«Negli occhi neri di collera»: recensione a "Nerotonia" di Rossella Pretto
Un’operazione ardua e insidiosa quella messa in scena da Rossella Pretto nel suo Nerotonia, uscito per la Samuele editore con la splendida prefazione di Flaminia Cruciani – ed è impossibile non citarla, considerata la veemenza con cui racconta la forza espressiva e poetica di questo libro.
Un libro spigoloso e oscuro, come lascia presagire il titolo, che ha il potere, non così comune per la poesia che ancora troppo spesso resta abbarbicata su sofismi di stile o insegue pedissequamente il reale, di trascinare il lettore dentro quel gorgo che spalanca la sua parola, di gettarlo in pasto ai tormenti dell’interiorità che racconta fino a costringerlo a guardare in faccia i fantasmi: quelli della protagonista, evocati uno ad uno nel suo monologo agghiacciante, e i suoi, quelli del lettore stesso, che forse fino a quel momento neppure conosceva.
Un’operazione insidiosa, si diceva, perché questo libro, nasce dichiaratamente intorno al Macbeth shakespeariano, e più ancora attorno al personaggio controverso e distruttivo – e autodistruttivo – di Lady Macbeth e intorno a tutte quelle figurazioni del male, un male che annienta e devasta chi lo concepisce prima ancora di chi lo subisce, che dentro quella tragedia trovano il loro spazio e la loro dimensione.
Eppure sarebbe imperdonabile considerare questo libro una semplice riscrittura o trascrizione del dramma shakespeariano perché se è vero che la sua radice è lì, nel lavoro che l’autrice ha condotto con tanta dedizione su quell’opera, è altrettanto vero che quel personaggio qui diviene il centro da cui si irraggia una rete complessa di elementi, si moltiplica, si espande fino ad accogliere dentro di sé le tante, e spesso devastanti, pulsioni che si agitano nell’animo umano.
Non un omaggio, dunque, non un tentativo maldestro di decodificare il comportamento e il pensiero del personaggio, non un dare voce a una figura, ma un’assunzione consapevole di “quel” personaggio, con tutto il suo magmatico mondo interiore, come luogo da cui muovere per uno scavo ben più profondo.
Il movente di questa operazione, che certo non tradisce l’intento esegetico da cui parte, è forse già implicito nella breve premessa di Pretto, in cui ci parla delle “voci”, ci dice come «ognuno di noi» è «il frutto delle voci che l’attraversano», focalizzando in qualche modo il centro proprio su quei fantasmi che ci tormentano, senza mai però sollevare Lady Macbeth da quella colpa che senza alcun dubbio le appartiene.
Non vi è dubbio che questo libro sia pieno di voci, anzitutto quelle che attraversano la pagina e in qualche modo la spalancano, due voci che talvolta si compenetrano e si sommano, ma che spesso restano sospese in un dialogo che non si compie. Una spaccatura, quella dentro la pagina, che è anche la scissione che attraversa il personaggio, diviso tra le tante immagini di sé, sospeso tra pensieri contrastanti, sempre in bilico tra il desiderio di essere – e di vivere – e la morte che divora tutto, quella che dalla propria carne scaglia all’esterno e che quasi si coagula nei delitti che compie, o che ordisce, lasciando che siano gli altri a sporcarsi del sangue (gli stessi che il personaggio shakespeariano cerca di lavarsi di dosso compulsivamente).
Una terra di nessuno dove gli opposti si ricuciono e dove ogni cosa trascende. E se l’amore è desiderio dell’altro, è ricerca di una comunione, di una compenetrazione, è l’impossibilità di bastare a sé stessi – come ripete e si ripete ossessivamente – è proprio nell’assenza dell’altro che si consuma lo “strappo”, nel «sale dei […] lunghi abbandoni», quel «sale» che è sete da soddisfare, ma anche il sale che, gettato sulle ferite, le rende lancinanti e insopportabili.
