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Immagine del redattoreAlessandra Corbetta

Le Giovani Interviste di Alma: Alessandro Grippa

Continuiamo con Alessandro Grippa il nuovo spazio "Le Giovani Interviste di Alma", dedicato alla messa a fuoco del pensiero e della poetica di giovani autrici e autori talentuosi.



La parola che apre il primo testo di Revisioni (Delta 3, 2021) è «Guardo», con un’evidente rimando alla sfera visiva, centrale in tutta la raccolta come anche il titolo lascia intuire.

La società occidentale contemporanea è oculocentrica, poiché la vista ricopre una posizione gerarchicamente sovraordinata a quella delle altre sfere sensoriali e la nostra conoscenza del mondo passa massimamente attraverso ciò che gli occhi captano e, tramite processi ottici, trasmettono al nostro cervello; la visione non consiste però solo nell’incamerare informazioni provenienti dall’esterno ma include anche la loro costruzione, cosicché ogni scelta diviene una scelta di sguardo e, accanto a una passive vision, esiste sempre un’active vision.

Sulla base anche della tua formazione accademica e della tua professione (Alessandro è diplomato al biennio di Arti Visive all’Accademia di Belle Arti di Brera e insegna storia dell’arte in un istituto di secondo grado n.d.r) come hai provato a coniugare, dentro questa tua ultima pubblicazione, suono e vista da una parte e parola e immagine dall’altra, tenendo conto anche di quanto afferma John Berger e cioè che «il vedere viene prima delle parole»?


A volte avverto la vista come un senso indifeso e per certi versi indifendibile.

Potersi sottrarre a una visione: il gesto meccanico di chiudere le palpebre o voltarsi è un esercizio che ferisce e frantuma, prima di ridursi a callo. Resta vero che analizzare, valutare e attuare una scelta amplifica il senso critico insito nel possibile, ma implica comunque rinuncia, cesura, distacco da una porzione di reale. Virare il proprio sguardo è mutare: traiettoria e orizzonte, incontri. Avete citato un dettaglio essenziale, introducendo questa prima domanda; per completarlo posso solo aggiungere che Revisioni si apre con la parola “Guardo” e termina con la parola “buio”: volevo che ciò che avviene all’interno delle pagine fosse idealmente l’istante di un occhio aperto e dopo chiuso (ma la dicotomia cromatica bianco/nero, luce/buio, calligrafia/pagina, torna ripetutamente all’interno della raccolta). Viviamo, anzi siamo, nell’iconosfera. Non la definirò con parole mie, ma con quelle essenziali di una personalità cara alla mia formazione, il filosofo Federico Ferrari. Cito testualmente un passaggio da un suo intervento presente nella rivista online Antinomie (riporto qui il link: https://antinomie.it/index.php/2020/05/31/frontiere-delliconosfera/): “[…] un ambiente in cui la vita è avvolta dalle immagini, intrappolata in esse, come congelata sulla loro superficie impalpabile, al di fuori di ogni senso oltre quello della vista. Le immagini, per l’appunto, diventano la regola, o il medium, attraverso cui la vita si dà e si dà come vita associata, come sistema vivente…”.

Nell’epoca dell’iconosfera — il nostro tempo — scegliere di/cosa non vedere, stabilire da cosa distrarsi, è soprassedere dal mondo e dalla sua eco; cioè la catena di riproduzione spettacolare del mondo. In questo senso Revisioni è concepita quasi come un catalogo del mio sguardo; un parziale punto di vista lanciato dalla mia posizione biologica, psicologica sociale, sessuale, sul mondo e sul suo doppio, quello bidimensionale delle immagini. Scriverne ha portato ovviamente con se il logorante, luminoso dilemma dell’ekphrasis. Scriverne perché? Scriverne come? A partire da queste domande ho tentato una possibilità di voce. Resta poi centrale il fatto che la parola, apparecchiata sul supporto chiaro (cartaceo o di un dispositivo) è un’impronta, un segno, ed assume un’importante responsabilità visiva (poi trasmessa a una comunità in ascolto a partire dal buio del mio corpo, della mia presenza orale). Farò perciò, in questa sede e in punta di piedi, i nomi di Malevič e il suo Quadrato nero, l’idea di icona che timbra con la sua assenza (d’immagine) il bianco della tela, e la forma-cubo, il metro-geometria di Amelia Rosselli: in qualche modo nella mia mente queste due figure, queste due possibilità di forma attorno a un senso, sono state vicine, fino quasi a collimare, durante la stesura di Revisioni.


