Le Interviste Doppie di Alma: Francesca Del Moro & Sonia Caporossi "sulla madre"
Tra gli archetipi di Jung, quello della Grande Madre rappresenta la figura materna, origine di tutte le cose ed emblema di comprensione, pietà e nutrimento, punto di riferimento rispetto al quale il generato deve essere in grado di attuare poi un processo di differenziazione. Come ogni archetipo, anche quello in oggetto presenta una molteplicità di sfaccettature, molto distanti le une dalle altre, al punto da fare coesistere la Magna Mater con la Madre Malvagia che divora e inghiotte.
Proprio il tema della madre, nella sua molteplicità di significati e nel suo rapporto col figlio, è al centro delle raccolte di Francesca Del Moro e Sonia Caporossi, rispettivamente intitolate Ex madre (Arcipelago Itaca, 2022) e Taccuino della madre (Edizioni Progetto Cultura, 2021); due opere permeate di morte e di riflessione sulla stessa rispetto al ruolo genitoriale e a quello filiare che, in qualche modo, sembrano collocarsi fuori da ogni possibile prospettiva cronologica.
Ne parliamo con le autrici.
Chi è e cosa rappresenta la madre in questo tuo lavoro? In che modo il suo ruolo, vissuto direttamente o osservato ed esperito nella dimensione di figlio, interviene nel processo di creazione e determinazione del sé?
F.D.M.: La madre in questo libro è costretta a fare i conti con la perdita, o meglio con la sottrazione della sua identità. Avendo perduto il figlio per volontà di quest’ultimo, si definisce ‘ex’ come una ex moglie o una ex fidanzata che è stata lasciata. È una superstite al suicidio della persona che le è più cara al mondo e in quanto tale deve fare i conti con il proprio fallimento, i sensi di colpa, l’abbandono. Nel momento in cui viene meno, il suo ruolo di madre diviene totalizzante e rischia di annullarla in quanto essere umano. Di colpo viene privata non soltanto del futuro ma anche del passato, in cui non riconosce più il figlio né il legame che aveva con lui. I versi seguono il suo percorso non lineare nello sforzo di resistere alla tentazione di darsi a sua volta la morte e di recuperare la percezione di sé.
S.C.: Questo libro è stato scritto durante l’agonia di mia madre, negli ultimi giorni della sua degenza all’interno della clinica per malati terminali in cui è stata ricoverata per quaranta giorni prima di morire e nella quale, stesa su una branda accanto al suo letto, l’ho vegliata e accompagnata verso il trapasso. Non c’è niente di edulcorato o di mistificato all’interno dei versi del libro; come ha detto benissimo Cinzia Marulli, autrice della prefazione, si tratta di una parola “nuda”. Ho cercato di scrivere in modo disarmato e di descrivere semplicemente l’atrocità del dolore: il mio, quello per il progressivo distacco inevitabile (una sorta di elaborazione del lutto ante tempore) e quello lancinante, fisico, di mia madre, nel momento estremo della degenerazione della carne. La determinazione del sé che emerge dal rapporto madre/figlia è, a mio parere, sempre biunivoca: non solo un figlio viene formato nel carattere, ma anche la madre smette di essere “solo” una donna per calarsi in un ruolo nuovo, che a volte, checché ne dicano i fautori della famiglia tradizionale e delle fiabe a lieto fine, di naturale e istintuale non ha un bel nulla. Io, ad esempio, non ho nulla di materno e non ho mai desiderato avere figli. Ma se è vero che si può decidere o meno di diventare madre, essere figlio è un’investitura che cala dall’alto, in un ruolo che non si è mai chiesto di assumere ma il cui intrinseco invischiamento in termini di diritti e doveri è impossibile da evitare, dal momento in cui si viene al mondo fino a che si vive. Essere una cosiddetta figlia “femmina”, poi, è ancora più complicato per via dell’inevitabile rispecchiamento identitario di genere, che sottintende un conflitto latente di interessi e desideri. Il rapporto tra me e mia madre non è stato da meno, in questo senso, al netto delle sue tendenze depressive e del suo problema con l’alcool, così come della mia manifesta omosessualità, tutti elementi che complicavano non poco il problema.