Una condizione che mescola piacere e dolore, desiderio e disperazione – «estasi e spreco», dirà altrove – le «intermittenze intriganti», in cui l’assenza stessa si amplifica e si fa desiderio; il sesso che è incontro perfetto tra i corpi, incastro, vita che riempie le nostre cavità, che ridona linfa, ma che non può sanare le nostre fratture, i nostri strappi. E in quell’universo marino dove la donna si sente ninfa, Anfitrite in attesa del suo Poseidone, in quell’oceano che è metafora stessa dell’abbandono all’amante, anche il sesso diviene oscuro – la «notte scura degli amplessi / impestata di scorpioni» – e quell’acqua, da vita, si traduce in morte, quell’acqua che è orgasmo, liquido amniotico, si fa sangue che ci bagna e ci intride, come una pioggia che ci attraversa – la stessa che metaforicamente accompagna quel “primo” incontro. Il tema dello strappo, della crepa che squarcia e divarica è costante in queste pagine, così come verso dopo verso si affollano i coltelli, le lame – quelle con cui si tagliava da ragazzina e quelle che affondano nella gola e nei corpi dei tanti che precipitano in questo gorgo di violenza inaudita.
Tutto rovesciato, insomma, come quel ventre che non sa generare, come quella femminilità soffocata in un seno gonfio di veleno che, invece di nutrire, uccide, come quel disagio che muove dal suo profondo per farsi guerra e distruzione («e allora guerra / sia guerra /come unico / possibile atto d’esistenza» scrive, in un linguaggio frantumato, quasi parlando sommessamente a sé stessa).
Un furore devastante, una tempesta che si abbatte sul mondo che ci sta intorno, e che trova un compendio perfetto, splendido, in quell’enunciato finale: «è potenza ciò che siamo, / disperazione e grazia», dove proprio la disperazione sorda, sotterranea che ci abita pare essere il motore di tutto.
Ora non è solo la lingua acuminata di Pretto, la sua bravura innata nel rivelare tutte le ambiguità della parola e cavalcarle, non è solo quel verso che da disteso e impetuoso, sa contrarsi, quasi mostrandoci tutti i toni di quella voce o di quelle voci, non solo il gioco della duplicazione, della moltiplicazione che tesse una rete intorno al lettore, avviluppandolo pian piano; ma l’essenza stessa delle pulsioni umane che sa raccontare in tutte le sue contraddizioni a far sì che il lettore, almeno per un momento, si specchi e si riconosca.
Questo libro, insomma, è un viaggio prima di tutto dentro i labirinti della psiche umana e in quel viluppo di disperazione e passione perdersi sarebbe stato facile, cedere al delirio del vuoto, assecondare quella discesa verso gli inferi. Ma la poesia, si sa, ha il potere di trovare un accordo, di dare ordine al disordine, di governare il caos, e quando il caos non è governabile, di sublimare tutto nella parola. E questo Rossella Pretto lo sa bene.
La sua prima raccolta di versi, Nerotonia, è apparsa quest’anno per i tipi di Samuele Editore. Con Marco Sonzogni, poi, ha curato l’edizione e la traduzione di Memorial (Archinto 2020), riscrittura dell’Iliade della poetessa inglese Alice Oswald e, con Leonardo Guzzo e Marco Sonzogni, l’edizione delle traduzioni sofoclee di Seamus Heaney (Il Convivio Editore, 2021). È presente nell’antologia poetica curata da Matteo Bianchi, Dal sottovuoto – Poesie assetate d’aria (Samuele Editore), in quella curata da Stefano Strazzabosco, Oikos. Poeti per il futuro (Classici Contro) e in quella di racconti curata da Filippo Tuena, L’ultimo sesso al tempo della peste (Neo Edizioni).
Suoi articoli sono apparsi su «Alias-Il Manifesto», «Poesia», «L’Ottavo», «Journal of Italian Translation», «Studi Cattolici» e cura con Marco Sonzogni una rubrica di interviste poetiche per «L’Estroverso».
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