Le Rubriche di Alma: Alma & Anedda (II Appuntamento)
Aggiornamento: 20 ott
Antonella Anedda e il valore della lingua
Antonella Anedda esordisce con la prima raccolta Residenze invernali nel 1989. Sono decenni di chiusura di un secolo fondativo per la poesia da cui ci si sente in debito ma ormai lontani. Una zona grigia di molteplici scritture senza una direzione definibile annebbia la chiarezza della critica novecentesca. In questo tempo di semina che avrebbe portato la nuova generazione di poeti contemporanei, Anedda è certamente tra gli autori faro, che aprono il varco verso il nostro secolo.
Fin da subito, dato non scontato, riceve una particolare attenzione da parte della critica, tale da far presupporre la sua permanenza sulla scena poetica, nonché nel canone contemporaneo e futuro. A distanza di trent’anni tale intuizione è stata ormai confermata e non a caso è da poco uscito un volume per Garzanti che raccoglie l’opera completa (Tutte le poesie, 2023) di un’autrice che ha ancora potenzialmente molto da scrivere. Inoltre, il lavoro complessivo di Anedda è già stato studio di una monografia scritta da Riccardo Donati (Apri gli occhi e resisti, Carocci, 2020). Dalle influenze classiche alla storia dell’arte, dalla lingua sarda agli ampi riferimenti alla letteratura europea, l’autrice è riuscita a far uso delle sue ampie fonti creando un linguaggio inedito che merita di essere studiato in modo approfondito. Sono certamente molte le prospettive attraverso cui poter ripercorrere l’opera in versi; una di queste consiste nel farlo attraverso il linguaggio, strumento sapientemente maneggiato e declinato in molteplici forme da Anedda ai fini di veicolare la propria poetica.
Nessuno meglio di Antonella Anedda ha saputo esprimere nella poesia degli ultimi decenni un concetto fondativo e al tempo stesso necessario per comprendere il circostante, ossia che il linguaggio, usato in ogni contesto e in qualunque forma, non è mai innocente (”Non esiste innocenza in questa lingua”, scrive in un verso da Notti di pace occidentale). Anzi, è uno strumento di potere efferato, da maneggiare con cura, un coltello, come definisce in un testo di Salva con nome. Anedda si pone il problema non da poco di evitare meccanismi di sopraffazione, pregiudiziali o che inneschino automatismi, avviando da una parte una riflessione metalinguistica e dall’altra lavorando direttamente sulla parola dei propri testi. Riportare l’attenzione su tale aspetto della lingua anche nella poesia, contemporaneamente a come si sta facendo in altri ambiti come quello dei gender studies, in cui capostipite è Judith Butler, permette di andare oltre il potenziale simbolico del linguaggio lirico, focalizzandolo sulla sua adesione al reale. Se la lingua non può essere innocente, Anedda lavora allora in modo rigoroso per filtrarla sino a renderla essenziale, rispettosa, senza mai semplificare la complessità del mondo. Un modo per farlo è rendersi estranei dalla lingua madre, fuoriuscire dagli automatismi appresi ed ampliare l’orizzonte linguistico adottabile. Non a caso importanti riferimenti di Anedda appartengono alle letterature europee oppure sono estranei al contesto italiano, come vale per il mix linguistico di Amelia Rosselli. Inoltre, l’autrice stessa ricorre ad altre lingue più dirette, come il latino e l’inglese, o più autentiche, come il dialetto sardo. In Historiae il riferimento a Tacito è proprio per la sua lingua che “dice solo ciò che deve”, e nella sua opera, gli Annales, “non c’è posto per il paesaggio o per l’amore”. Proprio come Tacito racconta i fatti in modo nudo e crudo, senza aggettivi che definiscano o connotino, Anedda in Historiae trova la maniera di raccontare la violenza della storia e quotidiana attraverso quel rigore che apparteneva proprio alla cultura latina.
I versi in limba, ovvero in dialetto sardo, si affiancano a quelli in italiano con lo stesso obbiettivo, ottenere una maggiore chiarezza e autenticità. L’inadeguatezza dell’italiano a esprimere la violenza della storia spinge Anedda a far uso del sardo ad esempio nella sezione “Limba” di Salva con nome. Questa si compone di otto “Attittos”, ovvero lamentazioni funebri in cui dominano i temi della morte e della rovina sotto forma di recitativi: «Restituiscimi tuo figlio / terra nero-vestita, / viso di pioggia». Nel testo intitolato proprio “Limba” si usano le espressioni “Madre-lingua” (“Limba-matre”) e successivamente “Figlia-lingua” (“Fiza-limba”) che, come sottolinea Donati, connotano il dialetto come “idioma viscerale”, idioma di famiglia che si costruisce in senso matrilineare e si trasmette di generazione in generazione. Ciò significa che al dialetto compete un’autenticità secolare, una saggezza anche emotiva con cui Anedda può esprimere concetti quali il dolore, il lutto senza sentimentalismi, ma con la profondità e l’efficacia di una memoria storica.
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Non esiste innocenza in questa lingua
ascolta come si spezzano i discorsi
come anche qui sia guerra
diversa guerra
ma guerra – in un tempo assetato.
Per questo scrivo con riluttanza
con pochi sterpi di frase
stretti a una lingua usuale
quella di cui dispongo per chiamare
laggiù perfino il buio
che scuote le campane.
Lingua
Non hai bara da trascinare sulla neve
ma un cane che trema nel buio.
Madre-lingua sei triste
l’aglio si fa nero nel rame.
Il rombo del camino sale.
I venti si confondono
Eolo soffia e Babele vive.
Figlia-lingua: scricchioli a ginepro.
Il tuo brivido alla nascita
è un frammento di tempesta tra i pianeti
e le nuvole, le nuvole ciecamente corrono
cancellando dai cieli ogni genealogia.
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