Intervista a Maria Grazia Calandrone
Aggiornamento: 4 nov 2020
Questa è l'intervista che Alessandra Corbetta ha fatto a Maria Grazia Calandrone, a partire dalla sua ultima raccolta fino a conversare sul significato oggi del corpo, del valore etico della poesia, delle nuove generazioni e molto altro.
L'intervista si chiude con un inedito che Calandrone regala ad Alma e a tutti i suoi lettori.
L’ultima sua pubblicazione in versi, Giardino della gioia (Mondadori 2019), già a partire dal titolo, designa la sua volontà di dare un nome preciso alle cose, senza avere timore di utilizzare il termine che meglio e più rapidamente consente di associarle a una precisa sfera semantica ed emotiva; così sceglie il vocabolo “gioia”, che tornerà più volte all’interno dei testi che compongono quest’opera, in totale controtendenza con quello che ogni giorno la televisione ci mostra e di cui si riempiono le pagine dei giornali: una società cupa, triste, nella quale dominano gli egoismi personali e dove una coltre di nebbia fitta sembra intorbidare le coscienze di molti.
Qual è l’importanza di parlare in poesia della gioia e come intenderla? Su quale traiettoria possiamo provare a seguire il suo corso?
Il titolo del libro vuole infatti essere una sfida alla contemporaneità, inclusa la contemporaneità letteraria. La realtà non è mai stata sufficiente, «non basta a nessuno», come scrive Pessoa. E tanto meno può bastare una realtà sociale come quella descritta nella domanda: uno stillicidio di paure che induce all’odio e a narcisismi di varia entità e natura, incluso quello dei poeti che credono di saperla più lunga di chi poeta non è.
Ritengo, piuttosto, che la poesia abbia a che fare con un sapere comune, con la dilatazione del tempo – quella che un tempo si chiamava eternità – che tutti conosciamo, perché l’abbiamo vissuta nell’infanzia, o nell’esperienza amorosa. La poesia ci riporta a quel sentimento (non senso, sentimento) di espansione e di collettività.
E credo che, mai come in questo momento di enorme solitudine sociale, abbiamo bisogno di questa sentinella che ci riporta a un sentire comune, al luogo dove siamo (non eravamo, siamo) tutti la stessa persona, derivata da un unico grumo di materia stellare.
In molti, scrivendo di Giardino della gioia, hanno ricondotto all’amore uno dei temi cardine delle poesie che costituiscono l’opera. In effetti, è come se la tematica amorosa si ponesse in posizione trasversale rispetto ai componimenti e, in misura maggiore o minore, li colpisse tutti: c’è l’amore familiare, quello per gli amici espresso nella forma di dedica, c’è l’amore per il prossimo e l’amore per la vita, anche laddove la bruttezza e la brutalità dell’esistere sembrerebbero farlo scomparire. Mi verrebbe da dire, allora, che in Giardino della gioia l’amore è prima di tutto e alla fine di tutto una forza-sommatoria che ingloba in sé tutte le forze e che agisce in opposizione vettoriale al male del mondo.
Rispetto a questa tensione, che le chiedo di commentare, qual è il ruolo che ha o può avere la parola per tentare di rendere più energica e impattante la forza-amore?
Presupponendo una lettura ordinata, da pagina uno alla fine, arrivati a un terzo del libro si trova una poesia dal titolo Intelletto d’amore. È una dichiarazione di poetica, molto esplicita.
Ma l’amore da solo, proprio come la realtà, non basta. A un certo punto della vita recente, mi è parso di comprendere cosa intendesse Dante con la sua nemmeno troppo enigmatica espressione «intelletto d’amore», quella che Nanni Balestrini rovescia nell’espressione contraria «emozione intellettuale».
Dante insegna ad attraversare il mondo (nel libro, provo ad attraversare anche la cronaca nera) alla luce di quel ragionare d’amore che credo significhi identificarsi e sentire che tutto, baudelairianamente, corrisponde a tutto. Però – avverte Dante – «non è cosa da parlarne altrui». Si vive e si scrive con amore e per amore, ma si ragiona d’amore solo con chi è dotato di intelletto uguale, altrimenti si rischia il ridicolo (peraltro, senza nulla aggiungere all’altrui comprensione).
L’amore è una forma d’intelligenza. Alcuni ne sono naturalmente dotati, alcuni no. Educarsi all’amore è un lavoro duro. Purtroppo non è materia d’insegnamento scolastico.
