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Immagine del redattoreMartina Toppi

Le Antichità di Alma (appuntamento n°9)

I viaggi certo finiscono, sta proprio nella loro essenza: sono movimenti orientati verso una meta. Eppure, la meta di questo viaggio tra i viaggi dei poeti classici che le Antichità di Alma hanno intrapreso di ritorno da un viaggio vero, in Grecia, è sempre sembrata finora nebbiosa. Dove si va? Qualcuno direbbe che non vale nemmeno la pena partire, soprattutto con una serie di appuntamenti incentrati sulla letteratura classica, se non si sa dove si vuole arrivare. Eppure, in questo viaggio tra i viaggi degli antichi - e dei contemporanei che rileggono l’antico – le mete toccate sono state diverse e sempre si è avuto motivo di riprendere la rotta. Ora però sembra che la spiaggia toccata sia proprio l’ultima. Il viaggio tra i viaggi degli antichi, insomma, è finito, ma dove? E perché?

 

Più facile rispondere alla seconda domanda che alla prima: perché qualcosa da questi poeti e personaggi in viaggio mi sembra di averla appresa e spero anche di essere riuscita a trasmetterla a chi legge. Mi sembra di aver capito che la felicità, per come la intendevano gli antichi, è proprio questo: un movimento continuo che si deve aggiustare ad ogni secondo su nuovi spigoli. Non la corsa affannata di oggi agli obiettivi, alle conferme altrui, bensì il posarsi della prua di una nave sul mare in burrasca, capace di adattarsi alla forma delle onde: un movimento confuso, sempre dall’esito incerto, ma davvero sulla cresta dell’onda.

E quindi veniamo al dove. Il viaggio di questa seconda edizione delle antichità di Alma finisce in un piccolo podere, duemilacinquant’anni fa, in una regione che allora era chiamata Sabina, a Licenza, non lontano da Tivoli. Sotto i rami ombrosi di qualche albero al limitare di una casa di campagna ci aspetta un uomo col sorriso che gli incurva le labbra, anche se solo a metà. Il critico letterario francese Saint-Beuve diceva di essere convinto che non «ci siano stati mai scrittori più felici di Orazio». Lo diceva con sicurezza per averlo letto e forse un po’ idealizzato.

 

Ci introduciamo nella sua pacifica villetta illuminata dai colori di questa campagna del centro Italia, sulle orme dei quattro libri delle Odi, grazie a un’edizione a cura di Marvi del Pozzo (La vita felice, 2022).

Un poeta felice dunque, che stranezza. Impossibile non pensarlo mentre si bussa alla sua porta e si attende una risposta. A spiegarci in che senso da questa felicità si possa apprendere concretamente qualcosa è la curatrice della guida con cui ci addentriamo in questa vita lontana: «Orazio mi pare particolarmente attuale perché coglie al di là dei problemi esistenziali validi sempre, idealità e meschinità, coglie l’ambizione dei mediocri, la pavidità popolare, l’adulazione al potere per ottenere i favori. Troviamo gli “snob”, i “parvenu”, i “voltagabbana”, le “mezze figure”, cui potremmo dare nomi e cognomi attuali. Viviamo infatti in un periodo di passaggio come allora, ugualmente fluido, in cui le sicurezze cedono il passo tutti i giorni a orientamenti contrastanti se non proprio contrari ai valori delle settimane precedenti».


Marvi Del Pozzo, Alma Poesia, La Vita Felice, Copertina

 

Non un inizio incoraggiante, va detto: Orazio sembra più un asceta, anzi, peggio, un altezzoso figlio di papà che si è potuto comprare la casa in campagna per sfuggire ai mali della società, che pure esistono e non possono essere negati. Uno di quei privilegiati che alla fin fine sono felici per omissioni, per non aver vissuto davvero quanto ad altri tocca vivere. Solo che le cose non stanno proprio così. Anche Orazio aveva paura di qualcosa, portava dentro di sé ferite rimarginate ma pronte a bruciare al primo mutamento del clima, come cicatrici di vecchie operazioni chirurgiche. Il terrore delle guerre civili, per esempio, che, in giovane età e attratto dagli ideali repubblicani e libertari, aveva combattuto nell’esercito di Bruto per poi diventare tribunus militum e quindi avere la responsabilità di comandare un’intera legione.  Quelle terribili battaglie e in particolare la disfatta di Filippi, che vide coi propri occhi, gli sono rimaste sulla pelle e nel cuore e riemergono all’improvviso all’interno delle Odi, già a partire dalla prima del primo libro: «La gioventù ormai decimata / saprà che i concittadini hanno affilato il ferro / con cui meglio si sarebbero uccisi i Persiani, / saprà delle guerre fratricide».