La morte della madre o del figlio può davvero scardinarne il ruolo, tagliare il filo, determinare un’interruzione dell’essere madre?
F.D.M.: Malgrado il titolo scelto per il libro lasci intendere il contrario, il filo che lega madre e figlio non si spezza mai. Per questo lei continua a vivere di ricordi, sensi di colpa, dolore e amore infiniti. L’oggetto del suo amore non è più nel visibile e questo la obbliga a trovare altri modi per portare avanti la loro relazione. Il pensiero glielo tiene accanto ogni momento e il sogno le dona l’illusione di poter dialogare ancora con lui. Il cimitero della Certosa di Bologna è il luogo dove la cura si perpetua materialmente, pulendo il marmo, accarezzando la foto e cambiando i fiori.
S.C.: Come tutti coloro che sono stati in analisi sanno bene, in psicoterapia non si analizzano i fatti in base a presunte realtà, bensì sulla base esclusiva dei cosiddetti “vissuti”. Una madre o un figlio sono comunque stretti da un legame di natura molteplice: in una sorta di climax discendente, questo legame è prima archetipico, poi genealogico, infine genetico. Se dovessi rispondere in modo immediato, direi che no, non si può tagliare di netto il filo. Si può soltanto cercare di evitarne l’infeltrimento o lo sfibramento, recuperando l’archè del legame in quella dimensione estetica che ci ricorda chi siamo, in virtù del nostro segreto universo sentimentale. La condizione di amore perenne che ne deriva è, inutile dirlo, dolcissima e devastante.
Quali segni il corpo di una madre è chiamato a portare? E quali quello del figlio?
F.D.M.: La morte del figlio ha un impatto violentissimo sul corpo della madre. Un flusso mestruale improvviso la coglie di fronte alla salma come a ricordarle ironicamente da dove viene quel dolore e che potrà ancora dare alla luce qualcuno, magari fallendo di nuovo. Come sottolinea Luigi Carotenuto nella postfazione, il lutto si esprime soprattutto in forma liquida: dopo il sangue, sono le lacrime a scorrere di continuo, stravolgendole gli occhi e il viso fino a farla somigliare a una bambina ingiustamente punita. All’aggressione del pianto si uniscono i brividi di spavento, i morsi al cuore, la sensazione di spaccarsi, fino a rendere necessaria una cura farmacologica. Per contro, il legame madre-figlio rimane integro nella sensazione di “contenerlo sempre”, nei ricordi e nei sogni in cui si rinnovano le manifestazioni fisiche della tenerezza.
S.C.: Nel mio caso, i segni più dolorosi sono quelli invisibili: nell’infanzia, lo stigma del rifiuto, peraltro mai esplicitato a parole, essendo in realtà mia madre una figura molto presente al limite dell’ingerenza continua, ma composto da piccoli segnali relazionali o comportamentali: uno sguardo di disapprovazione, un abbraccio rifiutato, un aiuto negato, l’indifferenza ostentata di fronte a una richiesta di dialogo. La volontà filiale di perpetuare quell’amore, che per diritto letterale di nascita si sa di possedere, cozzava, nel mio caso, con le difficoltà psicologiche e concrete di una madre oppressa da una vita indesiderata e dal peso ottenebrante della depressione post-partum. La ricerca di un contatto affettuoso e amorevole in età adulta dopo la distanza accumulatasi durante il periodo abitualmente conflittuale dell’adolescenza fu per me normale. Nel caso di mia madre, i segni angosciosi di una vita indesiderata, di un male di vivere derivato dal crollo delle proprie certezze e dalla disillusione, i segni della ricerca di una fuga nel vizio obnubilante, la tristezza alternata a momenti, anche molto belli, di estrema gioia e vitalità, erano derivati dall’aver immolato la propria vita e la propria indipendenza per stare con un uomo, mio padre, legato a un precedente matrimonio, nell’epoca in cui il divorzio ancora non esisteva; per questo i parenti la allontanarono, mentre il paese mormorava e il prete le impediva di entrare in chiesa per la messa in quanto “peccatrice”. Si era sentita a sua volta rifiutata da tutti, reietta e indesiderata. Mio fratello nacque col suo cognome e lo mantenne fino a quando, anni dopo, i miei poterono sposarsi. Ma, nel frattempo, mia madre aveva perso la freschezza del sentimento e l’illusione del “principe azzurro”. Quando nacqui io, era ormai in depressione, condizione che il parto contribuì a peggiorare. Questo male, all’epoca, non fu rilevato in famiglia, non gli si diede mai un nome e quindi non fu mai curato. Col tempo, mia madre si riprese un poco, ma non tornò mai quella di una volta. Decise quindi di non affrontare la malattia e di tenerla nascosta a tutti, fino a quando la realtà non divenne manifesta. Alla fine, ci fu da parte mia il perdono, che spero sia stato reciproco, per tutte le volte che non sono riuscita a capirla e a starle vicino.