Infine, la parola: è uno degli strumenti e dei veicoli dell’apprendistato amoroso. Anche in questo caso: alcuni sono inclini, alcuni no. Per coloro che sono inclini, la parola è una forza tremenda, viscerale, pericolosa, perché trascina fuori di sé. E magari si scopre che il mondo, visto da fuori di sé, è più abitabile. E forse noi stessi, visti da fuori, siamo più abitabili.
tutta la vita è stata un esercizio per tornare
al tuo corpo
caldo come la terra
eppure scrivo della solitudine
di cocci d’osso
in conche di sabbia
scavate
con gli occhi delle scimmie che cercano riparo
corpi come scodelle rovesciate
i catini del cranio colmi di cielo
In questa, come in altre poesie di Giardino della gioia, ritorna il tema del corpo che, soprattutto negli ultimi anni, sembra essere diventato, anche per la scrittura in versi, un porto dal quale è inevitabile passare o fare approdo. In effetti, la società occidentale contemporanea delega al corpo lo svisceramento di molteplici questioni, da quelle strettamente correlate a esso, come i discorsi sull’oggettivizzazione sessuale o le pratiche di body modification, ad altre in cui il corpo si fa capro espiatorio per potersi accostare, in maniera indiretta, a problematiche gravose come quelle della violenza di genere o dei nuovi gap generazionali.
Che ruolo gioca, secondo lei, il corpo nella poesia contemporanea e come spiega questa sua prepotente presenza? E nella sua di poesia, come si inserisce, di quali significati si fa portatore?
Non ho mai fatto distinzione fra materia e immateriale, dunque tra corpo e quello che si usa chiamare spirito. Il corpo non è che la manifestazione più visibile di quello che siamo e, in effetti, parla a gran voce di noi. Ed è senz’altro vero che viene spesso gettato in prima linea, a difesa di parti di noi ritenute più sensibili, dimenticando che, senza il corpo, nient’altro di noi esiste. Almeno, non qui. Ma, dell’invisibile, sappiamo solo quello che rubiamo all’invisibile. E mai avremo certezza che sia “vero”, se non per lampi d’intuizione.
A proposito di violenza di genere, nel libro c’è una poesia dedicata all’emblematico caso giudiziario di Luciana Cristallo, assolta nel 2014 per aver ucciso il marito e averne occultato il corpo, dopo che le sue (della donna) ripetute denunce per percosse e violenza erano state ignorate. Mi auguro che questa sentenza faccia scuola, insegni cioè a prendere sul serio le denunce delle vittime di violenze (non a sopprimere i violenti sperando di rimanere impuniti).
Per lungo tempo la presenza del corpo in poesia è stata proposta e campo d’azione delle donne. In parte è ancora così, anche se le differenze di genere, forme e contenuti, sono sempre più sfumate. Il corpo nella poesia contemporanea è spesso rivendicazione di un’evidenza o terra di contesa. Ma, più spesso, come nella poesia delle origini, forma dell’assenza e della tensione. Nella mia: desiderio che le parole stesse siano corpo e gesto.
Anche ne Il bene morale (Crocetti 2017) lei riesce a penetrare nel tessuto sociale con la poesia, che si fa scalpello con il quale eliminare la patina che avvolge cronache e fatti per mostrarne il loro lato più autentico e per far sì che essi non restino eventi facilmente dimenticabili dalla storia, ma possano trasformarsi in exempla capaci, per sempre, di insegnarci qualcosa. E tutto questo, per di più, non è mai accompagnato nei suoi versi da un nichilismo autoreferenziale, bensì sorretto dalla convinzione e dalla necessità del bene che, per sua natura apre, spalanca ad altro e all’altro.
Possiamo avvalerci del termine “civile” per provare a descrivere questa sua attenzione, mai esclusivamente intimista o ego riferita, alla società e agli eventi del quotidiano? Oppure sarebbe meglio scegliere un diverso aggettivo, “morale” appunto o “etico”, che meglio dia conto del suo lavoro di ricerca poetica?
Credo che il vivere civile sia naturalmente un vivere etico, cioè un vivere che tenga conto dell’esistenza degli altri, se l’etica è la costante attenzione al bene comune. In questo senso, ogni tentativo civile deve fondarsi su un’esperienza etica, in poesia come altrove. E, qui, mi permetto di estendere la necessità dell’etica alla politica, dagli anni Ottanta degenerata prima in macchina del fango delle parti avverse (anziché in lavoro sulle proprie proposte) e, ormai, rovinata in tecnocrazia manipolata dal mercato e in postazioni strategiche fondate su opportunismi realistici e non più ideali, mentre a noi cittadini viene propinato uno show planetario.
Nell’intervista rilasciata qualche tempo a Yari Selvetella per Il Caffè di Rai Uno, alla tesi secondo cui avere una prospettiva morale significhi porsi in direzione contraria rispetto alla bellezza, lei si spalanca in un sorriso e dice fermamente di no, perché non solo esiste una bellezza della morale ma che proprio questa è, per così dire, la bellezza delle bellezze.
Ha voglia di approfondire con noi questo tema e provare a indicare ai più giovani dove si nascondono i serbatoi di questa bellezza, che dovrebbe essere a tutti molto cara?
Ovunque! Ovunque, nonostante le brutture che tutti conosciamo.
Non credo sia necessario problematizzare e, dunque, complicare il concetto di bellezza. La bellezza naturale è autoevidente, ma spesso lo è anche la bellezza delle così dette opere dell’ingegno. Certo, alcune forme dell’arte richiedono un approfondimento culturale preventivo, per essere pienamente comprese, ma sono quasi certa che l’opera autentica sia destinata a tutti.
