Le Giovani Interviste di Alma: Francesco Ottonello
Continuiamo con Francesco Ottonello il nuovo spazio "Le Giovani Interviste di Alma", dedicato alla messa a fuoco del pensiero e della poetica di giovani autrici e autori talentuosi.
I primi sette appuntamenti saranno dedicati alle poetesse e ai poeti inclusi nel Quindicesimo quaderno italiano di poesia contemporanea (Marcos y Marcos 2021).

L’elemento dell’isola percorre in maniera determinante la tua raccolta Futuro remoto pubblicata nel Quindicesimo Quaderno Italiano di Poesia Contemporanea (Marcos y Marcos 2021). L’isola è l’isola madre che raccoglie le tue radici, è l’insula all’interno del cervello umano, è quella “remota” della prima sezione e quella riaperta all’interno del libro. L’isola inoltre si espande fino a determinare l’intera struttura della raccolta, insieme a tutti gli elementi correlati (il mare, l’arcipelago). Quale valore assume questa parola all’interno del tuo libro e nella tua poesia, quali significati riveste? E, nel momento in cui definisci il tuo macro-testo come un’opera- arcipelago, stai ripensando il concetto stesso del libro di poesia e considerando i singoli testi come isole emerse da uno stesso tessuto in cui la vicinanza e distanza va rivista secondo una nuova concezione? Paolo Giovannetti nella prefazione alla raccolta (Di isole e di insulae) afferma, nelle battute iniziali, che le «parti scritte in sardo […] conferiscono al testo una patina di immobilità leggermente archetipica, paradossalmente istituzionale, come se la lingua altra fosse lì a ricordare un “qui c’è poesia” senza ulteriori connotazioni.» In una raccolta in cui nel titolo è presente la parola “futuro” e in cui si parla della volontà di non seguire un ordine temporale lineare qualcuno potrebbe interpretare questa scelta come un retaggio del “passato”, come un riagganciare quelle radici, private e collettive, che appartengono al tuo mondo, a un micromondo che forse si sta disgregando. Come convive questa lingua con i diversi linguaggi che abitano questi versi, inclusi quelli tecnici e volutamente fantascientifici che adotti altrove, e davvero questa componente linguistica costituisce un “baluardo di immobilità” voluto di fronte ad un mondo che si sta frammentando e annientando? L’isola, come hai sottolineato tu, ha tanti sensi: oltre a quello geo-biografico coincidente nella Sardegna e quello neurologico dell’insula, vi è quello esistenziale, che si espande a mindset che può determinare anche la forma arcipelagica di un libro. Potremmo aggiungerne un terzo socio-politico, come ha fatto Matteo Fantuzzi[1] rileggendo il mio lavoro, o come io ho fatto rileggendo attraverso il postcolonial l’opera di Antonella Anedda[2]. Per il resto, penso che Futuro remoto abbia a che fare con il nucleo dell’incomunicabilità e con due correlati tematici: l’irriconoscenza e il riconoscimento. Sono grato che la mia opera abbia ricevuto intense letture critiche, con vari tagli, passando dai professori universitari di lungo corso come Paolo Giovannetti e Giovanna Caltagirone a vari dottorandi e critici della mia generazione (Sara Vergari, Gerardo Iandoli, Stefano Bottero, Alessandra Corbetta, Massimo Del Prete, Chiara Evangelista, Giulio Medaglini, Diego Ghisleni), passando per vari autori nati tra anni Sessanta e Ottanta (Tommaso Di Dio, Matteo Fantuzzi, Cristiano Poletti, Nino Iacovella, Iuri Lombardi et alii). Però in effetti, ora che mi ci fai pensare, il mio lavoro non è stato ancora approfondito nello specifico in questa ottica. I titoli Isola aperta e Futuro remoto giocano con l’ossimoro, con la contravvenzione, per me caratteristiche precipue della poesia. L’isola che molti si immaginano chiusa in realtà è aperta più del continente che rimugina in sé stesso e non tende all’altro, ma invade l’altro e prende egemonia sull’altro. Il futuro che molti si immaginano come imminente, qualcosa di assolutamente inedito, in realtà è qualcosa di remoto e di affatto nuovo. Nella mia poesia troviamo testi che hanno come sfondo un’isola del Mediterraneo, ma anche la Schwarzwald tedesca, o Milano in cui rivedo un’antica Mediolanum e le