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Immagine del redattoreSara Serenelli

Le Rubriche di Alma: Alma & Guidacci (I Appuntamento)

La sabbia e l’Angelo: l’esordio poetico di Margherita Guidacci


È il 1946 quando Margherita Guidacci realizza il suo esordio poetico. In quell’anno difatti esce per Vallecchi una breve raccolta di poesie, La sabbia e l’Angelo divisa in 3 sezioni: Meditazioni e sentenze, Epitaffi e La Sabbia e l’Angelo. Sin da questo esordio la poesia di Guidacci si configura come espressione di una voce riconoscibile e originale, la voce, come la definirà Caproni, «di un poeta nuovo»[1] che rifuggendo e prendendo distanza dalla tradizione ermetica, sulla quale tuttavia si era formata, insegue una poetica della chiarezza e nel frattempo tenta di opporre al «solipsismo, al narcisismo, […] alla glorificata solitudine del poeta»[2] una poesia di testimonianza che ha obblighi e doveri nei confronti del prossimo e che deve «attingere direttamente da una materia viva e dolente».[3] Una materia dalla quale non può prescindere chiunque scriva in versi: per Guidacci infatti il poeta deve stare dentro la società, non distanziarsi dal mondo.


Di fronte al contatto con gli altri che oggi è difficile, non immediatamente piacevole, non immediatamente fecondo, si può optare per la propria solitudine, si può glorificarla chiudendosi in una sfera inviolabile e cristallina […]. Contro questa soluzione sta quella dello scrittore che non vuol prescindere dalla presenza degli altri e sente verso di essi un impegno e una responsabilità morale; non li considera come una massa amorfa da cui potranno semmai levarsi ipotetici ammiratori e critici, ma come ‘prossimo’ verso cui egli ha degli obblighi e dei doveri. Questo punto di partenza è certamente più sano dell’altro, esclusivo ed egoistico, e attraverso gli innumerevoli esami di coscienza portati dalla guerra e dai rivolgimenti che l’hanno seguita viene sempre più vastamente accettato. […] In quale modo infatti può l’artista rendersi utile agli altri, e cosa gli viene concretamente richiesto? Una prima richiesta che affiora di continuo, attraverso le varie polemiche e discussioni, è quella di una ‘testimonianza’. Si chiede all’artista di non astrarsi dalla realtà d’oggi, di aprirsi ad essa, di inserirvisi, di rispecchiarla nella sua opera. […] Se l’arte come fuga è rifiuto della società, l’arte come cronaca è legame con la società fluida e neutra di oggi. Quello che viene chiesto all’artista è di essere membro e promotore della società di domani.[4]


Una poesia dunque che sin dagli inizi si mostra, almeno nelle intenzioni della poetessa, come promotrice della società di domani: che non si limiti a restare mera contemplazione ma che si concretizzi, si faccia righi di “carne” e “sangue”, materia viva in grado di trasformare in immagini, versi e parole la realtà del mondo. Intenzioni, istanze che risultano in qualche modo connesse alla cultura e alla formazione cattolica di Guidacci e che tenderanno in virtù anche di questa connessione a sintonizzare la sua poesia sulle onde di una esperienza condotta e intesa con serietà, indirizzandone fortemente la ricerca più sul piano contenutistico. La poetessa d’altronde aveva incominciato precocemente a frequentare le Sacre Scritture: il legame della sua poesia con i testi biblici risulta difatti evidente non solo dal punto di vista stilistico - la scelta del versetto lungo ad esempio - ma anche iconografico e immaginifico.


