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Immagine del redattoreEmanuele Andrea Spano

«Li avranno toccati incrociati mai»: recensione a "Doveri di una costruzione di Davide Castiglione

Esiste in quest’ultima raccolta di Davide Castiglione, Doveri di una costruzione, uscita per Industria e Letteratura nel 2022, una topografia minuta fatta di luoghi, di affetti, di persone che solo talvolta svela i toponimi, i nomi, le occasioni. Che lo spazio, e gli spazi, siano un fatto cruciale nella sua scrittura è un dato confermato dalla vocazione un po’ flaneur di Castiglione che certo si muove anzitutto su una cartografia certa, quella che lo ha condotto in Lituania dove ha costruito e ricostruito un proprio mondo e una propria identità, e che dentro quella cartografia, dal Sud verso il Nord dell’Europa, dall’area mediterranea fino a quella baltica, traccia linee e itinerari, da Venezia a Spalato, passando per Francoforte, attraverso la Lituania stessa, da Vilnius a Kaunas, fino alle città artificiali e tutte uguali, disegnate da un qualche pensiero progressista, alla new city – e si pensi alla Milton Keynes britannica – alla copycat city, con le “venezie” rifatte in Cina o a Las Vegas, in una discesa inesorabile che pare portarci dentro i non luoghi.

L’esplorazione degli spazi che la poesia di Castiglione realizza si muove dal contesto più ampio, dalla cornice, fin dentro quel paesaggio che lo sguardo del poeta ci restituisce scomposto, frammentato in tutta l’umanità che lo abita e lo ingombra, con quel corredo di oggetti, di cose che l’uomo usa per addomesticare il mondo che vive e che talvolta pare sopravvivere all’uomo stesso e avere una vita propria.

Così il luna park, con il bruco che seguita il suo giro inesorabile, il tappetto elastico dove solo un «ragazzone incappucciato» salta, ridotto quasi a un’ombra, la «resina termoplastica dei gazebo» o i «salotti in vimini» che paiono quasi dileguare nella luce estiva, i tonfi delle motorette che costruiscono un sottofondo, o il ronzio monotono dei tagliaerba, tutti pezzi di un paesaggio che pare esistere senza l’uomo o aver ridotto l’uomo a una comparsa, a un “tipo” privo di una sua identità: l’agente immobiliare senza scrupoli, lo squatter, il professore, il cameriere. Il vagabondare di Castiglione è un costante andare dall’aperto al chiuso, da un luogo senza muri o confini apparenti, seppur talvolta labirintico, a uno spazio breve, riconoscibile, a tratti quasi claustrofobico: l’appartamento, l’aula, la stanza anonima di un albergo, l’interno di un traghetto e infine il “poligono” di un bar che con le sue linee rette, secche, racchiude e per certi versi contiene una qualche umanità, eppure la direzione, la tendenza pare quella di muoversi verso l’interno, di delimitare uno spazio ristretto come se Castiglione fosse consapevole che i kilometri che ci separano da un luogo a un altro, da un mondo a un altro non sono che una somma di spazi ristretti, di piccole realtà, di case, bar o quartieri che si replicano all’infinito.

Una dialettica, insomma, tra il dentro e il fuori, tra l’io del poeta, che resta in disparte per buona parte del libro e si limita a registrare, a raccontare, a descrivere, e il “voi”, gli altri, quelli dell’ultima sezione, tra la schiera dei progettisti, evocati fin da principio in accordo con il titolo della raccolta, che si affannano a progettare, a costruire qualcosa, e il poeta stesso che pare essere l’unico consapevole che se costruire è un dovere, un atto necessario, neppure la poesia può costruire nulla, semmai decostruire, smontare, ridurre ai minimi termini alla ricerca di una ratio, sempre tragicamente sfuggente.

Ci si potrebbe illudere allora che quella sezione centrale, significativamente intitolata “a lume di candela”, possa rappresentare un antidoto a quella spersonalizzazione raccontata altrove, un punto fermo, una coordinata sicura nello spaesamento che si respira nelle pagine di questo libro, ma il “miracolo” non si compie, se l’amore è solo un avvicinamento tra i corpi, uno sfiorarsi senza profondità, se il sesso è un entrarsi dentro senza sforzo, se tutto «fila liscio» e «nei decibel legali» e ci si incastra per un momento, come per un rituale già scritto, per un’esigenza meccanica e animale.

Non si dovrà allora credere che la poesia di Castiglione sia unicamente mossa da una forma di pessimismo per certi versi strutturale, e che scrivere per lui sia registrare un’assenza a tutti i livelli, si dovrà piuttosto partire da un assunto differente per comprendere questo libro: la poesia non deve salvare o redimere, non deve assolvere o trovare un accordo invisibile, non deve necessariamente costruire, ma guardare alle fondamenta di quella costruzione e indagarne le radici fino in fondo.


Ph. Felicija Dudoit

Davide Castiglione (Alessandria, 1985) è professore associato in stilistica all’Università di Vilnius in Lituania, dove si è trasferito nel 2016 dopo aver conseguito un dottorato all’Università di Nottingham. È autore di tre libri di poesia: Per ogni frazione (Campanotto, 2010, segnalazione Premio Montano 2011), Non di fortuna (Italic Pequod 2017), e Doveri di una costruzione (Industria&Letteratura 2022). Poesie singole sono inoltre apparse su riviste e litblog, tra cui «Atelier», «Formavera», «Interno Poesia», «Il Segnale», «Inchiostro», «Italian Poetry Review», «Le parole e le cose», «L’Ulisse», «Nuovi Argomenti», «Poesia», e «Poesia del nostro tempo». Come studioso, ha pubblicato la monografia Difficulty in Poetry: a Stylistic Model (Palgrave 2019) e vari articoli scientifici sulla lingua della poesia e su questioni di teoria letteraria. Le sue note e recensioni sulla poesia contemporanea sono raccolte sul sito https://davidecastiglionecritica.wordpress.com.

Maggiori informazioni sul sito personale https://davidecastiglione.com

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