steppe russe e l’Oriente. Al contempo abbiamo testi sul metaverso, testi con l’australopiteco, testi ambientati in pianeti alieni con le leggi della fisica ribaltata. In questo libro tutti i cronotopi sono posti in circolo nello spaziotempo del Futuro remoto: sono nella mia mente in connessione, tesi l’uno all’altro a formare un universo arcipelagico, che rompe la linearità gerarchica e cronologica del dettato. Per me la poesia ha infatti a che fare primariamente con il sommovimento degli schemi del logos. Da controcanto, c’è quel “baluardo di immobilità” che hai posto in evidenza. Da una parte, è insito al gesto della poesia che per esistere “immortala” in una forma. La mia poesia è incisione, è graphia, ma è anche bolu, per usare un termine sardo (poesia a bolu è detta infatti la poesia estemporanea orale e cantata). D’altra parte, il termine mi fa pensare a quello che Kereny chiamava in un suo mirabile saggio “il mitologema atemporale dell’antica Sardegna”. I Sardi avrebbero un’altra temporalità, con un’antropologia profondamente diversa da quella italica. Forse anche per questo mi sono riconosciuto in pochi poeti italiani-italici. Mentre quando ho incontrato Antonella Anedda c’è stata un’empatia immediata. Anche io sono sardo, ma non totalmente sardo di origini. Sono nato e cresciuto in Campidano, ma vivo da molti anni in Continente. Per questo a volte non mi sento riconosciuto né dalla mia isola né dall’Italia, soprattutto a livello istituzionale. nel metaverso esisterai per sempre.
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facilmente scorderai il corpo sarà vita la scelta irreversibile
morte un antico remoto rimosso.
potrai resettarti, rifare da capo un nuovo spazio una figura un amore
congeniali al tuo avatar virtuale Questi versi appartengono al testo iniziale della sezione Dentro il metaverso. Qui si parla di una forma di immortalità fittizia che si contrappone alla mortalità e alla finitezza inevitabili per il genere umano e della possibilità resettare e di iniziare da capo che si contrappone al concetto stesso di passato, con il suo carico di rimpianti e di rimorsi. Una prospettiva che a me appare più una condanna che una salvezza. Il tema della morte e quello del tempo che sfugge sono due temi capitali della poesia in assoluto. In quale rapporto è la tua poesia con questi due concetti? Questo è un testo che riprende una linea ironica, che in Isola aperta è rimasta soppressa, ma era presente nei miei primi testi pubblicati cinque anni fa su «Poetarum silva»[3]. Cristiano Poletti parlava di «un’ironia profonda, unitamente a un grado alto e doloroso di percettività, e a una per nulla celata oralità, altrettanto profonda e direi costitutiva del suo verso». Penso che queste tre caratteristiche – ironia, grado alto e doloroso di percettività, oralità – tornino qui a essere fondamentali per comprendere a fondo l’operazione. La sezione sul metaverso è folle e sperimentale, intende porsi al di là del giudizio morale, infatti convivono fascino e paura, condanna e salvezza, tant’è che sono messe in campo più voci e il “mio” Io lirico scompare del tutto. È stato un azzardo, forse, anche perché si allontana dalle altre tre sezioni, però non rimpiango affatto di avere dato testimonianza di questi miei altri interessi e avere scritto per primo sul metaverso in poesia, un anno prima che si iniziasse a discuterne su tutti i giornali in Italia e nel mondo.
Vorrei spostare la conversazione sul discorso relativo a poesia e Rete, di cui Alma è attenta a raccogliere testimonianze. Sappiamo che il dibattito attuale si muove passando da una posizione all’altra, riassumibili in “la Rete sta rovinando la poesia” oppure “la Rete salverà la poesia”. In questa dicotomia, semplificatrice e banalizzante di un fenomeno ben più complesso, si intravede, però, una realtà indiscutibile e cioè che i nuovi linguaggi della Rete hanno avuto un impatto rilevante su quelli poetici, in termini di comunicazione, diffusione e, forse, anche su forme e contenuti. Qual è la tua posizione a riguardo? Come vedi il futuro della poesia in relazione alle sue interconnessioni con il Web?
