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Immagine del redattoreAlessandra Corbetta

La poesia dimenticata di Eros Alesi

Eros Alesi è stato un poeta giovanissimo, morto suicida a soli vent’anni, il 31 gennaio 1971.

A portarmi a scrivere di questo ragazzo, oltre alla coincidente vicinanza anagrafica e alla sua storia, è stata anche e soprattutto la consapevolezza di quanto il suo valore poetico fosse ancora da scoprire e da analizzare degnamente. Alesi è a oggi un poeta quasi dimenticato.

La presenza dei suoi versi la dobbiamo a Remo Marcone. Remo ed Eros si conoscono nella comune di Piazza Bologna dove quest’ultimo arriverà (in seguito al suo periodo milanese e al suo successivo viaggio in India) per disintossicarsi dalla morfina. Sarà proprio a Marcone che Alesi affiderà i suoi testi pochi giorni prima di morire. A comprendere il valore di Alesi saranno in pochi: Giuseppe Pontiggia, che nel 1973 raccoglierà e pubblicherà alcune poesie del giovane nell’importante rivista Mondadori «L’almanacco dello specchio n°2», Alfonso Berardinelli, che nel 1975 lo inserirà nell’antologia Il pubblico della poesia, e Antonio Porta, che quattro anni dopo lo inserirà nella celebre antologia Poeti degli anni Settanta.

La storia di Eros Alesi è una storia di disamore, di sofferenza, di violenza, di strada, di droga. Ma anche di poesia e desiderio di vita. Ed è proprio nei suoi versi che dobbiamo tuffarci per avvicinarci all’animo, alla storia e alla sensibilità di questo ragazzo.

La poesia di Alesi è prima di tutto memoria. La memoria è infatti il segno dell’uomo; dove vi sono identità, relazioni, dolore, vi è memoria. Potremmo dire che non si dia vita umana per come la conosciamo senza il collante che per questa la memoria rappresenta. Ma la memoria di Alesi è raccontata attraverso il grido disperato del proprio riconoscimento in due amori separati da un’incolmabile distanza: quello per il padre, mai ricambiato, e quello per la morfina. Nonostante la figura paterna abbia rappresentato per il ragazzo l’incarnazione di un’incontrollabile violenza sin dalla tenera età, nella lettera al padre il giovane scrive: «Tu che sei amato da tuo figlio / Tu che solo eri in lui». Il dolore di Alesi ci colpisce come il grido d’amore verso un padre che mai è stato in grado di darsi al frutto del proprio seme. Ogni poesia nasce da un’esigenza, e l’incolmabile lacerazione del ragazzo viene fuori da ogni parola, anche dalla più inaspettata, dolce, dolorosa «Che avevo 10-11 anni quando ti vedevo violento, assente, cattivo, che ti vedevo come l'orco che ti giudicavo un Bastardo perché picchiavi la mia mamma» e ancora «che avevo 15 anni e mezzo, quando vedevo che tu vedevi i litri di vino e le bottiglie di cognac aumentare spaventosamente». Queste sono l’infanzia e l’adolescenza di Alesi: la violenza fisica di un padre perennemente ebbro e la mancanza di una figura materna capace di reagire per proteggerlo. Nonostante la violenza e l’indifferenza del padre, però, Alesi sembra cogliere la sua miseria e farla propria: se da un lato non ne può comprendere le ragioni, dall’altro ne coglie le profondissime cadute «che ho visto che tu hai visto i tuoi occhi lacrimare solitudine incrostata di sangue masochista» e ancora «che ho visto che tu hai visto il desiderio di voler punire la tua vita». Il giovane poeta legge l’animo del padre con una sensibilità disarmante: siamo di fronte a uno dei pochissimi casi in cui la distanza tra carnefice e vittima è breve, breve come quella tra un padre morto e un figlio ancora innamorato. E questo perché Alesi non vede nel padre un carnefice, ma coglie il punto di miseria delle sue azioni: non è un disperato gioco di pietà a muovere l’animo del ragazzo, ma qualcosa di più alto: l’amore di un figlio che resiste alla lacerazione della morte di un padre, e che sente nel profondo del cuore rabbia ma anche compassione verso lo stesso uomo dal quale ha subito quotidianamente violenze e vessazioni. Una condizione, quella del padre, che Alesi fa completamente sua negli ultimi versi della lettera «che tu vedi che io vedo solo grande grandissimo nero / lo stesso nero che io vedevo che tu vedevi / che ora continuerai a vedere ciò che io vedo» rivendicando, da figlio, un patrimonio emozionale plasmato dalla stessa figura che, in quei ricordi così lucidamente raccontati, lo stava tradendo. Alesi sembra volergli gridare: per quanto tu non mi abbia amato come dovevi, io ho sentito e sento la tua sofferenza, la vedo, nell’esatto modo in cui la vedevi tu, perché è anche la mia, la nostra, io sono tuo, tu sei mio, siamo, siamo sempre stati, anche quando ad essere erano alcol e botte. Quando il giovane ci parla della figura materna, invece, non ci parla della madre; o meglio, non di una madre in carne ed ossa. Per Alesi l’unica dolce madre è la morfina, da lui chiamata «Cara, dolce, buona, umana, sociale mamma morfina». La vita del giovane si plasma anche e soprattutto attraverso la droga e il percorso che questa traccia nella sua vita. Il poeta infatti si sente amato pienamente dalla morfina «Mi hai amato tutto. Io sono frutto del tuo sangue»: la droga come esperienza totalizzante, come creatrice di una nuova realtà sociale che permette al giovane di eludere le violenze domestiche, ma soprattutto di scoprire la vita, un nuovo linguaggio, nuovi tipi di dolore e di amore. Alesi a sedici anni scapperà a Milano dove raggiungerà la sede milanese del mondo Beat. Diventerà uno dei più conosciuti e attivi ragazzi di quella realtà sociale e culturale, finendo numerose volte al carcere minorile Cesare Beccaria, entrando e uscendo come normalmente si dovrebbe fare da una porta di casa; dormendo in quelle baracche insieme a centinaia di altri ragazzi, spesso scappati di casa, come lui. Quando queste verranno sgomberate dalla polizia milanese, il ragazzo inizierà un viaggio verso l’India (passando per la Grecia, per la Turchia e per l’Afghanistan) in seguito al quale si toglierà la vita nel cuore della sua città natale.

