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Immagine del redattoreMartina Toppi

«Invii delle cartoline interstellari»: recensione a "Corea" di Vittorio Parpaglioni Barbieri

«Temporalità dissolta» è la sintesi perfetta che Michele Paladino offre di Corea raccolta di Vittorio Parpaglioni Barbieri (Arcipelago Itaca, 2022) nella primissima riga della sua prefazione. E in effetti il tempo c’entra molto con questa raccolta di poesie perché a un certo punto cessa di esistere.

«Quel che concerne il passato non ci riguarda / e ci attrae, e ci appare / come una caduta docile e inamovibile / che scegliamo di ripetere» recita infatti la voce del poeta configurando inizialmente la temporalità come uno sguardo da gettare all’indietro. Ma è legge semplicissima della quotidianità quella per cui guardando indietro diviene impossibile camminare in avanti. Che avanti e indietro abbiano invece a che fare con il futuro e il passato è questione di semplice metaforizzazione: poniamo il passato alle nostre spalle, qualcosa che è accaduto prima, che abbiamo già superato, che sta dietro, mentre puntiamo al futuro dritto davanti a noi, qualcosa che poi arriverà, che ancora dobbiamo raggiungere. Eppure, questa non è una legge cogente della vita, anzi è pura questione linguistica che possiamo cambiare a nostro piacimento, tanto che per gli antichi greci o gli Aymara delle Ande è ciò che è stato a starci davanti agli occhi, monumento inamovibile, non il futuro che ci sorprende, fuori dal nostro campo visivo.

Ricordiamoci allora di questa relatività mentre ci avviciniamo al primo tentativo proposto da Parpaglioni di affrontare il tempo: la «caduta docile e inamovibile». Si tratta della scelta di ripetere il passato ridisegnando sulla schiuma che svanisce «i volti dei nostri antenati». Salvarsi dal tempo riproducendolo sembra opzione soddisfacente fino a quando non ci accorgiamo che nel grande schema delle cose qualcosa non torna: le impronte lasciate sulla sabbia sono ora troppo piccole e confuse perché i nostri piedi possano ripercorrerle e l’isola che prima ci sembrava riferimento obbligatorio del viaggio si è persa in un velo di umida nebbia, sorta sul pelo dell’acqua insieme al sole. «Col tuo sguardo vivace hai capito / che forse le sedie sono state messe lì / per caso; / che altrove qualche upupa vola / solo per sopravvivere; / che la tua bici gialla si regge su se stessa / solo per la forza della tua convinzione». Ma se nulla ha un senso e se il senso è la nostra direzione, quanto ancora è più sciocco cercare di percorrerla a ritroso? È l’«inciampo in un sistema complesso» di cui Parpaglioni si accorge a pochissimi minuti dall’immersione iniziale del lettore nella sua raccolta e di cui lo avverte, senza titubanza. Ciò che è accaduto non è schematizzabile né ripetibile, non ci resta allora che il domani per rispondere alle domande dell’oggi? La soluzione potrebbe cioè essere giocare a dimenticare quelle che ieri erano certezze per trovare nella fragilità di un desiderio la forza di ribellarsi alla gabbia del tempo. Eppure, nemmeno questa soluzione è definitiva, perché anche il futuro in fondo agli occhi del poeta appare come qualcosa di poco desiderabile: «Domani è un’appendice. Come / un catetere vescicale / è chiodo fisso al tuo fianco». A Parpaglioni dunqeu bastano quattro componimenti all’inizio della sua raccolta per esaurire le nostre possibilità di rapportarci col tempo, tanto che il lettore un po’ spaesato, al momento di voltare pagina, si trova a chiedere: e ora?

E ora la storia, incredibilmente, continua, così come il dialogo che fino a questo punto non aveva sufficientemente colto l’occhio di chi legge: Parpaglioni non sta parlando di qualcuno, con i suoi versi, ma con qualcuno. Scoprire o anche solo provare a indovinare di chi si tratti aiuta a piegare le sbarre della gabbia e permette di sognare una fuga. Il tu di questi versi è qualcuno che come il poeta non ha paura di dire che «il mio problema ha a che fare col tempo». Per rendersene conto basta una foto di gruppo scattata sotto la luna, con l’impressione di vuota angoscia che i secondi tra il sorriso e il flash siano stati anni e che già quell’immagine non rappresenti più nulla di ciò che è stato. Così è quel tu a rivelare che nulla vale la ricerca che poi implica il ritorno, a nulla vale l’amico d’infanzia se ripopola il presente identico al sé di prima, a nulla vale ricostruire il passato e lì fissarsi perché «la strada ripercorsa all’indietro / è il gioco dell’acqua», che scorre. Dal tempo, sembra dire Parpaglioni, bisogna salvarsi e salvarsi significa svestirsene, anche mentre tutto del nostro corpo parla di lui. Quando «time becomes meaningless» come in un video dal titolo “Viaggio alla fine del tempo” che il tu cui parlano i versi guarda, qualcosa si libera e prende il volo fuori dalle sbarre. Qualcosa si salva.