Nella prefazione a Revisioni Cristiano Poletti scrive che «C’è un’altra consapevolezza che però credo vada sottolineata, che grande è l’ambizione della permanenza. L’arte forse questo ci insegna, ed è la ragione per cui l’autore ci porta così tanto a dialogare con sequenze di fotogrammi, ritratti, opere, altri poeti, ci fa partecipi di traduzioni e studi a lungo e amorevolmente eseguiti»; Poletti ben sottolinea, dunque, la multistrutturalità che caratterizza questo tuo lavoro e la finalità ultima di provare a tenere insieme e fare sì che qualcosa sopravviva. Non a caso “revisione” è guardare ancora, osservare di nuovo anche per potere rendere migliore, sempre più adatto.

Ti chiedo: la multidisciplinarità artistica è una strada davvero in grado di condurre verso la rimanenza delle cose? Oggi, dal tuo punto di vista, prevale l’esigenza di farsi arcipelago e unire oppure quella di restare, anche nelle varie arti, isole separate e lontane?


Cristiano Poletti è da sempre in grado di entrare nella carne dei miei testi, intuirli ed accenderli come forse nemmeno io so fare. Diciamo che perdere, dimenticare, è un grande tema del terrore che porto in me. Ho provato a non censurare questa insicurezza, anzi è diventata un nucleo essenziale: scrivendo quasi rispondevo all’imperativo “trattenere!”. Non a caso questo libro è giunto dopo la mia paternità: ho avvertito picchi di fragilità (e quindi di responsabilità) prima mai sfiorati. Ad ogni modo non credo che i testi siano nati per rendere migliore o più adatto il soggetto guardato, qualunque esso fosse. Piuttosto direi per renderlo contemporaneo a me, a me attuale, appunto per sfiorare quella parvenza di non mancanza, o di ritrovamento, nei confronti di ciò che andavo delineando. Ho la presunzione di credere che Revisioni non sia tanto un titolo preso in prestito dai versi di T. S. Eliot, ma che possa diventare un vera e propria modalità operativa per la mia ricerca poetica. Mi piacerebbe, per dirla in breve, tra dieci, tra quindici anni, scrivere un altro libro chiamandolo poi Revisioni: chissà allora cosa riterrò opportuno tornare a rivedere, su cosa si focalizzerà la mia scrittura sollecitata da un esercizio così netto. Il libro stesso è costellato, quasi ingolfato, da citazioni, da riprese e richiami di altri poeti, di artisti, altro ancora. Dirò di più: quasi tutti i titoli della raccolta sono vere e proprie easter eggs: il Monte d’Accoddi, l’unica ziqqurat presente in Europa, si trova nel territorio di Sassari, I don’t know what it is I’m like è il titolo di uno dei primi video di Bill Viola (lo si può vedere su YouTube), QuelTaleAle è uno Youtuber, anzi diciamo meglio, un Gamer: mi fa sorridere che con quel suo nome sia quasi una sorta di mio alter ego, e che tra l’altro guardando i suoi video un po’ ci assomigliamo pure, da lontano, inquadrati da uno schermo. Lo stesso ragionamento fatto con Roberto Crippa, artista lombardo, per via di questo bisticcio col mio cognome. Testa di padre (Tre studi) è un ciclo di sculture di Giacometti, così come l’Autoritratto con Martirio di San Matteo, che si riferisce ovviamente al mio illustre conterraneo Michelangelo Merisi, o Tre studi di uomo di spalle che parla di un trittico di Francis Bacon. Potrei andare avanti praticamente per tutti i testi, tranne forse una manciata. Ho deciso però, insieme a Eleonora Rimolo, curatrice editoriale della collana di poesia Æclanum di Delta3 Edizioni, di non dichiarare tutti i riferimenti presenti appunto perché l’apparato di note sarebbe risultato eccessivo, grottesco. Ma forse anche perché quando io mi approccio alla poesia degli altri vado alla ricerca di qualunque cosa mi sembri di intravedere, seguo ogni pista. Quindi, dicevo, non solo l’arte ma tutto ciò che lo sguardo incontra e che ho scelto di trattenere. È un gesto che parte da lontano, penso dai Ready-made di Duchamp, e che ho ritrovato anche qualche tempo fa in Progetto per S. di Simone Burratti (come non citare i testi Cronologia e Stinkfist); cioè quel nutrirsi di tutti gli aspetti, dal reale al virtuale, per dargli asilo (e dignità?) sulla pagina. Una provocazione forse, ma d’altronde l’etimologia di provocare è tra le più interessanti della lingua italiana, per l’andamento e il destino che poi la parola ha avuto nei secoli. Quindi sì, c’è in me (ma non posso e non voglio renderlo un discorso generale) l’esigenza di unire, rilegare, trattenere, piuttosto che quella di separare, sperdere. Testimone è anche l’apparato di traduzioni e di studi che ho effettuato da altri poeti, in particolare da poeti italiani miei coetanei come Gaia Formenti, Luca Minola, Carla Saracino, Daniele Orso, Laura Di Corcia e Damiano Sinfonico.



