«La cosa uguale già cambiata»: recensione a “Le cose imperfette” di Gianni Montieri
Ci sono quelli che quando si presentano ci guardano dritti negli occhi e ci stringono con decisione la mano, come a volerci dire inequivocabilmente chi sono; e poi ci sono quelli che, con l’aria un po’ assente, durante la stretta guardano altrove, partecipano con distrazione al momento. Ecco: Le cose imperfette (LiberAria Editrice 2019) di Gianni Montieri sembrerebbero rientrare nella seconda categoria, se volessimo paragonare un primo incontro a un titolo, ma in realtà il gruppo di appartenenza è l’altro.
Montieri sceglie, infatti, per chiamare la sua raccolta il sostantivo più generico di tutti, “cosa”, e lo utilizza per di più al plurale, attribuendogli, tra tutti gli aggettivi possibili, “imperfette”. Le cose imperfette, appunto. Come a dire questo ma volendo anche quello, o l’altro e l’altro ancora, preso nella sua non specificità e nella sua distanza dal compimento.
Ma non chiamiamo cosa ciò che non riusciamo a dire altrimenti? Non sono cosa i nostri più cari oggetti, i nostri interessi, le nostre cose? E non è imperfetto quello che ancora ci spinge a fare, a essere, a creare, a volere andare? Non siamo noi stessi delle “cose imperfette”?
Montieri, facendoci credere di volere parlare di qualcosa di vago e lontano da una forma finita, ci porta invece a conoscere affetti stabili, luoghi certi, personaggi indimenticabili in un viaggio che è nel tempo e nell’esistenza e che, proprio in virtù della sua non premeditazione e della sua apertura all’imprevisto e al molteplice, si rivela in tutta la sua verità.
Risiede proprio qui, nel vero, la potenza di questa raccolta, perché Montieri non teme di rinvenire il senso della vita in una camicia bianca colta nel momento del suo lavaggio «Nella lavatrice girava l’unica / camicia chiara che ho: / la indosso di rado perché / è uno spreco lavarla da sola. / Mi vengono domande come: / “Cosa farà Michele Mari adesso? / mi rispondo che starà mangiando.», o nello stupore di fronte alla grandezza di un’opera come Millimetri, che ci ritroviamo poi insieme alla colazione «I cereali rovesciati nella tazza / si addensano sul fondo, base / della cena, sul tavolo Millimetri / di De Angelis che mi sgomenta: / è l’incomprensibile, e la bellezza / apre un cosmo in cui c’entrano / le lenzuola che ritiro dal balcone / il suono della ringhiera, l’attesa.».
E anche gli spazi si presentano in tutta la loro autenticità diventando, nei versi della raccolta, luoghi ai quali abbiamo concesso il privilegio di abitarci e che perdono, quindi, i loro confini e lo loro collocazione geografica per spostarsi insieme a noi ed essere ovunque noi siamo «Dicono di come la luna in Sudamerica / sia più bassa, pare la si possa toccare / qualche volta devo averla vista: / ieri sera ad Affori rimaneva sotto / l’altezza dei palazzi in costruzione / appena sopra l’esatto schieramento / dei lampioni, era mezza e gialla / stava lì, cosa a cui manca un pezzo.»
Tutte le poesie delle tre sezioni che compongono l’opera, Lettere aperte al fronte sudamericano, Le persone rimaste e Previsione di marea, pur scaturendo dall’io o dalla visione che l’io ha del mondo, ci costringono a varcare immediatamente la soglia del plurale poiché Montieri, nel mettere in versi ciò che è orgogliosamente suo, entra nel profondo di ognuno di noi e cioè nell’universale, mostrando senza mezze misure la differenza madornale tra autoreferenzialità fine a sé stessa e, dunque, finta-poesia e poesia vera, quella nella quale l’ego diventa tramite, si fa ponte. Così abbiamo nomi e cognomi di persone che, conosciute davvero o mai incontrate, sono perfettamente identificabili, e moltissimi qualcuno, presenze per le quali il pronome indefinito è sufficiente alla nomina, ma il cui passaggio permette la formulazione di un pensiero, una considerazione che altrimenti non sarebbe nata o, addirittura, la trasformazione in quel tu che tutti aspettiamo: «Qualcuno ha telefonato, eri tu.».