Come interviene la poesia e il processo che conduce alla sua scrittura rispetto alle spaccature instauratesi col tempo nel rapporto madre/figlio?
F.D.M.: Da sempre scrivo soprattutto poesie d’amore, come se volessi gettare una sorta di ponte tra me e gli altri: di volta in volta si tratta di uomini o donne amati sensualmente, amici, artisti e modelli di scrittura, talvolta incontri fuggevoli o persone sconosciute. I versi sono spesso una forma sostitutiva dell’amore che mi è impossibile dare nel modo in cui vorrei. Con la poesia continuo a parlare incessantemente con mio figlio, esprimendogli dolore, rabbia, ma soprattutto un amore infinito.
S.C.: Il rapporto conflittuale, seppur ricolmo di enorme affetto, con mia madre, ha generato in me un dissidio che è sicuramente intervenuto a stratificare i traumi dell’infanzia e ha determinato la percezione, da parte mia, di una sostanziale anaffettività da parte di mia madre nei miei confronti; la solitudine che ho avvertito nelle fasi principali del mio sviluppo emotivo mi ha portato, negli anni, a sviluppare un carattere introverso e un malessere profondo. La psicoterapia è intervenuta, a più riprese salvificamente, a ricordarmi chi ero e chi sono, nel bene e nel male. Io credo molto nella capacità terapeutica della poesia, che mi ha aiutata enormemente non solo a elaborare il rapporto doloroso con mia madre ma anche i miei problemi personali.
Ringraziandoti per averci accompagnati in questo percorso, ti chiedo di riportarci qui tre testi di questa tua raccolta che ritieni particolarmente significativi, raccontandoci anche il perché.
F.D.M.: Vi ringrazio di cuore a mia volta e scelgo di iniziare con la poesia con cui si apre il libro poiché rende l’idea del perpetuarsi del legame madre-figlio oltre la morte. Aggiungo poi un componimento emblematico della particolarità del lutto per suicidio e infine una poesia della cura. Il libro parla di dolore ma credo che sia anche pieno di amore: non solo quello per mio figlio ma anche l’amore di tante persone che da quel giorno di luglio non hanno mai smesso di starmi accanto e di sostenermi.
Ho stretto l’urna contro il ventre,
pesava pressappoco come allora.
Un figlio lo contieni sempre
e ogni minuto io contengo,
ogni minuto sento dentro
mio figlio che muore,
mio figlio che decide di morire.
*
Sì, lui ha ucciso,
mi ha detto a pranzo
quando il pianto
mi ha spento il sorriso.
Ha ucciso tuo figlio,
il figlio di Tommaso,
il nipote di Alessandro,
il cugino di Noemi,
l’amico di Irene.
Ha ucciso qualcuno
per ogni persona
accorsa quel giorno
all’incredulo saluto
sotto la trafittura
del sole di luglio.
*
Il sole che da luglio mi ferisce
torna buono in questo giardino.
Ecco le aiole, le rose, il tavolino
tondo, le ombre del fogliame,
il sorriso di Adriana.
Nella stanza per me il letto fresco
mi ridona l’emozione del viaggio,
delle bozze sul comodino.
