Intervista a Giovanna Frene
Questa è l'intervista che Alessandra Corbetta ha fatto a Giovanna Frene; il dialogo si chiude con un inedito che Frene regala ad Alma e a tutti i suoi lettori, a partire dal quale Francesco Destro ha realizzato una suggestiva videopoesia.
Gli pongono le mani intorno al sesso a ogiva
per prima cosa mentre è ancora seminudo.
Ha gli occhi spalancati e non prova vergogna.
Anche la bocca è del tutto aperta tanto che non può
parlare o forse nessuno lì ha il tempo per ascoltarlo.
Per seconda cosa mentre è ancora disteso
gli puliscono il corpo con una spugna morbida
sostenendo chi la schiena chi le braccia perché non si affatichi.
Bisogna preparalo a festa. Non si può
mancare alla festa quando viene preparata.
Non è il momento di vergognarsi per tutte quelle donne.
Camminano avanti e indietro vanno su e giù
per la camera come api in un giardino d’inverno.
La sua voce si perde nel loro brusio. Cercano
l’abito migliore le scarpe più nere.
A cosa starà pensando mentre scruta il soffitto
quasi attonito… Per terza cosa volevo dire
ora che sono vestito che non riesco a parlare
con questa benda attorno alla testa e non posso
vedere con le palpebre così abbassate.
Gli guardo le mani sopra il petto a crociera.
Un morto non ha polmoni per un ampio respiro: è tutto
concentrato sulla sua morte,
non pensa a domani: domani
non esiste
Il testo qui proposto è Descrizione ed è tratto dalla sua raccolta di esordio, Immagine di voce (Facchin, 1999). Se la poesia è, tra le altre cose, capacità di guardare oltre e di vedere lontano, ci troviamo qui senz’altro di fronte a un esempio egregio di quest’arte, poiché vengono anticipate molte riflessioni sulla rappresentazione corporea proprie della società contemporanea e ricorrenti in molte pubblicazioni recenti. Alla fine degli anni Novanta lei dà matericità, attraverso i versi, a quel fenomeno di oggettivazione sessuale oggi potentemente amplificato dalla pervasività digitale, e crea un’alternanza di voci che, con efficacia, amplificano quel senso di spaccatura e di frammentazione che tutti ci riguarda.
Ci racconta la genesi di questo testo e ce la inscrive in quel carattere predittivo che interessa i poeti, come lei, effettivamente appellabili come tali?
Vorrei iniziare a rispondere citando un brano tratto dalla recensione che Giulio Mozzi fece nel dicembre 1999 in ‘Alias’ de «il manifesto» proprio a Immagine di voce, che era uscito nel giugno dello stesso anno: «Leggendo questo mi sono venute in mente molte cose: a. che non è facile guardare in questo modo un corpo morto, specie se è il corpo di una persona amata o di un familiare, cioè di una persona con la quale si condivide proprio il corpo; b. che ancora e ancora, eternamente, una delle cose che la poesia fa è mettersi davanti ai tabù, e affrontarli coi suoi mezzi specifici; c. che questa voce che qui parla somiglia alla voce di Antonio Porta: al modo che aveva Antonio Porta di dire cose, cose e cose (io devo moltissimo ad Antonio Porta: i suoi libri mi hanno cambiato la vita)». Giulio aggiungeva poi che le poesie del libro avevano la caratteristica di poter essere viste come immagini, prima ancora che pensate o comprese. Questo suo evidenziare la visibilità dei miei testi mi ha accompagnato come idea anche nei percorsi successivi, e anche quando sembra che i testi siano molto astratti la prima cosa che salta all’occhio è che generano immagini mentali, e percorsi per arrivare a formarle. Questa visibilità creata dalla parola, quindi, per certi versi precede la corporeità di ciò che viene rappresentato: il corpo, di fatto, mi è sempre interessato meno della sua rappresentazione, e in quanto passibile di rappresentazione lo metto sullo stesso piano delle altre cose se si possono rappresentare. Tornando al testoDescrizione, tenendo conto che è un testo scritto a 23 anni, quindi è davvero remoto, forse il suo carattere di predittività rispetto alla dimensione visuale e virtuale che stiamo vivendo risiede proprio nel suo tentativo di fissare in un’immagine quasi in diretta un avvenimento improvviso – la morte di mio nonno in una notte di giungo –, che è quello che fa ora la Rete. E così, come le immagini non sono i fatti, ma appunto sono rappresentazioni dei fatti, la poesia non può salvare le cose, ma solo descriverle. Sono le descrizioni ad essere di molteplici tipi.