 

Il nostro ospite ci fa quindi entrare nella dimora silenziosa, mentre la guida ci racconta le sue vicissitudini da soldato. L’idea che si aveva di lui prima inizia già un po’ a sfumare: sarà anche un altezzoso, ma di certo della vita ha assaggiato anche la fatica. Sono proprio le Odi a fare luce su questo aspetto: un diario di bordo di ogni evento che il poeta ha ritenuto degno di essere trasformato in poesia. Ci sono quelle un po’ più narrative e drammatiche, certo, ma nelle Odi Orazio riversa tutto. Per esempio, l’ira che lo coglie in I,25 al pensiero della donna di cui è innamorato che si trastulla con altri amanti e alla quale augura la più temibile delle vendette: una vecchiaia di bruttezza e solitudine («Quando tu, Lidia, lodi / il roseo collo di Telefo, le sue braccia / bianche come c’era, ahimè, il mio fegato / ribolle e si gonfia d’amara bile. / Allora vado fuori di testa né mi resta / il colorito solito, furtiva mi scorre una lacrima / sulle guance che fa fede di quanto dentro / io mi strugga a fuoco lento»). Per del Pozzo in questi versi il poeta dà voce a «crisi violente, psicofisiche, di gelosia». Altro che il poeta più felice che sia mai esistito! Sembra che nemmeno Orazio sia sfuggito ai mali del suo tempo o a quelli più universali del nostro essere umani. Ma non finisce qui.

Alfonso Traina, nell’introduzione all’edizione delle Odi di Rizzoli Bur, scrive che Orazio era un uomo ansioso, forse gli antichi avrebbero detto melancholicus, «oggi diremmo noi nevrotico». Era vittima, come dichiara egli stesso, di una strenua inertia, ovvero un torpore smanioso dettato dal profondo desiderio di cambiare, di migliorare sempre, ma anche dall’acuta sicurezza di non avere sempre le forze per farlo. Sapeva di essere così perché, proprio grazie alla poesia, aveva avuto modo di osservarsi a lungo e, al di là dei precetti filosofici con cui cercava di orientare la propria vita (precetti di matrice perlopiù epicurea con tracce stoiche, com’era comune tra gli intellettuali dell’epoca) si trovava spesso in balia di sentimenti negativi. Li riversava nelle Odi, dove dava voce a queste frustrazioni tramite la poesia ma a lei affidava un compito ancora più elevato e necessario: la cura.

 

«Si sente portato tematicamente ad argomenti di natura più riflessiva e intima: la poesia delle piccole, grandi cose della vita, la gioia dei simposi, dell’amicizia sincera, degli amori leggeri che siano poco impegnativi e minimamente tormentosi, ama una natura fatta di sorgenti, di boschetti, di canti, di divinità modeste con Pan e la sua zampogna, con cori e canti di Satiri e Ninfe» spiega del Pozzo nell’introduzione a questa edizione delle Odi, che tanta attenzione pone ai versi, alla metrica, a una lettura ad alta voce che sappia restituire la bellezza equilibrata che Orazio sapeva cercare nella scrittura, quando nella vita scarseggiava. Aveva tradotto prima in vita e poi in versi gli insegnamenti filosofici della scuola epicurea, che prescriveva di «saper vivere di poco, privi di apprensione verso i bisogni della vita», sempre in cerca di quella felicità per la quale – e lo sosteneva sempre Epicuro - «non si è mai troppo giovani o troppo vecchi».

«È duro, lo so, ma si fa più lieve con la rassegnazione / tutto ciò che non è lecito all’uomo rettificare» consiglia Orazio all’amico Virgilio in I,24, sofferente per la morte di una persona cara. Lo scrive come a dire che non ci è dato modificare le cose che non dipendono da noi, ma che è meglio accettarle con un fatalismo ragionevole, mai prono o passivo, l’unico che può portare a vivere una vita piena e responsabile.

 

Ed è proprio questa la cura che la poesia opera su Orazio e di riflesso anche su chi legge Orazio: in quel diario di bordo della vita che sono le Odi, il poeta fissa i momenti più rapidi e passeggeri, eppure più densi di significato. La vita serena è il suo fine ultimo e i momenti in cui la si sperimenta devono essere trasformati in inni alla gioia, proprio come indica il famoso carpe diem. Un detto su cui sono stati spesi fiumi di parole e che del Pozzo riassume così: «voglio far notare che il verbo carpere, nella sua prima e più precisa accezione, è “strappare con le unghie o con i denti”: quindi vuol dire “mordere, consumare con violenta passione”». La felicità di Orazio di fronte a un buon vino e a un banchetto senza pretese in compagnia degli amici di sempre è esuberante, così come la gioia che prova nel condurre una vita tranquilla nel podere di campagna, celebrata senza retorica, in una normalità ritrovata dopo averla a lungo agognata nei tempi di povertà e di guerra. Lascia a bocca aperta la saggezza di quest’uomo che solo una mezz’ora fa ci sembrava un nobile romano con cui non si ha ormai più nulla da spartire. Mentre i raggi del sole calano dietro le colline di Licenza, riempie i calici, ci fa sentire accolti nella sua dimora e nella sua poesia. Intanto, però, dispensa anche consigli. Gli stessi rivolti a sé stesso in tempi difficili e agli amici che a lui hanno fatto riferimento quando il destino sembrava troppo pesante: «Cosa porterà il domani non lo chiedere / qualunque sia il giorno che la sorte ti darà / prendilo come un guadagno, non disprezzare i dolci amori / ragazzo, e neppure le danze, per tutto il tempo che / da te è ben lontana la noiosa canizie» (I,9).