Primo posto (Anche il prato)


Anche il prato è un alfabeto di lavori.

Si entra poi nel giorno nel riposo.

Rasoterra le piante concludendosi

obbediscono a un destino o deiezioni.

Capiremo con un’altra intelligenza;

climatica, vigile.


Mi auguro di esserti prossimo.

Che anche il mio tempo trascorra da seme

a seme. So che è impossibile.

Dove non mi do pace l’estate

conclude. L’erba ritorna

a essere insieme al futuro.


Questo testo, tratto da Opera in terra (Lieto Colle – Pordenonelegge, 2016) crea, già a partire dal primo verso, un parallelismo tra la terra, compresa anche la fatica di prendersene cura, e la parola, l’uso accurato della quale è altrettanto impegnativo. Emerge, inoltre, un senso di esortazione a fare, pur conoscendo l’orizzonte utopico verso cui si guarda. Questi elementi, la presenza della natura-origine e il tono esortativo per spronare a uno scavo più profondo del sé e del mondo, sono fili conduttori di tutta la raccolta, insieme, ancora una volta, a una presenza dominante della parola-immagine.

Vuoi raccontarci la genesi di questo tuo lavoro e spiegarci come queste tre bussole ti hanno orientato nella sua realizzazione?


Ripenso oggi a Opera in terra con nostalgia e sollievo: per la debolezza e a tratti l’ingenuità, non tanto dell’operazione e del laboratorio in sé, quanto del me di allora, anche se questa raccolta ha rappresentato il mio esordio assoluto sulla scena poetica e le devo molto. Intanto per l’eccellenza della collana che mi ha pubblicato: la Gialla di Pordenone-Legge e Lieto Colle era per me qualcosa di mitico, il suo catalogo un’attesa annuale. Ho avuto inoltre già da allora la fortuna di avere al mio fianco compagni significativi: il già citato Poletti, con cui ho il piacere di condividere anche un destino geografico, territoriale; e Carla Saracino, un’autrice tra le più importanti della sua generazione e che allora mi accolse con sensibilità. Nella vostra domanda si parla, a ragion veduta, di utopia, legata all’idea concreta del fare. Credo quest’utopia riguardasse però il mio orizzonte di partenza, non di approdo. Opera in terra ha vissuto una gestazione lunghissima (alcuni passaggi e testi risalgono addirittura al 2007); la fase di stesura definitiva ha poi coinciso con gli Anni Dieci, segnati dalla grande crisi economico-finanziaria che ha segnato fortemente la mia quotidianità, gli immediati dintorni. Mentre io evadevo (o meglio, temporeggiavo) dalla cronaca, frequentando Brera e andando addirittura fuori corso (lo ammetto, i miei vent’anni sono stati abbastanza movimentati), e di conseguenza avvertendo un distacco netto dalla realtà storica che si andava delineando, nel frattempo conoscenti e parenti venivano sommersi da quella stessa cronaca che aveva risparmiato me, scartandomi. Il mio unico impiego erano la scrittura e l’arte, due fatiche inservibili, sterili, se osservate da un’ottica produttiva, panorama di senso che aveva investito all’epoca la quasi totalità delle narrazioni. È perciò (ora posso ammetterlo) una raccolta gravida di senso di colpa latente, in cui ho tentato un dialogo con fantasmi. Per esempio, il testo da voi riportato è dedicato alla mia nonna paterna, all’epoca novantenne, che rappresentava in qualche modo il totem di un passato archetipico italiano (il fascismo e la guerra, il boom economico, Caravaggio, e poi la fine di tutto ciò, la stasi e l’attesa della fine stessa). Opera in terra è stata anche un tentativo di chiudere il cerchio con la mia area di provenienza, questa provincia bergamasca industriosa e netta, concreta; molti testi riportano nomi di luoghi, topografie reali, nel solco di una certa tradizione lombarda avvertibile anche in altri poeti bergamaschi (penso a Stefano Pini, a Marco Pelliccioli, ad Agostino Cornali). Volevo scrivere un libro come si attraversa un territorio: partendo da prati, da campi e periferie, entrando poi in sobborghi abitati da presenze vegetali, umane e animali, per raggiungere un nucleo centrale (un centro storico? un centro sentimentale?) e riprendendo infine la via principale per evadere da questo paesaggio letterario. Una raccolta ciclica, o addirittura palindroma, come si può intuire dai titoli delle sezioni e dei testi stessi.