Datità esce per Manni nel 2001 e viene poi ristampato da Arcipelago Itaca nel 2018. Il titolo, che deriva dal termine tedesco Gegebenheit, definisce, in filosofia, il modo in cui un oggetto si rivela. Tale processo di esternazione assume, nelle pagine di questo suo lavoro, una manifestazione composita e stratificata, come se la rivelazione, in quanto fenomeno complesso, dovesse includere anche gli opposti; ad esempio la necessità di scrivere, che potremmo immaginare come un punto fisso, e le domande sulla sua reale utilità e su quale possa essere il modo migliore per farlo, che si figurano, invece, come moto da e a luogo. A tenere insieme tutto c’è il rigore della sua scrittura, ricchissima, creatrice e assai calibrata.
Le chiedo: in che modo forma e contenuto si intrecciano dentro Datità? I tanti riferimenti poetici che fanno capolino in questa raccolta (Kavafis, Luzi, Shelley giusto per citarne alcuni) come si inseriscono nel flusso senza interruzione che lei ha qui generato?
Forma e contenuto in Datità si intrecciano in una maniera molto calibrata e cosciente: avevo incontrato da poco, nel 1994, Andrea Zanzotto, e la mia poesia ne aveva subìto un arricchimento in complessità e profondità, prima di tutto a livello di poetica. Mentre scrivevo queste poesie, le mandavo anche sempre a Zanzotto, e devo dire che non me ne ha corretta neppure una; dico questo per dire che da Zanzotto sono come andata a bottega, come si faceva durante il rinascimento per le arti platiche. Mi sembra chiaro che un certo contenuto può avere solo una certa forma; così il tragitto del libro passa dal versante petrarchesco a quello dantesco, non solo a livello linguistico, ma anche contenutistico: si passa dall’amore alla filosofia, dal sentire al conoscere, dalla vita alla morte; il libro è in un certo senso un percorso sempre più rischiarata dall’“apparir del vero”, fino alla presa di coscienza finale. Datità è anche il libro dove ho fatto più massicciamente ricorso alle citazioni, che, come ho già detto in altre occasioni, sono come dei mattoncini con cui ho costruito la mia struttura, o dei frammenti iridescenti inseriti qua e là nel muro.
Ci tengo a precisare qui che, essendo Datità un libro scritto negli Anni Novanta del secolo scorso, quindi un libro giovanile, è inutile negare che vi sono alcuni elementi formali che definirei sicuramente “zanzottiani”, come accade per tutti i libri che sono ancora libri di formazione; tuttavia, a livello di altri elementi formali e più in generale di contenuto è ben chiaro come io avessi già un ambito mio, e solo mio. Il dato fondamentale di differenza è che nel mio mondo poetico non c’è il concetto di paesaggio, e questo credo basti. D’altro canto, pure lo Zanzotto di Dietro il paesaggio era tacciato di ermetismo. Quindi, nihil novum.
Nella postazione a Datità, Andrea Zanzotto scrive che «La storia – anche di ritmi, di moduli metrici – esiste in questa poesia ma non è storia, è ressa. Ogni dato ha l’autorità di una specie di kairòs tanto più e-vanescente quanto più crudo. Ma se tutto trafigge sia entrando che uscendo, tutto si compatta in una crescita sicura (pur sempre in un’area di indecidibili). Queste poesie, perché tale è il termine che bisogna impiegare senza paura, chiamano a un confronto il lettore, chiamano l’avanzare di un proprio tipo di lettore.», individuando senza mezzi termini lo spessore di quest’opera e anche la concatenazione tra poesia, filosofia e senso storico. Una capacità di scrittura scultorea è quella che Zanzotto le riconosce, assimilandola a Canova, e un uso del linguaggio consapevole –come bene ci ha insegnato Foucault –, di riflettere sé stesso prima di altro.
Da dove deriva questo uso della lingua? Quali azioni vengono compiute affinché possa farsi verso? In che modo e misura il lettore è coinvolto nel processo di decifrazione e analisi del messaggio che, attraverso la parola poetica, travalica pagina e preconcetti mentali?