Questo è anche il tipo di poesia che scrivevo allora. Erano delle sentenze, delle massime molto brevi, scritte però quasi in una forma di prosa, per lo meno di versetto biblico, il che era completamente contrario alla prassi del tempo che era tutta di derivazione ungarettiana e quindi con le parole sgocciolate in un effetto visivo tutto verticale. Le mie poesie, invece, erano tutte orizzontali, quasi fossero delle linee di prosa. In genere parlavo di un ‘noi’ più che di un ‘io’, un ‘noi’ che si riferiva molto spesso più ai morti che non ai vivi.[5]


Ma non è solo nell’Antico Testamento che Guidacci cerca i propri riferimenti poetici: il dialogo con la letteratura anglo-americana fornisce alla poesia di quegli anni linfa vitale e una fitta rete di rimandi e di vocazioni. Non è un caso che nel momento in cui viene pubblicato La sabbia e l’Angelo, Guidacci avesse già iniziato a tradurre alcuni autori angloamericani che diverranno fondamentali per la sua poetica e per la sua poesia più in generale; si tratta di Dickinson, Eliot e Donne. Un rapporto particolarmente profondo e sentito quello con le opere tradotte, fortemente sinergico e vissuto come elettivo: «l’essenziale è che le poesie con cui mi cimento acconsentano ad essere tradotte da me», afferma infatti Guidacci, «ho constatato che proprio le singole poesie (non si tratta nemmeno dei loro autori) hanno una loro precisa volontà. Mi vogliono o non mi vogliono come traduttrice. Se mi vogliono, è un’esperienza esaltante».[6] Tuttavia, nonostante la visceralità dell’attività di traduzione e lo stretto vincolo agli autori frequentati avessero delle implicazioni tangibili anche sulla scrittura poetica creativa dell’autrice, la voce di Guidacci non smette per nulla di essere originalissima e singolare espressione di una individualità poetica che è la sua e di nessun altro. Un frutto poetico unico che non poteva maturare altrove, un dettato poetico che non poteva scaturire così se non dalla penna compartecipe di Guidacci:


La poesia è qualcosa di organico, di vivo, qualcosa che ha un seme da cui poi spuntano le radici, uno stelo, un fusto, delle foglie, un fiore e un frutto. Proprio l’immagine dell’albero è per me quella che meglio rende l’idea di cos’è un poeta, o un’artista in generale. […] Io dissi semplicemente che per me i poeti erano come alberi. Tutti affondavano le radici nella terra, la nostra madre comune. Tutti, avendo degli elementi diversi, perché erano stati voluti dalla natura con possibilità diverse, sceglievano dalla stessa terra dei succhi diversi, quelli che più si confacevano a loro. Perciò, accanto ad un giuggiolo o ad un nespolo si poteva trovare benissimo un rovo, tutti radicati nella stessa terra: ciascuno ne aveva scelto le sostanze che avevano contribuito a farlo giuggiolo, nespolo o rovo, l’importante era che desse dei buoni frutti, qualunque pianta fosse. Era inutile mettersi a dire: «La poesia dev’essere così, o dev’essere in quest’altro modo». Sarebbe stato come dire: «Tutti gli alberi dovranno fare susine». I susini le faranno, ma i peri faranno le pere, i peschi faranno delle buone pesche e così via.[7]


E Guidacci è in grado di definire in maniera molto netta e chiara quale sia la natura della sua poesia, quali i frutti che prolifereranno dal suo personale albero, quale la terra che la ha nutrita. Tre sono, secondo la poetessa, le costanti che attraversano senza soluzione di continuità, l’intera sua esperienza poetica e che risultano già individuabili ne La sabbia e l’Angelo: l’impulso di conoscenza, la volontà di comunicazione e un linguaggio semplice e concreto:


La prima è un impulso di conoscenza. La poesia è sempre stata per me uno strumento conoscitivo, paragonabile alla scienza, di cui condivide l’esigenza di rigore. E di umiltà, poiché ci pone in contatto con un mondo non creato da noi, di cui compiamo, ciascuno per le sue vie, una meravigliata e meravigliosa esplorazione. La mia seconda costante è la volontà di comunicazione. Ero pronta (l’ho dichiarato agli esordi, in una specie di ars poetica che non ho mai rinnegato) a scrivere ‘nel deserto’ e per il deserto, ma se le mie poesie fossero capitate nelle mani di qualche lettore, non doveva essere per colpa mia che questi non potesse ‘riceverle’. Conseguenza delle due prime costanti è la terza: un linguaggio estremamente semplice e concreto, da cui ho tenuto lontano non solo ogni mistificazione volontaria, ma anche ogni possibile ambiguità.[8]