La bellezza della morale consiste nell’armonia, che è data appunto dalla coincidenza del mio (“io” ipotetico) con il tuo (“tu” ipotetico) bene. Ricordiamo che il cristianesimo ha attribuito al male il nome di diavolo: etimologicamente, colui che divide. Lo stridore, l’avversità. La vittoria sul male è l’armonia, la fluidità. Lo comprendo, da laica. E, da laica, provo a immaginare una società i componenti della quale siano accomunati dal bene. È un’esperienza estetica bellissima.
Ancora: le neuroscienze hanno appurato che l’esperienza estetica attiva le stesse aree del cervello che si attivano durante l’esperienza empatica. Abbiamo bisogno di altro, per comprendere l’identità tra bellezza e compassione, per riconoscere che la lettura di una poesia può renderci davvero più gentili?
La sua esperienza con e per la poesia non si esaurisce nel suo ruolo di autrice, poiché molteplici sono le attività che lei conduce in riferimento al mondo poetico: dai laboratori nelle scuole e nelle carceri, alla realizzazione e conduzione di programmi per Rai Radio 3, alla curatela della rubrica di inediti Cantiere Poesia per il mensile internazionale «Poesia» e molto altro.
Vuole provare a raccontarci, tenendo conto di tutte queste prospettive dalle quali può osservarla, cos’è, cosa rappresenta e verso quali orizzonti guarda la poesia di oggi?
La poesia contemporanea è spaccata in due. Da una parte sopravvivono gli eredi delle avanguardie, arroccati nella fucina della lingua, dall’altra spinge la massa quasi fluida e infiltrante della richiesta addirittura di «consolazione».
Personalmente, non credo che la poesia sia consolazione, credo che sia coraggio di guardare la cosa precisamente com’è. Se esiste una consolazione, sta nella coscienza di stare compiendo il proprio dovere umano di conoscenza.
Toccando, per un momento, il discorso relativo a poesia e Rete, sappiamo che il dibattito attuale si muove passando da una posizione all’altra, riassumibili in “la Rete sta rovinando la poesia” oppure “la Rete salverà la poesia”. In questa dicotomia, semplificatrice e banalizzante di un fenomeno ben più complesso, si intravede, però, una realtà indiscutibile e cioè che i nuovi linguaggi della Rete hanno avuto un impatto rilevante su quelli poetici, in termini di comunicazione, diffusione e, forse, anche su forme e contenuti. Qual è la sua posizione a riguardo? Come vede il futuro della poesia in relazione alle sue interconnessioni con il Web?
Anche qui: da una parte ci sono le liricissime, spesso stucchevoli instapoetry; dall’altra: googlismi e flarf.
Ovvero: da una parte ci sono quelli che adoperano la rete per diffondere pillole di poesia che spingono il pedale facile dell’emozione (del resto, la rete permette un’attenzione poco più che istantanea); dall’altra, i poeti che assumono nella pagina il linguaggio della rete per lavorarlo, filarlo, inglobarlo o trasformarlo in poesia.
Sono due modi opposti di prendere coscienza del cambiamento dei linguaggi, da parte degli scrittori.
Io utilizzo la rete per dire quel che penso sulla poesia, non diffondo praticamente mai i miei testi su canali social. Ma utilizzo il linguaggio e le modalità della rete all’interno dei miei testi, come utilizzo quello scientifico o astrofisico.
Mi pongo dunque in posizione intermedia: credo che le instapoetry possano essere un assaggio, un’esca, se non gettano troppo fuori strada, lungo i sentieri di un’“emozione” presto riassorbita dalla velocità. Niente è demoniaco, se le cose vengono utilizzate come opportunità, con onestà e intelligenza. Ho dichiarato più volte che ritengo internet il fast-food della poesia. Ma la poesia vera è un pasto caldo, che va consumato seduti, con la tavola apparecchiata e il tempo di gustare la pietanza.
Il tempo è indissolubilmente legato al “consumo” della poesia: bisogna darsi il tempo di lasciarla echeggiare dentro di noi e sentire come e dove risuona lungo il nostro passato, e futuro.
La consuetudine di Alma è quella di andare a frugare nei cassetti di ogni autore per scovare un inedito.
Nei suoi ne ha uno da condividere con noi? Gliene saremmo molto grati.
A proposito di corpo: da La parte notturna di una farfalla
Il corpo spinto al punto di rottura dell’integrità del corpo in colori primari
o agglomerato come un budello cieco sui ghiacciai. Corpo
dal quale abbiamo eliminato le scorie come sabbia di fonderia. Il mare
si muove, sotto, come un animale
investito di luce riflessa quasi umana. Movimenti
appena accennati
sulla terra marcita dalle piogge. Vuole trarre
dall’immondizia almeno un distico, dalla sua umanità
residuale. Lo vuole consegnare all’infinito
futuro.
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