I versi di Montieri si presentano come una faccia da bravo ragazzo: sono puliti, misurati, colti nell’essenza e non per vanto; non c’è sfoggio artefatto di erudizione né ricerca di un linguaggio inutilmente oscuro. Le cose imperfette non hanno paura di mostrarsi per quello che sono e in questo coraggio sostanziale, nella loro sapiente calibratura, risultano dirompenti, totalmente vere: «la borsa perfetta riempita / in due minuti, alla cieca, sapendo / che dall’altra parte delle rotaie / in un cassetto tuo/ mio ci sono / due maglie, forse tre, di scorta / almeno una nera e l’altra blu.»
Molti di coloro che scrivono non sanno amare e perciò non sanno vivere, per questo le loro opere, anche quando formalmente meritevoli, non ci soddisfano mai del tutto, continuano a lasciarci incompleti; Montieri, invece, ama, vive e scrive e la sua statura, più che mai evidente in questa raccolta, ha come appoggio il rispetto dell’umano, dell’altro da noi, perché è solo davanti all’alterità che possiamo trovare misura di quello siamo e che potremo essere. L’uso di un linguaggio comune, la fissazione di immagini di vita quotidiana, la scelta di un verso temperato e cioè gli elementi che connotano la poesia di Montieri diventano anche i parametri attraverso i quali misurare la forza di questa raccolta che, evitando qualsiasi forma di nascondimento, sceglie di esporsi totalmente; ed è proprio in questa esposizione, nella quale è l’ordinario, se osservato come merita, la grande straordinarietà, che si rivela la capacità poetica di Montieri associabile, in questa autenticità nel descrivere il “normale”, alla grande poesia di Umberto Fiori: «Qualcuno ha scritto di lasciar perdere / l’ovvio, la cosa mi interessa / ma avrei delle riserve, una domanda: / lasciare l’ovvio per cosa? / Rispondo che è così bello l’ovvio / di certe sere, la cosa scontata / la tua finestra sulla corte illuminata / la cosa uguale già cambiata.»
L’uso ricorrente del presente storico che, in alcuni casi, conferisce un taglio cronachistico ai componimenti, svela, anche sul piano temporale, quell’idea di imperfezione sottesa a tutta l’opera: laddove qualcosa sia già accaduto o debba ancora accadere, è nell’hic et nunc che manifesta la sua portata, dimostrando come nessun evento sia mai dato una volta per tutta ma, dopo essersi verificato o nell’attesa che si compia, entra nel grande circolo della vita, diventando parte integrante del suo perenne cambiamento. Ed è grazie a questa idea di flusso ininterrotto e di movimento che Montieri riesce a essere incisivo anche quando parla dei migranti e della loro condizione: «Un corpo morto s’abbraccia / a una madre, c’è vita / in questa doppia morte / così l’acqua dello stretto / appiccica col sale, non separa / ciò che è stato vivo / due volte, chi ha tentato / disperato la terza via.». Non attribuire a ogni cosa una forma troppo rigida, non cercare per forza la fine, dare valore al peso dello sguardo e alla sua capacità di eternizzare ciò che per noi conta sono i tratti che connotano Le cose imperfette o, se volessimo usare le parole esatte del loro autore «Il professor Ezio Raimondi, i migranti, la donna che amo, mia sorella, Roberto Bolaño, David Bowie, Stefano Cucchi, David Foster Wallace, Silvina Ocampo, mia madre, Milo De Angelis, Michele Mari e gli altri sono le cose imperfette e ognuno di loro è un pezzo del tempo che ci rimane.».
Un altro Gianni, Rodari questa volta, scriveva che «non bisogna disperare: attendere. / Non buddisticamente, ma con attività. Non ci dobbiamo / cioè lasciar vivere: dobbiamo voler vivere»; Le cose imperfette di Gianni Montieri sono un esempio di poesia autentica che chiama un ritorno alla vita, quella vera, nella quale occorre prendersi il rischio di amare, soffrire, scrivere e cioè il rischio di vivere davvero.
