo Mele (Lecce, 1997). Ha pubblicato le raccolte Tu mi abbandoni” (Edizioni La Gru, 2018) e Dove non splendi (Controluna, 2019). Suoi versi sono apparsi su Atelier, Inverso, ClanDestino, Leggere poesia e altre riviste letterarie. È direttore del blog di poesia Il Visionario. Attualmente vive a Roma.
Comments