Vorrei spostare la conversazione sul discorso relativo a poesia e Rete, di cui Alma è attenta a raccogliere testimonianze. Sappiamo che il dibattito attuale si muove passando da una posizione all’altra, riassumibili in “la Rete sta rovinando la poesia” oppure “la Rete salverà la poesia”. In questa dicotomia, semplificatrice e banalizzante di un fenomeno ben più complesso, si intravede, però, una realtà indiscutibile e cioè che i nuovi linguaggi della Rete hanno avuto un impatto rilevante su quelli poetici, in termini di comunicazione, diffusione e, forse, anche su forme e contenuti.

Partendo anche dai tuoi testi, contenuti nel volume di studio Distanze obliterate. Generazioni di poesie sulla Rete (Puntoacapo Editrice, 2021), qual è la tua posizione a riguardo? Come vedi il futuro della poesia in relazione alle sue interconnessioni con il Web?


Come ho già avuto modo di dire durante alcune presentazioni di Distanze Obliterate, personalmente sono attratto dal rapporto che la parola può e deve intavolare con ulteriori possibilità di forma e senso. Non possiamo eludere la Rete, che nutre e si nutre della nostra quotidianità. Così ho provato ad accogliere alcune suggestioni, squarci che ho ritenuto affascinanti, una su tutte la tridimensionalità della parola calata in un contesto ipertestuale, una parola che collega, linka ad altre, ad altri palcoscenici di senso. Così ho tentato un’affannosa e appannata mimesi sulla superficie bidimensionale della carta stampata, dove la profondità dell’ipertesto rimane sempre potenziale, e attua così un depistaggio sul senso della poesia stessa. Ho lavorato soprattutto a partire da questo, creando dei veri e propri mostri di Frankenstein, testi inservibili, spesso illeggibili in pubblico, autosabotandomi. In senso generale non vedo una dicotomia, anche se l’iperbole delle due posizioni che avete riportato è quanto mai attuale: trovo la Rete sia contenitore, certo; che contemporaneamente informa il proprio contenuto, stabilisce e determina un’esperienza, è una cornice attiva, fondamentale, da cui non possiamo né tantomeno dobbiamo evadere, ma affrontare con senso critico, anche in seno alla poesia.


Siamo nel 2022, eppure il dibattito intorno alla questione del gender in poesia sembra non essersi ancora esaurito: da una parte ci si continua a chiedere se, in effetti, la poesia possa averne uno o se, in quanto arte, prescinda da qualsiasi suddivisione a riguardo; dall’altra l’inevitabile constatazione della prevalenza di poeti uomini nelle antologie scolastiche e pure nel panorama poetico contemporaneo.

Alla luce della preponderanza che il tema del femminile sta assumendo nel dibattito odierno tout-court, come inquadri l’argomento e qual è la tua opinione a riguardo? Soprattutto, prevedi un’evoluzione verso altre traiettorie per un futuro prossimo?