Da poeta potrei chiudere così la questione: non vedo un futuro della poesia che non sia remoto.
Dilungandomi, da critico, potrei dire che la prima volta che parlai di rete della poesia, con una certa insofferenza, fu per la serie di interviste pubblicate in appendice alla tesi magistrale dell’Università di Bologna scritta da Riccardo Frolloni (a. a. 2017-2018), con relatori Stefano Colangelo e Alberto Bertoni, il cui lavoro spero venga presto ripreso.
Rispetto ad allora il mio pensiero si è certamente affinato, ma rimane lo stesso. Mi permetto giusto di rimandare per approfondimenti alla seconda parte del mio intervento tenuto per la Aix-Marseille Université[4]. A un certo punto parlo della caduta del velo illusorio del fare gruppo, del fare comunità. Propongo di sostituire l’espressione “comunità poetica” con “rete della poesia”, che rimanda anche al ruolo sempre più ingombrante del web e dei social network, anche per il suo funzionamento pragmatico – rete come ciò in cui bisogna inserirsi e in cui vigono determinate logiche di potere. Anche per avere uno spazio di libertà creammo alcuni anni fa www.mediumpoesia.com. Cerco di ragionare a riguardo, come mi insegnerebbe Franco Buffoni, in senso neo-fenomenologico.
Dall’altra, però, a livello di configurazione e tensione ideale parlerei di una dimensione arcipelagica. E di un sogno di arcipelago come spinta alla ricerca di una vicinanza che mantenga tuttavia la preziosa differenza. Al di là dalla relazione con poeti coetanei, viventi o morti biologicamente (e anche qui torna il futuro remoto…).
Personalmente, non ho mai sentito di appartenere a nessuna compagine sociale, figuriamoci poetica, non potendo proprio riconoscermi né nel sistema dell’eteropatriarcato né in quello ipercapitalistico, a cui quella che amano chiamare “comunità poetica” mi pare tutto sommato aderire nelle sue logiche interne.
Siamo nel 2022, eppure il dibattito intorno alla questione del gender in poesia sembra non essersi ancora esaurito: da una parte ci si continua a chiedere se, in effetti, la poesia possa averne uno o se, in quanto arte, prescinda da qualsiasi suddivisione a riguardo; dall’altra l’inevitabile constatazione della prevalenza di poeti uomini nelle antologie scolastiche e pure nel panorama poetico contemporaneo.
Alla luce della preponderanza che il tema del femminile sta assumendo nel dibattito odierno tout court e in riferimento anche alla conta che sempre viene fatta di autori uomini e autrici donne presenti in lavori corali come quello di cui il tuo Futuro remoto fa parte, come inquadri l’argomento e qual è la tua opinione a riguardo? Soprattutto, prevedi un’evoluzione verso altre traiettorie per un futuro prossimo?
La poesia è oltre il genere, ma il genere di chi compone poesia, vivendo in una società fortemente binaria e a dominio eteropatriarcale non può che influire, anche a livello storico-sociologico. Anche se è vero che, soprattutto per le nuove generazioni, non tutte le poesie scritte da donne o uomini biologici hanno un genere riconoscibile. Non parlerei dicotomicamente di “poesia maschile” e “poesia femminile”, così come evito le diciture “poesia gay”, “poesia trans” e “poesia queer”. Ciò che mi interessa da studioso è analizzare semmai i motivi omoerotici, omorivendicativi, femminili, femministi, trans, queer presenti in un testo.
Per la questione femminile, più che parlare, preferirei leggere e ascoltare. Ho recensito lo scorso anno con grande attenzione il volume «Tacete, o maschi». Le poetesse marchigiane del '300» (Argo 2020). Recentemente mi ha interessato e indotto a riflettere l’intervento di Elisa Donzelli[5], che si richiama a una poesia al femminile, ripercorrendo la sua esperienza da studiosa e poeta.
