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Immagine del redattoreAlessandra Corbetta

«Le presenze sono ancora, e le tracce»: recensione a "L'ultimo nemico" di Roberto Diodato

L’ultimo nemico, uscito per Manni nel 2023 e finalista all’ultima edizione del Premio Carducci, è la più recente pubblicazione in versi di Roberto Diodato, professore di estetica all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Un libro notevole, dove a essere chiamata in causa, già a partire dal titolo, è una sorta di lotta finale, un duello che tocca compiere verso il termine del percorso esistenziale, contro quella morte che sempre si è cercato di scalzare e procastinare; ma il nemico a cui Diodato si riferisce non si presenta solo come personaggio con falce e mantello e nero agente in funzione distruttiva poiché, nei suoi versi, diviene anche compagno con e contro il quale attraversare le fasi della vita. Ne danno indicazione, in tale senso, anche i titoli scelti per le cinque sezioni in cui la raccolta è suddivisa: Ca’ nova, Il punto cieco, La vita minima, L’ultimo nemico e Poi sarà la fine.

Roberto Diodato, Manni, Copertina, Alma Poesia

Nella prima parte, dove già si coglie l’influenza che la poesia di Vittorio Sereni prima e di Antonio Riccardi poi hanno avuto sullo scrivere in versi di Diodato, a prevalere è un senso di sospensione, capace però di creare un ponte solido tra esistenze realmente state e ciò che di loro resta nel ricordo e nel pensiero: «le presenze sono ancora, e le tracce». Bellissimi i versi che prendono in causa una figura singolare, “la vecchia delle galline”, di cui ciò che viene detto non serve per caratterizzare la protagonista, bensì per aprire il testo a qualcosa di più alto, procedimento che l’autore ripete anche in altri componimenti:

 

la vecchia delle galline faceva paura,

non pena. Il tuo cuore già allora

non era duro, era soltanto debole.

Ci vollero molte more,

molti boschi.

 

In Il punto cieco il lettore è chiamato a confrontarsi con un senso di vacuum via via crescente; la perdita di persone amate costringe a rivalutare lo spazio temporale tra inizio e fine e a risemantizzare quello che resta, le uniche cose che si sono potute salvare: «La strada è sconnessa, la ruota del carro / si rompe, si spargono i semi, / la radio / i capelli raccolti, le scarpe d’avvio / i campi, le latrine, il dolore».

Ed è proprio la dimensione del ricordo a prendere piede, anche da un punto di vista terminologico, nella terza sezione, dove lo sguardo dell’autore è tutto volto all’indietro, per cercare di trattenere qualcosa, per far sì che l’attesa del ritorno non sia vana:

 

Corvi sulla roccia bianca

beccano piccoli morti

sulla roccia grigia di Gallura

È la tua ombra

di ghiaccio che ricordo

 

Nella sezione eponima, vuoto e nebbia divengono la rappresentazione tangibile di una solitudine irrimediabile; il verso si allunga perché la necessità di dire pare essersi trasformata in urgenza. Solo la pagina, capace di duplicare e dunque di somigliare all’accaduto, può evitare che la perdita sia totale, definitiva:

 

quando declineranno i verbi e fioriranno

i sospesi attesi occhi dell’inverno

sarà chiaro allora il ritrovarsi

 

In Poi sarà la fine, a farsi tema e citando Milo De Angelis, è l’addio, il saluto finale prima che il nulla inizi a prendere dimora; ma il monito che Diodato rivolge in primis a se stesso è quello di non dimenticare, di tenere traccia di tutto ciò che è stato, dal calore del cappuccino ai metallici sudari di Milano, perché in questo arrivederci senza ritorno una qualche fioritura è ancora in grado di accadere.


Con L’ultimo nemico, Diodato torna a farci riflettere sulla fragilità dell’esistenza, riuscendo a fondere i suoi studi filosofici con una dimensione quotidiana e altamente umana, rendendoci partecipi di una biografia che potrebbe essere la nostra perché, pur nella nostra unicità, non smettiamo di condividere una medesima sorte.






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