Piangere è dolce la sera tra la meliga
e l’orsa che seguiamo nel cielo
pulito, è un pianto condiviso.
S.C.: Ho scelto queste tre poesie perché in qualche modo sintetizzano il rapporto con mia madre. Le prime due esprimono la solitudine da me percepita durante l’infanzia, descrivendo in qualche modo l’evanescenza del sentimento d’amore che non percepivo appieno da parte sua, il suo apparente disinteresse. La terza è stata scritta l’ultima notte nella sua camera di morte, durante una veglia che già sapevo essere incipientemente funebre. Lascio il resto ai versi, non mi sento di aggiungere altro.
ricordi d’infanzia
gli altri bambini scendevano a giocare sulla spiaggia
i pomeriggi risuonavano di grida e tonfi di pallone
quante facce li osservavano da queste bianche mura
ecco il cobalto vagare nel vago ricordo del mare
nuvole d'ebano e cenere sulle loro mani sporche
sulla rotondità perfetta e nuda della terra
rimanevo in casa a guardarli senza invidia
dallo spiraglio australe della finestra spalancata
non ci si può aspettare altro che uno sguardo passeggero
non c’è rimasto altro che un fotogramma sbiadito
non anelavo certo al calore della sabbia
non all’asprezza infetta delle ginocchia sbucciate
desideravo alle mie spalle soltanto le carezze
che priva d’interesse mia madre non mi dava
passeggiata sulla spiaggia
la risacca schiuma
la sabbia sospesa
cade giù
sbatte storto verso l’acqua
e vaga correndo
guardo mia madre perdersi nel sole
certi scafi le giacciono accanto
come cose morte riposano
il suo pensiero vola
accompagna un gabbiano
che richiama la compagna
col suo ignaro stridore
mentre io son qui, giaccio sul molo
col mio costumino a fiori
a cui ha tolto il pezzo di sopra
la vedo allontanarsi
e come quel gabbiano, io la chiamo
e urlo, e mi dispero
finché una nebbia non nasconde quel volo
e ognuno è con sé stesso, quasi vuoto
e ognuno è con sé stesso, solo
veglia
dormo sulla branda tra le pareti bianche
mia madre sta morendo da sola insieme a me
tagli trasversali su cortecce di bambù
lungo le venature molli della carne
la sapida chirurgia della ferita infetta
infiamma lattiginosa le caverne del mio cuore
si sparge come sangue sulla coperta bianca
come speranze vuote, trafitte nell’assenza
le luci brulicano nell'infrarosso del cielo
invadono l’orizzonte nell’olio lunare di un pianto
io mi terrifico inerme di questo assorto silenzio
non tollero la visione dello squarcio antiestetico a lato
annullo le certezze con cui ci si infonde coraggio
in un prolasso fluente di pus e falsità
“ti voglio bene, mamma, ti voglio bene, è vero…”
ma lei già non mi sente, non è più lì con me
per questo io ora so bene che per ricominciare
bisogna talvolta usare la bieca parola fine
Francesca Del Moro è nata a Livorno nel 1971 e vive a Bologna. È laureata in lingue e dottore di ricerca in Scienza della traduzione. Ha pubblicato i libri di poesia Fuori tempo (Giraldi, 2005), Non a sua immagine (Giraldi, 2007), Quella che resta (Giraldi, 2008), Gabbiani ipotetici (Cicorivolta, 2013), Le conseguenze della musica (Cicorivolta, 2014), Gli obbedienti (Cicorivolta, 2016), Una piccolissima morte (edizionifolli, 2017, ripubblicato nel 2018 come ebook nella collana Versante Ripido / LaRecherche), La statura della palma. Canti di martiri antiche (Cofine, 2019) ed Ex madre (Arcipelago Itaca, 2022, vincitrice del Premio “Tra Secchia e Panaro” e del Premio Taranto Poesia e Impegno Civile per la sezione Testimonianza). Ha curato e tradotto numerosi volumi di saggistica e narrativa e ha pubblicato una traduzione isometrica delle Fleurs du Mal di Baudelaire (Le Cáriti, 2010) e la traduzione dei Derniers Vers di Jules Laforgue (Marco Saya, 2020). Fa parte del collettivo Arts Factory e del Club Pavese+Tenco insieme a Federica Gonnelli e alla fondatrice Adriana M. Soldini, con le quali ha contribuito come traduttrice e performer ai cataloghi, alle opere di videoarte e alle performance di presentazione delle mostre collettive di arte contemporanea Scorporo (2011), Into the Darkness (2012) e Look at Me! (2013), nonché allo spettacolo Rose gialle in una coppa nera dedicato a Cesare Pavese e Luigi Tenco (2018). Propone performance di musica e poesia insieme alle Memorie dal SottoSuono, con cui ha inciso due brani inclusi nelle compilation Leitmotiv 13 (2013) e Leitmotiv 14 (2014) prodotte da Fuzz Studio e ha partecipato alla realizzazione del primo album omonimo (2016). Nel 2013 ha pubblicato la biografia della rock band Placebo La rosa e la corda. Placebo 20 Years, edita da Sound and Vision. Dal 2007 organizza eventi in collaborazione con varie associazioni bolognesi e fa parte del comitato organizzativo del festival multidisciplinare Bologna in Lettere.