Volendo aggiungere qualcosa di personale, penso che la riflessione sul genere vada studiata in rapporto a quella più ampia dell’identità, parola cardine a mio avviso della poesia ipercontemporanea. Bisognerebbe capire infatti se esiste ancora ed è davvero esistita in senso così monolitico una poesia maschile e che cosa voglia dire “poeti uomini”. Parliamo di un gruppo omogeneo, a livello diacronico e sincronico? Le poetesse o poete (c’è oscillazione di uso tra le stesse autrici di poesia) rappresentano davvero un gruppo compatto, a livello linguistico e stilistico, a cui contrapporre un gruppo di poeti al maschile? O ci sono più gruppi? Se penso a una delle presentazioni fatte del XV Quaderno, Franco Buffoni ha chiesto alle colleghe Sara Sermini e Linda Del Sarto se preferissero essere chiamate “poeta” o “poetessa”. Se la prima ha detto di preferire “poeta”, la seconda ha risposto “poetessa”. Penso che questo aneddoto sia di per sé indicativo. E non a caso rispecchia la loro scrittura, che per Sermini sembrerebbe essere agender, nel caso di Del Sarto tipica di un certo filone di sentimentalismo femminile novecentesco. Le poetesse rivendicherebbero, dunque, una linea di poesia femminile? Le poete annullerebbero tale binarismo? Sono questioni aperte e come evidenziate voi di Alma centrali in questi anni.
Auspico però che il dibattito si faccia di ampia portata e coinvolga il “maschile”, mettendolo in questione, in dubbio.
Io stesso rifiuto categoricamente la dicitura “poeta maschio”. Un verso di una mia poesia è «sempre escluso dalla tribù dei maschi». Per quanto mi riguarda io sono Attis, sono Balto, non appartengo ad alcuna tribù. Non ho mai sentito di appartenere a niente, risulto sì escluso biologicamente dal genere femminile, ma mai sono stato accolto socialmente da qualsivoglia compagine maschile, seppure non abbia alcuna disforia di genere.
Aderire a qualsivoglia gruppo avrebbe significato svendere la mia isola, ciò che ho di più caro, seppure temporaneamente. Da ogni gruppo tutt’ora mi sento rifiutato, o prima accolto, e poi tradito. Non credo nemmeno nei gruppi di poeti, un covo di rancorosi e invidiosi siamo, a pensarci così. Chi ha preso ha preso, chi dà è perché vuole qualcosa in cambio. Io non ci sto e resto insulare. Solo restando insulare posso amare la poesia. Ciò non significa essere isolato e non aprirmi agli altri. Pensarci come una configurazione archipelagica mi rende più comprensibile il dolore degli altri, il rancore, l’insofferenza. E quando sono in pace con me non riesco a voler male anche a chi mi tradisce, o dice delle cose di facciata e dietro lavora contro. Pazienza. Peggio per loro, penso.
Per proteggere una sorta di mio istinto naturale, che mi porta a offrirmi fiducioso verso l’altro – che facilmente travestito da ‘alleato’ si trasmuta in ‘invasore’ – credo solo nell’isola e in un sogno di arcipelago. Credo in quella tensione che smuove il vuoto, vi soffia forte e lo vivifica, creando corridoi di senso, correnti come possibilità che una voce giunga da un capo a l’altro. Tradurre una voce da un’isola verso un’altra: questo fa la poesia per me, la poesia che mi piace. Molta poesia che leggo, di coetanei e non, è stagnante, non viaggia, è un riflesso opaco di una frustrazione.
Ho scoperto a malincuore che la poesia non ci unisce, di per sé, ma può rincuorare le isole e rammentare il sogno della confusione. Nel circolo della poesia io sono un’isola, tra le tante, quando provo ad aprirmi sento l’invidia altrui. Mi fa male. Mi richiudo. Tendo, a volte. Sono un poeta quando sono un’isola aperta, ma spesso sono un’isola chiusa. Non credo nelle invasioni, negli atti di forza, e se tutto ciò è maschile lo rifiuto categoricamente. Dovremmo rispettare il nostro punto piccolo, ascoltarci ognuno, dalla sua isola, attraverso il vento. Forse non servirà a nulla. Se può servire, sappiate che io sono qui. In ascolto. Perché le isole sognano anche la propria fine.