 

Gli amici, ecco l’altro polo fondamentale di questa opera e della vita di Orazio: una vita senza amici non può davvero essere una vita felice. Anzi, Epicuro diceva proprio così: «Di tutti i beni che la saggezza ci porge, il più prezioso è l’amicizia». Orazio ama molto le passeggiate solitarie tra i boschi e la meditazione, ma il simposio – momento emblematico della convivialità – è altrettanto sacro per lui. Il suo convito, preparato con cura e attenzione, ma sempre con parsimonia, come si conviene alla vita del saggio, è un «trionfo di gioventù, bellezza e amori» nelle parole di del Pozzo. Nel predisporlo Orazio chiede agli amici e in particolare a Mecenate, l’amico più caro, di non considerarlo un banchetto troppo umile, bensì di accettarlo per com’è proprio come accettano lui, il poeta povero che ha riconquistato la serenità grazie alla semplicità di una vita parca. Lo fa con battute ironiche e il sorriso sghembo di chi sa il fatto suo e sa quindi di poter contare sulla benevolenza dell’amico che legge.

 

Così, anche noi, leggendo le Odi, scorgiamo finalmente il vero Orazio: un uomo che ha attraversato la vita armato di poesia, trascrivendo di ogni giorno fatiche e conquiste, in quella strenua ricerca di una felicità vicina ma impegnativa da mantenere. Un uomo dal sorriso a metà, proprio come quando ci ha accolto nel suo podere. Il sorriso di chi ha conosciuto eccome la sofferenza e per tutta la vita non ha fatto altro che combatterla con la semplicità degli attimi che fuggono, di un’esistenza costruita sulla parsimonia, l’amicizia sincera, l’affetto. Tante cose ci sarebbero da dire ancora su di lui (sul metro preciso con cui i suoi versi sono costruiti, sull’impegno civile della sua poesia in un mondo che cambia repentinamente, sul legame con il potere e le riflessioni sulla morte e il tempo che scorre), tante quelle che ci racconta mentre si avvicina il crepuscolo alle terre della Sabina. Tante le ha poi scritte fedelmente Marvi del Pozzo in quest’edizione che accompagna il lettore in un viaggio all’interno del diario di bordo, o meglio, del diario di vita in poesia di un uomo che, non sempre, ma per certi attimi davvero è stato felice. E che forse può insegnarci a indossare quel sorriso disarmante e disarmato con cui affrontare la vita, fino all’ultimo giorno.

 

Vivrai meglio, Licinio, non sfidando

sempre il mare aperto né, mentre guardingo

temi le tempeste, avvicinandoti eccessivamente

alla costa pericolosa.

 

Chiunque ami la dorata via di mezzo

evita prudente la bassezza di un misero tugurio

evita, da saggio, una dimora regia

oggetto necessariamente di invidia.

 

Un pino svettante più spesso è scosso dai venti,

crollano le torri elevate con rovina maggiore

e con più alta frequenza i fulmini colpiscono

la sommità delle vette.

 

Un animo ben disposto nutre speranze

nelle avversità, teme, nelle circostanze favorevoli,

l’una e l’altra sorte. Giove porta

inverni orribili ma è anche lui

 

che li spazza via. Se oggi va male

non sarà sempre così: talora con la cetra

Apollo risveglia la Musa silente

né sempre ha l’arco teso.

 

Nelle angustie mostrati coraggioso

e forte e con uguale saggezza

raccogli le vele gonfie

se un vento è troppo favorevole.

 

 

«Temerario nell’affrontare ogni rischio / si avventa il genere umano in tutto ciò che è sacrilego. / L’audace figlio di Giapeto / con frode funesta portò il fuoco all’umanità»

«La livida morte batte con imparzialità ai tuguri dei poveri / e ai palazzi dei re»

 

«Cosa porterà il domani non lo chiedere / qualunque sia il giorno che la sorte ti darà / prendilo come un guadagno, non disprezzare i dolci amori / ragazzo, e neppure le danze, per tutto il tempo che / da te è ben lontana la noiosa canizie»

«Come / è meglio accettare quel che sarà! […] Mentre / stiamo parlando, già sarà fuggito / il tempo invidioso: cogli l’attimo / il meno possibile confidando nel domani»

«Berrai in modeste coppe / del semplice vino sabino che io stesso / ho riposto e suggellato in anfora greca» 20

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