Sonia Caporossi (Tivoli, 1973), è musicista (con i Void Generator: Phantom Hell And Soar Angelic, Phonosphera Records 2010; Collision EP, 2011; Supersound, 2014; Prodromi, 2017; Anatomy of a Trip, 2019); narratrice (Opus Metachronicum, Corrimano 2014, seconda ed. 2015; Deaths in Venice. Racconti dalla laguna, a cura di L. Liberale, Carteggi Letterari 2017; Hypnerotomachia Ulixis, Carteggi Letterari 2019; Opus Metamorphicum, A&B 2021); critica letteraria e curatrice (Un anno di Critica Impura, Web Press 2013; Poeti della lontananza, Marco Saya 2014, con A. Pierangeli; Pasolini, una diversità consapevole a cura di E. Campi, Marco Saya 2015; Da che verso stai? Indagine sulle scritture che vanno e non vanno a capo in Italia, oggi, Marco Saya 2017; La Parola Informe. Esplorazioni e nuove scritture dell’ultracontemporaneità, Marco Saya 2018; La gentilezza dell’Angelo. Viaggio antologico nello Stilnovismo, Marco Saya 2019; Diradare l’ombra, antologia di critica e testi per Claudia Zironi, Marco Saya 2019; Le nostre (de)posizioni. Pesi e contrappesi nella poesia contemporanea emiliano-romagnola, con E. Campi, Bonanno 2020; G. Leopardi, L’infinita solitudine. Antologia ragionata delle poesie, Marco Saya 2020); poetessa (La consolazione della poesia a cura di F. D’Amato, Ianieri Edizioni 2015; Erotomaculae, Algra 2016; Alla luce di una candela, in riva all’Oceano a cura di L. Leone, L’Erudita 2018; La forma dell’anima altrui. Poesie in omaggio a Seamus Heaney, a cura di M. G. Calandrone e M. Sonzogni, LietoColle 2019; Taccuino dell’urlo, Marco Saya 2020; Taccuino della madre, Progetto Cultura 2021; Taccuino della cura, Terra D’Ulivi 2021; Babel – Stati di alterazione, a cura di E. Campi, Bertoni 2022; Miglior acque, a cura di M. Sonzogni e M. Bianchi, Samuele 2022); saggista (La pietà del pensiero. Heidegger e i Quaderni Neri a cura di F. Brencio, Aguaplano 2015; Poesia e filosofia: i domini contesi, a cura di S. Iori e R. Pierno, Gilgamesh 2021). Dirige per Marco Saya Edizioni la collana di classici italiani e stranieri La Costante Di Fidia. Ha diretto inoltre Critica Impura e Poesia Ultracontemporanea. È giurata dei concorsi letterari di Bologna In Lettere, Versante Ripido e del Premio Letterario Il Giardino di Babuk. Collabora attualmente a Poesia del nostro tempo, Versante Ripido e Bibbia d’Asfalto. Il suo blog personale è disartrofonie. Vive e lavora a Cesena.
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