Ma la morte, per Alesi, non è considerata come mero annichilimento; a lei non vengono attribuiti ruoli familiari, ma la sensazione è sempre la stessa: in qualche modo anche la morte, proprio come la droga, prende il posto del palmo genitoriale nel curare la lacerazione della vita. Ricorre, anche in questa poesia, la double face dei suoi soggetti poetico-anagrafici: dopo quella del padre, violento durante la sua adolescenza e poi descritto come quasi pentito negli anni del suo soggiorno a Milano; della madre intossicante ma presente come esperienza totalizzante di un amore venefico; di una comune che da un lato lo aiuta ad evolvere, ma che dall’altro viene abbandonata «con la bocca amara»; troviamo quella di una morte paurosa ma necessaria.

In fondo, quello che ricaviamo dai versi di Alesi è pura e umanissima vita. È l’esigenza d’amore di un giovane che mai è stato realmente amato, abituato dalla vita a personalità duplici, violente, assenti. L’inaccettabilità del mondo è quindi per Alesi un topos esistenziale chiaro ed essenziale: dai dolorosi versi del giovane emerge tutta la disperazione di un animo irrequieto, addolorato, solo, dotato di una sensibilità fuori dal comune; con l’unica compagnia di una sostanza che dovrebbe riprodurre, o quantomeno colmare, l’affetto genitoriale mai ricevuto.

Il gesto estremo compiuto dal ragazzo potrebbe portarci sulla falsa strada del nichilismo, ma dalla poesia di Alesi, molto più del nulla ci resta l’amore; l’infinità di un recinto emozionale figlio di un mondo violento e difficile. Ci resta anche e soprattutto l’interrogativo di un ragazzo che non ha avuto tempo né soprattutto modo di dare risoluzione alla propria esistenza.

La domanda di Alesi è una domanda che potrebbe accomunare, in modi diversi, ogni essere umano, come segno che la sua poesia, per quanto anagrafica e personale, sia in realtà spaventosamente universale ed eminentemente umana: «Dopo quanto sangue coagulato dovrò cadere nella macchina distruggo-creativa

dell'universo?»

Eros Alesi

Caro Papà.

Tu che ora sei nei pascoli celesti, nei pascoli terreni, nei pascoli marini.

Tu che sei tra i pascoli umani. Tu che vibri nell’aria. Tu che ancora ami tuo figlio Alesi Eros.

Tu che hai pianto per tuo figlio. Tu che segui la sua vita con le tue vibrazioni passate e presenti.

Tu che sei amato da tuo figlio . Tu che solo eri in lui. Tu che sei chiamato morto, cenere, mondezza.

Tu che per me sei la mia ombra protettrice.

Tu che in questo momento amo e sento vicino più di ogni cosa.

Tu che sei e sarai la fotocopia della mia vita.

Che avevo 6-7 anni quando ti vedevo Bello – forte – orgoglioso – sicuro – spavaldo rispettato e temuto dagli altri, che avevo 10-11 anni quando ti vedevo violento, assente, cattivo, che ti vedevo come l’orco che ti giudicavo un Bastardo perché picchiavi la mia mamma.

Che avevo 13-14 anni quando ti vedevo che vedevi di perdere il tuo ruolo.