Insegnando Storia dell’Arte, avverto la questione di genere premere da più fronti: c’è un gap, una voragine, evidente in tutto l’excursus delle arti figurative occidentali, non solo nella letteratura; basti sfogliare un libro di testo liceale della mia materia. È doverosa una netta presa di posizione al riguardo; ma non è di certo l’unica di cui secondo me il nostro tempo deve farsi carico. Per restare in tema letteratura, c’è un’intervista online di Vanni Santoni, tenuta dal bravo Marco Cantoni sul suo canale YouTube (https://www.youtube.com/watch?v=Lfilr3__EcI), in cui Santoni dice qualcosa di semplicissimo e cristallino: “[…] improvvisamente il mondo si è accorto che esistono anche cose belle scritte non necessariamente da uomini bianchi eterosessuali over 50, improvvisamente ci siamo accorti che anche Paesi esotici hanno delle letterature importanti, quindi è esplosa completamente la possibilità di ciò che si deve leggere…”. Ecco, questo lampo è una fotografia memorabile del presente e di conseguenza in grado di suggerire una traiettoria, o ombra, gettata sul futuro secondo me non solo della poesia o in generale della letteratura. Sulle modalità poi di come la prospettiva di questo dibattito che affonda le radici nel passato, sia resa “consumabile” dal capitalismo, e con quale intensità ci raggiunga, trovo estremamente puntuale l’intervento di Stefano Bottero, sollecitato in questa rubrica a partire dalla stessa domanda qualche tempo fa.


Ti chiedo di scegliere da Revisioni tre testi e di riportarli qui per le lettrici e i lettori di Alma.


Kaufman Sugar Plum Metallic Scenic Striped Periwinkle


Scrivi pervinca per dire stasera

cinque disegni di luce gli aerei

passano, vanno. Un’aria, un refolo,

un senso di loro il clima lo spinge dagli alberi

nell’atrio. Guardi, esiti.


Scrivi che esiste


solo per il cielo che sfinisce

dai vetri lo sguardo di buio,

per le complessità

del gelo che sfacciano l’asfalto,

scrivi e anche questo è pensiero

di un grigio micaceo, di un ferro,

per costruire l’estate nell’inverno

una volta di nuovo per dire

di questo cemento, di ghiere

severe sul fondo. Scrivi.


Il silenzio involge e consola. Dividi

l’idea dalla cosa. Spingila fuori, allontanala

dalle tue immagini, dalla memoria.


Scrivi pervinca, gli aerei, le ronde

per strada. Scrivine. Liberale


*


rito / ritratto


Osservi l’incavo minuto

di plastica rosa, le fauci della tigre Made in China

da cui tuo figlio inscena la pantomima di un verso. Quasi aspettandotelo. Pensi alla parola rito: suona simile a ritratto, ma scarta nella mente, la spalanca. Aggiunge tempo, lo innesta in uno spazio; pretende vocazione. Richiama a sé il resto dei pronomi. Richiede la stessa precisa esecuzione con cui anche tu, come tuo figlio,

a volte tenti il tuo verso.


*


Autoritratto


Ciò che vedi è tempo


— ogni notte appare in sogno, ha il tuo volto e guarda te

avanzare, prende decisioni nella luce fioca, nell’asperità


fra il corpo e il tavolo; lì, sempre di più, la camera,

lo studio, avanti e indietro, come un animale.


Ciò che crei è forma


— ogni volta aggiorna la tua storia, è domestica e selvaggia,

una sorta di preghiera, o implorazione, tra te e te.


Puoi accostarti al fiume delle immagini, dove ogni parola

credi prenda nutrimento, e pensare di esserti salvato.

Pensarlo senza più compiacimento


Alessandro Grippa (1988), vive a Caravaggio e lavora come docente. È presente nell’antologia Zenit Poesia, a cura di Stefano Guglielmin e Maurizio Mattiuzza (Milano, La Vita Felice, 2015), nell’antologia italo-messicana Lombardia. El despertar de la rosa (Edizioni Circo Literario, 2019) e nell’antologia Distanze Obliterate (a cura di Alma Poesia, Puntoacapo Editrice, 2021). Ha pubblicato le raccolte di poesia Opera in terra (LietoColle-Pordenonelegge, 2016 – Premio Europa in versi 2017, Sezione Giovani) e Revisioni (Delta 3 Edizioni, 2021). Sue poesie sono apparse su riviste e blog; e tradotte in inglese, francese, tedesco, spagnolo.

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