Che le costanti poetiche individuate dalla poetessa stessa siano chiaramente riconoscibili già dall’esordio poetico non si dà come fatto secondario: questo, insieme ad altri elementi, ci permette di apprezzare la cifra straordinaria di questo esordio già condotto con forte tensione e con una certa maturità per essere un’opera prima. Un libro, afferma la sua autrice, scritto sotto la spinta «suprema dell’istinto di conservazione e della ‘legittima difesa’: non scriverlo sarebbe equivalso per me, letteralmente a morire».[9] Curioso che Guidacci a fronte di questa ultima affermazione scriva anche che a muovere la stesura de La sabbia e l’Angelo sia stata la volontà di «esprimere un senso di comunione con i morti».[10] Da un lato quindi l’urgenza del dire, dello scrivere: un’urgenza che se non seguita avrebbe lasciato morire qualcosa nel profondo dell’autrice. Dall’altro l’intento di creare un ponte con quello che vivo non è e non può esserlo. Una dicotomia di fondo che pervade tutta l’opera prima e che risulta evidente sin dal titolo che Del Serra a ragione definisce «un titolo biblico-rilkiano e dicotomico, come molti dei successivi, imperniato sul contrasto drammatico fra il perituro e l’eterno, tra l’impermanenza e l’assolutezza dell’amore-morte».[11] E d’altronde Guidacci stessa asserisce come la sua ricerca «avrebbe dovuto svolgersi in un accostamento drammatico di significati, anziché in un accostamento magico di suoni».[12] E drammatico difatti è, a ben guardare, l’accostamento tra l’angelo, simbolo di ciò che è eterno e imperituro, e la sabbia, richiamo al tempo che scorre irreparabilmente e a ciò che invece è terreno, destinato a scorrere e a perire. Qui il disfacimento, là conservazione perfetta e immanente. Tempo, eternità e morte sono tra le tematiche strutturali più decisive non solo di questa prima raccolta ma anche di tutta l’opera guidacciana, alle quali si uniscono quelle della fiamma, del mare, del vento, degli alberi, della pietra. Una poesia, questa dell’esordio di Margherita Guidacci, nota inoltre Ramat che «s’affida al potere coagulante di grumi simbolici elementari: simboli già dati e confitti in una tradizione apocalittica, resa più tragica dall’assenza di ambiguità».[13] Una drammaticità sottolineata ed ottenuta anche attraverso gli espedienti stilistici della iterazione, della simbologia biblica, dell’incedere apodittico e del ricorso al blank verse.

Dove si colloca però, su questo sfondo, il poeta? Quale ruolo gli viene suggerito? Il poeta è testimone eletto del dialogo che si intesse tra ciò che è vita e ciò che è morte, anello di giunzione, depositario di un sapere profondo e in un certo senso totale e totalizzante. Il poeta è l’albero che sa della terra, che sa del cielo: un albero che conosce e rivela «la saggezza della vita e della morte»:


Ciò che l’albero presso la mia tomba sa,

Unito con le radici alle sorgenti e con le fronde alla brezza,

Cerca tu pure di penetrare, o viandante,

Poiché ivi è tutta la saggezza della vita e della morte.[14]


Ogni morte contiene in sé tutta la morte della terra.