Devo dire che ho capito solo via via nel tempo ciò che voleva dire Zanzotto nel suo scritto su Datità e anzi lo capisco pienamente solo ora, perché egli aveva colto in anticipo delle costanti non solo del libro, ma del mio stile, molte delle quali si stanno concretizzando solo adesso, e che avranno anche altri sviluppi futuri. Per esempio, c’è una consonanza tra la definizione di “poesia che si vede”, di Mozzi, con quella di “poesia scolpita”, di Zanzotto: la prima sottolinea il suo carattere di descrizione nel senso più ampio possibile, la seconda mette in luce la capacità plastica nel costruire il verso e nella costruzione del mondo prodotta dal verso. Credo che Zanzotto avesse intuito anche che questo uso della lingua è molto diverso dal suo (ma, d’altro canto, chi non ha avuto un’origine non ha neppure una direzione): mentre la sua lingua balbetta e scivola sempre oltre, saltabeccando, la mia tende a concrescere come un elemento granitico; da ciò, il carattere di “dover essere”, appunto quasi normativo, della mia lingua poetica. A questo punto mi viene in mente un parallelo musicale: ricordo che Bernstein diceva che nella musica di Beethoven la successione dei tasselli nelle melodie avevano una intrinseca necessità: credo che, con i dovuti distinguo, quello che accade al mio linguaggio poetico sia proprio questo. Non vi è nessuna parte che non è scolpita a formare un certo tragitto, nel quale il lettore viene invitato a entrare e costretto a seguire la strada tracciata: paradossalmente, solo fissando questa Medusa il lettore riuscirà a vedere oltre, a rendere trasparente il muro di parole.
La Storia, con la esse maiuscola come da lei indicato nella postfazione, diventa centrale in Tecnica di sopravvivenza per l'occidente che affonda (Arcipelago Itaca, 2015), sebbene tale centralità sia condivisa equamente con la Poesia, poiché è proprio il muoversi in parallelo e, in certi momenti, a intreccio, di questi due macro temi a costituire il nucleo di questo suo lavoro. Un nucleo incandescente, magmatico, che solleva interrogativi e cerca risposte-fatti con cui provare e interrompere la tragedia di un mondo che, sia a livello personale che collettivo, sempre più tende alla disgregazione.
A impreziosire l’opera ci sono anche sei immagini fotografiche di Orlando Myxx che, oltre a dare rappresentazione visiva di fatti ed eventi, concretizzano quella commistioni d’arti a lei cara e, a più riprese, indagata.
A distanza di sette anni dall’uscita di questa raccolta, in uno scenario globale che assume tinte sempre più cupe, cosa la poesia e le arti in genere possono o devono fare perché la loro voce non sia solo faccenda culturale per pochi? La parola, nelle sue varie forme espressive, può realmente incidere sul corso della Storia?
La parola dei poeti non può niente rispetto al corso della Storia, non può niente neppure rispetto al corso della singola vita, cioè della propria storia. Eppure nella scrittura poetica c’è un tentativo di salvezza, che si svolge in più direzioni: come una lucida illusione. Specialmente nella fase della scrittura mi capita di sentir premere un mondo quasi parallelo che ha bisogno di essere scritto. Nella mia personale poetica ho scelto il punto di vista della Storia, nella declinazione di fatti, perché mi permette di adottare una visione allegorica del mondo. Come ho scritto in una nota di poetica in Tecnica…, ma valida anche per Il noto, il nuovo (Transeuropa 2011) e Sara Laughs (Edizioni D’If 2007) sono interessata alla natura dei fatti: «L’affermazione di Ricoeur, secondo cui l’opacità degli avvenimenti rivela e denuncia quella del linguaggio, mette in correlazione il concetto di storia come narrazione, rappresentazione, con quello del linguaggio usato per tale rappresentazione. A questo riverbero avvenimenti/linguaggio – per cui più spesso lo slittare dal significato delle cose al loro senso allarga lo spettro dell’indecisione, ma anche della possibilità –, corrisponde la consistenza fantasmagorica dei fatti in sé; come ho già scritto, infatti, nessun fatto è mai esistito per come viene trasmesso, e ancor prima, nessun fatto è mai esistito. (…) L’idea di storia ci pone immediatamente di fronte alla frammentarietà di ciò che definiamo ‘storia’. Questi ‘barlumi’ sono insieme rappresentazione della sostanza di ciò che è accaduto, nel suo arrivare dal passato a noi, ma sono anche definitori della natura della nostra percezione degli eventi. (…) Qualcosa è davvero accaduto, ma nella zona opaca che l’uomo abita (…) questo qualcosa è una luce incerta, in sé e per sé.»
Concludo col dire che la cultura è sempre una faccenda per pochi: come diceva Benedetti Michelangeli, l’arte non è democratica. Non sono preoccupata quindi né della scarsissima incidenza della sul mondo, né del fatto che i lettori di poesia siano limitati. È falso poi pensare che il poeta pensi ai suoi lettori, perché i lettori ci sono e ci saranno comunque: egli deve solo pensare alle sue ossessioni formali, alla perfezione della forma.