Una stretta di mano, insomma, all’apparenza distratta, inconcludente, ma in realtà forte, decisa, che ci rende incapaci di scordare la persona dalla quale l’abbiamo ricevuta; proprio come “le cose imperfette” che ci tengono ancorati alla parte più autentica di noi e non smettono di ricordarci chi siamo.
L’assenza del respiro di Milano
dove si è assopita, nascosta
la città? Penso a Lotto,
a Greco, a Bignami nuovo capolinea
oppure l’aria manca a me;
mi dico che Lilla è il colore di un fiore
piantato tra una fermata e l’altra
steso sopra il ferro dei binari.
*
Capiterà, è possibile, di parlare
della deriva di questo paese
il ridicolo che ricopre la bellezza
la decenza venuta a mancare
i principi (che bella parola questa)
della Costituzione, di Enrico
Berlinguer, del suo viso asciutto
di che cosa direbbe, penseremo
ai versi di Pasolini o di Raboni
alla loro dignità, a tutto questo
non essere all’altezza, al vivere
in pena poco più che rasoterra.
*
Qualcuno mi ha portato in biblioteca
fuori, sull’acqua, la primavera inoltrata.
Sei tu, naturalmente, che mi presti
la penna che mi rubi la matita.
Scrivo un lungo pezzo su Kent Haruf
tu leggi Magda Szabó io continuo
a pensare ai diritti d’autore scaduti
e alle verdure che mangeremo stasera.
Diciamo alcune cose sulla traduzione
tu sottolinei, mi leggi un passaggio.
Sto scrivendo questa poesia
intanto che le cose accadono;
questa poesia sta accadendo
mentre mi siedi accanto.
*
Qualcuno ha twittato: “È morto
Chris Cornell”. In ufficio è calato
il silenzio, non che si parli molto
poi qui dentro. Resto sgomento:
i miei due colleghi non sanno nulla
dei Soundgarden. La memoria
torna indietro al tavolo da biliardo
in casa di Roberta, a Giuliano, a Daniela.
Invecchiamo così perdendo più cantanti
che capelli. Giuliano ha due figli
Roberta sta a Berlino, Daniela insegna
la sua bambina è bella. Fra sei giorni
è il mio compleanno, Cornell canta
i colleghi vanno a pranzo.
*
La marea non rispetta gli orari
astronomici è scritto in piccolo
in fondo al bollettino, prima
dell’angoscia che verrà
mi domando quali siano le ore
da rispettare (l’alba di Matera
il tramonto di Campobasso);
metto gli stivali in una sportina
come fanno i veneziani – Anna
mi ha insegnato: quando la marea
sale di non sollevare le gambe
di trascinare i piedi – così comanda
la padrona di casa che è l’acqua
attratta verso l’alto dalla luna
bloccata in laguna dallo scirocco;
esco di casa come uno di qui
con la speranza in una tasca
gli sms dell’allerta nell’altra.
*
Siamo al buio, la luna gioca ancora
esco dal supermercato, somiglio
a uno spaventapasseri, due secchi
appesi a un braccio e tre moci
all’altro. Non cala dice una signora
dietro San Beneto, lo sussurra
a nessuno, a me, ai mattoni
le rispondono i velluti di palazzo
Fortuny, i manifesti del Rossini
un cartello strappato di Biennale
dico Buonasera non so bene a chi
cerco di tenermi in equilibrio
tra secchi e stivali dentro al fiume
impressiona la velocità
impressiona tutto questo non finire.
Gianni Montieri è nato a Giugliano nel 1971 e vive a Venezia. Ha pubblicato: Le cose imperfette (2019, LiberAria) Avremo cura (2014) e Futuro semplice (2010). Suoi testi sono inseriti nella rivista monografica «Argo», nei numeri sulla morte (VIXI) e sull’acqua (H2O) e nel numero 19 della rivista «Versodove». Scrive su «Doppiozero», «minima&moralia», «Huffington Post», «Rivista Undici» e «Il Napolista», tra le altre. È redattore della rivista bilingue «THE FLR». È nel comitato scientifico del Festival dei matti.
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