Che vedevo che tu vedevi il sorgere del mio nuovo ruolo, del nuovo ruolo di mia madre.

Che avevo 15 anni e mezzo, quando vedevo che tu vedevi i litri di vino e le bottiglie di cognac aumentare spaventosamente.

Che vedevo che tu vedevi che i tuoi sguardi non erano più belli, forti, orgogliosi, fieri, rispettati e temuti dagli altri.

Che vedevo che tu vedevi mia madre allontanarsi. Che vedevo che tu vedevi l’inizio di un normale drammatico sfacelo.

Che vedevo che tu vedevi i litri di vino e le bottiglie di cognac aumentare fortemente.

Che avevo 15 anni e mezzo che vedevo che tu vedevi che io scappavo di casa, che mia madre scappava di casa.

Che tu hai voluto fare il Duro.

Che non hai trattenuto nessuno.

Che sei rimasto solo in una casa di due stanze più servizi.

Che i litri di vino e le bottiglie di cognac continuavano ad aumentare.

Che un giorno. Che il giorno. In cui sei venuto a prendermi dalle camere di sicurezza di Milano ho visto che tu ti vedevi solo. Che tu volevi o tua moglie o tuo figlio o tutti e due in quella casa da due stanze più servizi. Che ho visto che tu hai visto che eri

disposto a tutto pur di riavere questo.

Che ho visto che tu hai visto la tua mano stesa in segno di pace, di armistizio.

Che ho visto che tu hai visto sulla tua mano uno sputo.

Che ho visto che tu hai visto i tuoi occhi lacrimare solitudine incrostata di sangue masochista, punitivo.

Che ho visto. Che tu hai visto il desiderio di voler punire la tua vita.

Che ho visto che tu hai visto il desiderio di non soffrire. Che ho visto che tu hai visto i litri di vino e le bottiglie di cognac

continuare ad aumentare.

Che ho visto che hai visto in quel periodo la tua futura vita.

Che ho saputo che hai saputo che tuo figlio era un tossicomane che tua moglie attendeva un figlio da un altro uomo (figlio che

a te non ha voluto dare).

Che ho visto che hai visto 3 anni passare. Che ho visto che hai visto che il giorno 9-XII-69 non sei venuto a trovarmi al

manicomio. Perché eri morto.

Che ora tu vedi che io vedo. Che ora il 1° sei tu che giochi questo tresette col morto facendo il morto.

Ma che giochi ugualmente, che ora vedi che io vedo che ti adoro che ti amo dal profondo dell’essere.

Che ora vedi che io vedo che mia madre rimpiange. ALESI FELICE PADRE DI ALESI EROS

Che vedi che io vedo che sono fuggito ancora una volta verso la solitudine.

Che tu vedi che io vedo solo grande grandissimo nero lo stesso nero che io vedevo che tu vedevi.

Che ora continuerai a vedere ciò che io vedo.


*


Cara, dolce

Cara, dolce, buona, umana, sociale mamma morfina. Che tu solo tu dolcissima mamma morfina mi hai voluto bene come volevo. Mi hai amato tutto. Io sono frutto del tuo sangue. Che tu solo tu sei riuscita a farmi sentire sicuro. Che tu sei riuscita a darmi il quantitativo di felicità indispensabile per sopravvivere. Che tu mi hai dato una casa, un hotel, un ponte, un

treno, un portone, io li ho accettati, che tu mi hai dato tutto l’universo amico.

Che tu mi hai dato un ruolo sociale, che richiede e che dà. Che io a 15 anni ho accettato di vivere come essere umano “uomo” solo perché c’eri tu, che ti sei offerta a ricrearmi una seconda volta. Che tu mi hai insegnato a muovere i primi passi. Che ho imparato a dire le

prime parole. Che ho provato le prime sofferenze della nuova vita.

Che ho provato i primi piaceri della nuova vita. Che ho imparato a vivere come ho sempre sognato di vivere. Che ho imparato a vivere sotto le innumerevoli cure, attenzioni di mamma morfina. Che non potrò mai rinnegare il mio passato con mamma morfina. Che mi ha dato tanto. Che mi ha salvato da un suicidio o una pazzia che avevano quasi del tutto

distrutto il mio salvagente.

Che oggi 22-XII-1970 posso strillare ancora a me, agli altri, a tutto ciò che è forza nobile, che niente e nessuno mi ha dato quanto la mia benefattrice, adottatrice, mamma morfina. Che tu sei infinito amore infinita bontà. Che io ti lascerò soltanto quando sarò maturo per l’amica morte o quando sarò tanto sicuro delle mie forze per riuscire a stare in piedi senza le

potenti vitamine di mamma morfina.


*


O cara. O padrona morte. O serenissima morte. O invocata morte. O paurosa morte. O indecifrabile morte. O strana morte. O viva la morte. O morte che è morte. Morte che mette

un punto a questa saetta vibrante.

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