Vorrei spostare la conversazione sul discorso relativo a poesia e Rete, di cui Alma è attenta a raccogliere testimonianze. Sappiamo che il dibattito attuale si muove passando da una posizione all’altra, riassumibili in “la Rete sta rovinando la poesia” oppure “la Rete salverà la poesia”. In questa dicotomia, semplificatrice e banalizzante di un fenomeno ben più complesso, si intravede, però, una realtà indiscutibile e cioè che i nuovi linguaggi della Rete hanno avuto un impatto rilevante su quelli poetici, in termini di comunicazione, diffusione e, forse, anche su forme e contenuti.
Qual è la sua posizione a riguardo? Come vede il futuro della poesia in relazione alle sue interconnessioni con il Web?
La Rete è prima di tutta una formidabile possibilità di informazione, di divulgazione, di scambio, o più semplicemente di pubblicità, anche per la poesia; rimango sempre informata di quanto accade nel mondo poetico prima di tutto via social, nelle mie bolle. La cattiva poesia non viene migliorata dalla Rete, come la buona non viene peggiorata dalla Rete. Personalmente non ho problemi a pubblicare in siti specialistici miei testi poetici, o testi teorici, invece non amo condividerli direttamente nei social: nei siti dedicati rimane almeno una sensazione di margine di tempo per la lettura lenta e per la riflessione, mentre i social hanno un andamento usa-e-getta. Credo che in futuro molti svilupperanno sempre più le opportunità formali offerte dalla Rete, specie la dimensione sonora e visuale; ciò non toglie che rimarrà la centralità del testo scritto. Mi affascina invece il fatto che l’IA ci farà concorrenza, prima di tutto nei sentimenti. Bel colpo.
Siamo nel 2022, eppure il dibattito intorno alla questione del gender in poesia sembra non essersi ancora esaurita: da una parte ci si continua a chiedere se, in effetti, la poesia possa averne uno o se, in quanto arte, prescinda da qualsiasi suddivisione a riguardo; dall’altra l’inevitabile constatazione della prevalenza di poeti uomini nelle antologie scolastiche e pure nel panorama poetico contemporaneo.
Anche alla luce della preponderanza che il tema del femminile sta assumendo nel dibattito odierno tout-court, come inquadra l’argomento e qual è la sua opinione a riguardo? Soprattutto, prevede un’evoluzione verso altre traiettorie per un futuro prossimo?
Mi sono sempre percepita come androgina, e quando scrivo penso da androgina. In questo senso, mi sono da subito percepita come perfettamente inserita nella tradizione, che ritengo sia una: quella dei poeti. Per questo motivo non amo essere chiamata “poetessa”, ma “poeta”. Ho risolto il problema alla radice, in maniera direi naturale. E infatti poi mi stupisco che quando pubblico interessi il fatto che sono una donna, il mio orientamento sessuale, la mia auto-percezione. Credevo interessasse solo il testo poetico.
Parlando più in generale, comunque, l’Italia sta recuperando a colpi di bravura dei poeti donne, ormai pari a quella dei poeti maschi, il gap creato da assenze e pregiudizi secolari; questo è un dato che diventerà sempre più lampante, e un giorno non sarà più un problema. Ci sarà finalmente una tradizione completa.
La consuetudine delle interviste di Alma è quella di andare a frugare nei cassetti di ogni autore per scovare un inedito.
Nei suoi ne ha uno da condividere con noi? Gliene saremmo molto grati.
L’inedito che accludo è stato scritto appositamente per Alma pochi giorni fa, e andrà a chiudere la sezione centrale nel mio prossimo libro Eredità ed Estinzione; è nato a seguito di un sogno nel quale mi raffiguravo incredibilemnte come un ardito della Prima Guerra mondiale in procinto di partire per il Monte Grappa, per uno degli assalti finali al Monte Pertica, nome che nella poesia è diventato Monte Solarol perché era una delle cime del Massiccio del Grappa dove combattè l’alpino zappatore Francesco Bortolazzo, mio nonno paterno, con il quale ho vissuto i primi 14 anni della mia vita. Vi sono molteplici richiami testuali nella poesia: esplicito solo il Dante del Paradiso, Canto XIII (portar in su la cima) e il Rebora dei Canti anonimi, dai quali ho rielaborato una terzina (…arditi, / ma “ardente”, più ancora vivente). Ognuno scava come può, ci dice Heaney.