Ti chiedo di scegliere da Futuro prossimo tre testi e di riportarli qui per le lettrici e i lettori di Alma.
||
sa die at a benire. saremo ripensati
la condensa della specie, l’individuo
che si rompe. nel giorno che verrà
–
ma qui veniamo soli, trascinati
ingranaggi ruotano all’infinito
errori come pietre non cancellano
le tue orme e ripetiamo, ripetiamo
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criadì unu artru tue, pro s’amore ’e mie
eccedi. questo emergere è espatriarsi
oltre il latte materno e le galassie
–
cada die pro totus sos mundos et dies
vivi sbranando, sapendo sparire
una volta infinitamente per tutte
||
ora sentivano il bosco bruciare –
lo scroscio liquido della fonte
vertendo la gravità risaliva
al cielo e discendeva carneo piropo
smottava il mondo, albere si rapiva
nere emergevano larve, animali alieni
piante digitali, rumori bifoni
–
ora sentivano il bosco bruciare –
una figura si ergeva e si squagliava
tutto era smesso in una pausa, saldo
si rifece poi assediandoti il collo
stretto ti girò, ricompattando il corpo
ti portò dentro via in un’altra stanza
secoli fa di un consolato nulla
–
ora sentivano il bosco bruciare –
nessun moto trovando per morire
nel mito sfinito, nel monte ferito
nella nenia attonita della tele
nel solo segno certo, stringersi
chiudere tutto senza mai
rendersi al possibile
[1] https://www.almapoesia.it/post/editoriale-poesia-rete-appuntamento-n-2
[2] https://www.mediumpoesia.com/isolatria-una-possibilita-di-lettura-postcoloniale-dellopera-di-antonella-anedda/
[3]https://poetarumsilva.com/2017/04/04/francesco-ottonello-inediti/
[4]https://www.youtube.com/watch?v=3JcPMzysEF0.
[5]https://www.leparoleelecose.it/?p=43614

Francesco Ottonello (Cagliari 1993), poeta e studioso, ha pubblicato la monografia Pasolini traduttore di Eschilo (GRIN 2018) ed è dottorando di ricerca presso l’Università degli Studi di Bergamo. Il suo esordio Isola Aperta (Interno Poesia 2020, pref. Tommaso Di Dio) ha vinto il «Premio Gozzano Opera Prima» ed è il primo poeta sardo a essere incluso nei Quaderni di Poesia Italiana Contemporanea a cura di Franco Buffoni, con Futuro remoto (Marcos y Marcos 2021, pref. Paolo Giovannetti). Suoi articoli e recensioni sono usciti in varie riviste («Acme», «L’Ulisse», «Semicerchio», «Oblio», «l’immaginazione», «Atelier», «Traduttologia») e poesie in vari litblog («Le parole e le cose», «Nuovi Argomenti», «Nazione Indiana» etc). Le sue poesie sono state tradotte in inglese («Journal of Italian Translation»), portoghese («Oresteia»), spagnolo («Centro Cultural Tina Modotti»), greco («Periou«) e sono presenti in diversi volumi antologici: I poeti nati negli anni Ottanta e Novanta a cura di G. Martini (Interno Poesia 2020), La radice dell’inchiostro a cura di G. Cornelio (Argolibri 2021), Distanze obliterate a cura di «Alma Poesia» (Puntoacapo Editrice 2021) e Queerfobia a cura di G. Ghibaudo e G. Polastri (D editore 2021). Ha recitato nel film Il rosa nudo (2013) di Giovanni Coda e in vari spettacoli teatrali. Ha curato la rassegna Poesia e Contemporaneo per Lampioni Aerei (Milano 2018-2019). Dirige www.mediumpoesia.com ed è redattore di «Bezoar – Rivista di poesia contemporanea» (Perrone, 2021-).
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