Anche le parole del poeta a quel punto perdono i freni e diventano prosa poetica entro la quale si prova a raccontare a quel tu mimetico che sbuca e svanisce tra le pagine il punto in cui la temporalità si dissolve. Un punto nodale, che non sta né davanti né dietro, né in basso né in alto, ma che ci penetra completamente. La morte è al centro della seconda sezione popolata da storie: appena iniziate, già finite, ancora in corso di svolgimento, eppure egualmente degne di essere dette dal poeta. E mentre dalle storie il tempo cola come sangue da una ferita che non provoca dolore, della quale a stento ci si accorge, qualcosa di nuovo e di vivo si forma al contatto tra l’emoglobina e la polvere della terra. È un fantasma che si oppone alla fine («Mio padre per quattrocentotrentadue giorni / rimase accovacciato sul mio divano, / come un vecchio corvo in attesa di essere spaventato»), il poeta stesso quando faceva «firmare a tutti / una petizione per cui non finisse l’estate», una consapevolezza che scioglie il tempo come un gelato lasciato sotto il sole e nella quale restiamo sospesi «come un uomo per sempre assorto». Quel grumo di sangue e terra è una risposta sempre più chiara mano a mano che le speranze del poeta si infrangono contro i muri della gravità e di altre leggi fisiche con le quali abbiamo letto il mondo da: nella morte una risposta è possibile perché è lì che tutto ciò che ci limita si dissolve.

È lì che ritroviamo sempre chi abbiamo amato, non come lapide ma come albero rinato, non come fuggitivo ma come viaggiatore con le sue «cartoline interstellari» pronte a essere inviate, come i rami che «In generale si oppongono a ogni forma / di permanenza». Pelle a pelle coi nostri morti ci sentiamo più liberi anche dalla gravità, levitiamo verso costellazioni iridescenti e pianeti violacei, chiedendoci «come sarebbe stato / non esserci, non essere mai nato». Occhi negli occhi coi nostri morti ci scopriamo rondini, mai permanenti, sempre in volo sulle stagioni, «animali / che si srotolano dal telo, si srotolano / dal tempo». Cuore a cuore coi nostri morti ci accorgiamo che la mancanza è nostalgia ma che a quella non si può dare ascolto, perché non è nel ritorno all’indietro che vi troveremo sollievo, né nella ricostruzione futura di qualcosa che è stato. La mancanza è possibilità di immaginare che le storie proseguano sempre diverse, che ogni cosa non sia più permanente e fissa, che nella morte ogni possibilità esploda. Così siamo in questi versi come comete che vagano in universo di cose belle e subito dimenticate, code di pietre troppo rapide per sembrare sassi di ghiaccio, così veloci da suggerire la forma dei sogni che ci visitano nelle nostre notti. Ogni volta nuovi e al contempo i compagni di sempre, improbabili come la vita cui potremmo dare forma se solo strappassimo la matita dalle mani del tempo. In questa condizione così singolare, immersi in sogni unici e individuali, ci scopriamo simili grumi di sangue e polvere e le nostre voci frante, abituata a urlare nomi con la testa affondata nella sabbia come fanno gli struzzi, iniziano a risuonare come le melodie inaudibili dell’aurora boreale. Il movimento fuori piano che spezza la catena del tempo, diventa una danza di morte, nella quale la vita può continuare a essere anche se non c’è più una direzione. La vita può cambiare forma, come i sogni che ci visitano nella notte, ricordi di qualcosa che sarà diverso: «Un’estate hai visto le luci multicolore / di una grande aurora boreale – / il mondo era nel panico e cominciava a vacillare. / Ci siamo rincontrati quando io sarò vecchio / sul ponte di comando di una nave. / Alcuni dicono che sia stata solo una coincidenza / una cosa da costellazione familiare».

Nella raccolta per chi voglia intenderlo, per chi abbia visitato almeno una volta i propri morti a cavallo di un asteroide, insieme al tu dei versi viene rivelato anche l’arcano: un viaggio nello spazio basterebbe per non dover sentire né il peso dei passi, né il ticchettio dei minuti. Sedersi oltre la stratosfera, lì dove presente, futuro e passato coesistono, ripercorrere l’infanzia di un nonno, vivere la nascita di un figlio, assistere alla propria morte con la mano sulla spalla di un’amante. Un po’ come nel film di Christopher Nolan: essere imprigionati in un tesseratto senza pareti e lì accontentarsi che il tempo non scorra più per noi, ma sia solo lo spettacolo meraviglioso visto dall’esterno di una vita in fieri, da raccontare mentre accade e prende forma e non dopo né prima, quando il tempo la imprigiona. Un po’ come in una canzone dei The Train, dove chi è di ritorno dai confini dell’atmosfera ha gocce di Giove tra i capelli, si comporta come l’estate e cammina come la pioggia, ricorda che fuori dagli schemi del tempo continuiamo a esistere in costante mutamento: «Peccato non poterti toccare o intervenire / in alcune scelte che hai fatto o farai. / O non potere condividere con te / un pasto estivo in riva al mare. / Tanto mi basta, sulla crosta di un satellite freddo, / osservare in silenzio lo scorrere del tuo tempo».

E spedire quelle cartoline interstellari, con versi finalmente liberi da ogni vincolo.


Vittorio Parpaglioni Barbieri è nato a Roma nel 1998. Nel 2018 ha pubblicato un reportage narrativo in India per la rivista Midnight Magazine. Alcuni suoi racconti sono usciti sulle riviste online Suite Italiana e Argo, tra il 2020 e il 2021. È laureato in Lettere Moderne all’Università di Bologna e attualmente scrive di poesia per la rivista letteraria digitale Il Rifugio dell’Ircocervo.

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