Sendre e orbàra
A me nono Checo, sapadòr del 7° Alpini, IV Armada, dòpo ‘Armada del Grapa’
“But I’ve no spade to follow men like them”
(Seamus Heaney, Digging)
dobòta xé finìo tùt
dobòta xé za finìo tùt
ma prima che i verza da nóvo el bùs,
assa che té parle, assa che té tegne un poc có mi
che me par da védarte de drìo la me bicicréta cea,
scur, tacà a mi che pedalo, pedalo e nó so ónde che vao
par la stradèla stréta de chél tènp de la vita
co nó gèra s-ciopà el sbrégo de la patùrnia
e la tromba che nó ciamàva uncóra nessùn
par i cavéj, par i òci scónti sóto i sàc de tèra,
té gavéva ciàmà ti sòl: al tènp che la gèra sòl la to guera, nó la mea.
ti té té fermi, ti té me vardi có i òci sbusài
che làgrema fòra ànca l’ànema có fa da un bùs scùr,
e té me dis còxa che té ghè vist che nó tuti gavón da védar,
e té si svéjo da na vita anca se nó té ghè da védar gnent,
nó té ghè pì gnent da védar, e mi nó capisso parché dovarìe svejàrme dès
da sta istòria lónga che me són insugnà de matìna bonóra,
nó gò da capir gnent, nó gò pì gnent da capir
cuàndo che gèro mi che ndavo soldà sénsa nòme – dime ti come che me ciàmo –
dès che i me òci i gà vist tùt cuél che i dovéva védar,
anca se i me gavéva dita de nó tòr el primo càmio, parché cuéi-là i more
tuti sùito – varda, ciapa cuél dedrìo, che furse té resti vivo –
anca ti, té resti vivo al scùr, ti che té sapi a tèra có fa un canp
e nó par na guera, nó sta pì far na trincea de buèle insacà de sàngue:
méti zó el çapón, nó sta scavàrme bonóra el bùs,
dès ciapo sta sendre e la méto su na scuèla có un póc de àcua,
chisà che nó fiorise na bela piànta da portar in su la cima dela tó montàgna,
màgna sti quatro osét che tè gò catà par la stradèla, cuàndo che gèro drio ndar la-zò
par tèra, sóto el Monte Solaròl, partìo soldà sénsa sèst
col secondo viàjo drénto el càmio descuèrt
e vardàndo el siél có le stéle sénsa vòs e sénsa luze
gò capì che sarìe mòrt anca mi có fa ti
in méxo ai altri arditi,
ma “ardente”, più ancora vivente
Cenere e tenebra
A mio nonno Francesco, zappatore del 7° Alpini, IV Armata, poi ‘Armata del Grappa’
“But I’ve no spade to follow men like them”
(Seamus Heaney, Digging)
tra poco è tutto finito
tra poco è già tutto finito
ma prima che scoperchino di nuovo la fossa,
lascia che ti parli, lascia che ti tenga ancora un po’ con me
poiché mi sembra di vederti dietro alla mia biciclettina,
scuro, attaccato a me che pedalo, pedalo e non so dove vado
lungo la stradina stretta di quel tempo della vita
quando non era scoppiata la lacerazione della malinconia
e la tromba che non aveva chiamato ancora nessuno
per i capelli, per gli occhi nascosti sotto i sacchi di terra,
solo te aveva chiamato: al tempo in cui era solo la tua guerra, non la mia.
tu ti fermi, tu mi fissi con gli occhi bucati
che lacrimano anche l’anima come da una fossa scura,
e mi dici cos’hai visto che non tutti dovremmo vedere,
e sei sveglio da una vita anche se non hai niente da vedere,
non hai da vedere più niente, e io non capisco perché dovrei svegliarmi ora
da questa lunga storia che ho sognato al mattino presto,
non ho da capire niente, non ho più niente da capire
dal momento che ero io che partivo soldato senza nome – dimmi tu come mi chiamo –
adesso che i miei occhi hanno visto tutto quello che bisognava che vedessero,
anche se mi avevano avvisato di non salire sul primo camion, perché quelli là muoiono
subito tutti – guarda, prendi quello dietro, che forse resti vivo –
anche tu, resti vivo al buio, tu che zappi la terra come fosse un campo
e non per una guerra, non fare mai più una trincea di budella piene di sangue:
metti giù il piccone, non scavarmi in anticipo la fossa,
adesso prendo questa cenere e la depongo in una tazza con un po’ d’acqua,
forse fiorirà così una bella pianta da portar in su la cima della tua montagna,
mangia queste quattro ossa che ho rinvenuto per la stradina, quando stavo scendendo
in basso, sotto il Monte Solarolo, partito stupidamente soldato
con il secondo viaggio dentro il camion scoperto
e guardando il cielo con le stelle senza voce e senza luce
ho compreso che sarei morto anch’io come te
in mezzo agli altri arditi,
ma “ardente”, più ancora vivente
____
Giovanna Frene, 19 agosto 2022
Comments