Perciò morendo saprai

Il pesce buttato a riva nella notte d’uragano,

E l’arso albero, e la belva atterrata dalla fame,

E il riposo dei popoli distrutti

Sotto le sabbie dei loro regni dimenticati.[15]


*

Ogni volta che dicemmo addio;

Ogni volta che verso la fanciullezza ci volgemmo, alle nostre spalle caduta,

(Tremando l’anima al suo lungo lamento);

Ogni volta che dall’amato ci staccammo nel freddo chiarore dell’alba;

Ogni volta che vedemmo su morti occhi l’enigma richiudersi;

O anche quando semplicemente ascoltavamo il vento nelle strade deserte,

E guardavamo l’autunno trascorrere sulla collina,

Stava l’Angelo al nostro fianco e ci consumava.[16]


*


Tutta la luce ch’è nell’uomo va incontro all’ultima luce.

Nella luce si consuma l’incontro fra l’attesa dell’uomo e l’eterno.[17]


*


Ogni voce sorge e cade al piegare di un vento.

Anche il nostro inno o lamento governano gli invisibili venti dell’anima.

Solo al mare fu data voce perenne.[18]


[1] G. Caproni, La sabbia e l’Angelo, «La fiera letteraria», II, 10, 6 marzo 1947, p. 6, ora in Id., La scatola nera, prefazione di Giovanni Raboni, Milano, Garzanti 1996, p. 71. [2] M. Guidacci, Inchiesta sulla poesia italiana d’oggi, in A. Frattini (a cura di), Poesia nuova in Italia tra ermetismo e neoavanguardia, Istituto propaganda libraria, Milano 1967, pp. 151-157 ora in Ead., Prose e interviste, cura di I. Rabatti, CRT, Pistoia 1999, p. 108. [3] M. GUIDACCI, Letteratura e società, «La Città», I, 3, gennaio 1949, pp. 1-2, ora in EAD., Prose e interviste, cit., pp. 91-92. [4] Ibidem. [5] M. Guidacci, Poesia come un albero, in A. Santoliquido (a cura di), Trasgressioni di marzo, donne e poesia 1987: Atti del III Convegno nazionale (Bari, domenica 1° marzo 1987), La Vallisa, Bari 1988, pp. 33-41, ora in M. Guidacci, Prose e interviste, cit., p. 151. [6] G. Vizzari (a cura di), Bella e infedele o brutta fedele? Colloquio estemporaneo sulla traduzione poetica, «L’informatore librario», 10, ottobre 1983, pp. 24-25, ora in M. Guidacci, Prose e interviste, cit., p. 146. [7] M. Guidacci, Poesia come un albero, in Ead., Prose e interviste, cit., pp. 146-147. [8] Margherita Guidacci, [15 poesie], «Quinta Generazione», XII, 125-126, novembre-dicembre 1984, pp. 40-47. [9] M. Guidacci, Scheda autobiografica di presentazione, in G. Spagnoletti (a cura di), Poesia italiana contemporanea (1909-1959), Guanda, Parma 1961, pp. 795-800, ora in Ead.,Prose e interviste, cit., pp. 115-116. [10] M. Di Cagno (a cura di), Intervista a Margherita Guidacci, «La Rocca», 15 luglio 1971, pp. 37-38, ora in M. Guidacci, Prose e interviste, cit., p. 126. [11] M. Del Serra, Le foglie della Sibilla: scritti su Margherita Guidacci, Studium, Roma 2005, p. 12. [12] M. Guidacci, Scheda autobiografica, in Ead., Prose e interviste, cit., p. 116. [13] S. Ramat, Il significato ab extra di Margherita Guidacci, in Id., Storia della poesia italiana del Novecento, Mursia, Milano 1976, p. 656. [14] M. Guidacci, Epitaffio d’ignoto, in Ead., Le poesie, a cura di M. Del Serra, Firenze, Le Lettere, 1999, p. 59. [15] M. Guidacci, Meditazioni e sentenze, XXI, in Ead., Le poesie, cit., p. 56. [16] M. Guidacci, La sabbia e l’Angelo, III, in Ead., Le poesie, cit., p. 62. [17] M. Guidacci, Meditazioni e sentenze, III, in Ead., Le poesie, cit., p. 51. [18] M. Guidacci, Meditazioni e sentenze, VII, in Ead., Le poesie, cit., p. 52.

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