Intervista a Gian Mario Villalta
Questa è l'intervista che Alessandra Corbetta ha fatto a Gian Mario Villalta, a partire dalle sue ultime pubblicazioni in versi, fino al suo rapporto con Andrea Zanzotto e Pierluigi Cappello, la sua visione su poesia & Rete e molto altro.
L'intervista si chiude con un inedito che Villalta regala ad Alma e a tutti i suoi lettori.
In una recensione relativa a Il Scappamorte (Amos Edizioni 2019), realizzata per Gli Stati Generali, scrivevo: «Il Scappamorte è una figura-ponte fissata tra i versi nell’atto pretenzioso e nobile di provare a mettere in dialogo le due facce opposte della stessa medaglia: l’io del sonno e l’io della veglia. Da una parte, infatti, la notte e le tenebre, da cui il Scappamorte ha origine e dalle quali si allontana per poi, inevitabilmente, ritornarci; un mondo, questo primigenio oscuro, che non si riduce a essere sinonimo di morte, assenza o inconscio, ma che diviene anche possibilità di riposo e rifugio. Dall’altra, la luce dirompente della veglia, del giorno appena sbocciato, in cui si formalizza l’attesa e la scelta cade esatta dalla coscienza alla vita».
Le chiedo: cosa ha voluto racchiudere in questa ambivalenza e cioè cosa rappresentano buio e luce? Li possiamo traslare dalla sfera personale dell’io a quella sociale del noi?
Un bel commento, il suo. C’è da dire che il buio assoluto è una condizione rara, che spesso occorre creare artificialmente. C’è una mia poesia, Da madre a figlio in Vedere al buio (Sossella 2007) che ne dà conto. A sua volta anche la luce ha diversa ricezione nei sensi. Il nostro privilegiare la vista e l’udito non dipende solo dal fatto che, meglio degli altri sensi, essi sono determinabili e condivisibili nell’uso sociale della parola, ma dipende dalla dimensione ontologica del nostro corpo-psiche che, pur essendo sinestetica, seleziona i sensi in rapporto alle esigenze primarie del nostro stare nel mondo (collocazione, orientamento, equilibrio) e per questo la vista e l’udito assumono il carattere di primo riferimento. Anche per l’udito, infatti, vale qualcosa di analogo: il silenzio assoluto è raro e procurato, e diciamo “silenzio” per lo più l’assenza di disturbo di un continuo sonoro di fondo. Nel cuore di un bosco esclamiamo: “Che silenzio!”, ma se ci immergiamo in un’altra dimensione dell’ascolto iniziamo a udire lo stormire delle foglie, lo sciacquio di un rivolo d’acqua, il brusio della vita che brulica. Ecco, direi che lavorare sulla percezione è lavorare sulla parola, poiché l’uso sociale della parola tende a procedere per opposizioni (buio/luce, suono/silenzio), mentre la dimensione ontologica della parola, nella quale non soltanto comunichiamo ma esistiamo, è sinestetico. Si tratta, quindi, di aprire il sé, nell’autopercezione e nella percezione del mondo, in modo da incontrare nella parola, e nella sua potenza di ri-creazione, il nesso di quella relazione tra l’io (che la parola istituisce) e gli altri: è in questo modo che gli altri accedono nella parola al “noi”. Tra il buio e la luce, tra il suono e il silenzio e, direi, tra il sonno e la veglia, la parola poetica esplora quei margini, quel terrain vague e/o no man’s land che è allo stesso tempo lo spazio dell’indicibile (in termini di comunicazione e di uso sociale della lingua) e lo spazio tra l’“io” e gli “altri”, lo spazio del “noi”.
Ti direi solo di guardare, ecco qui gli occhi, guarda da te
la terra quanto è nera è il peso dei cachi sui rami nudi
finché sai come dirlo – è: profondo – l’inverno ha varchi
trasparenti le palpebre il quieto inverno
si china poi sul tuo viso così vicino che non vedi più
Sono alcuni versi ripresi da Il Scappamorte nei quali, a mio avviso, emerge con significatività un riferimento alla sfera semantica del vedere.
In una società oculocentrica, quale quella nella quale viviamo, dove lo sguardo si è fatto gaze e ci si dimena tra active e passive vision, quale sono secondo lei gli occhi che possiamo imparare dalla poesia ad avere? L’arte poetica possiede ancora la forza per orientarci dalla superficie alla profondità?
Grazie per questa domanda, che mi dà occasione di riprendere il discorso più sopra iniziato e di completarlo. Quando uso il termine sinestesia come sfera ontologica del corpo-psiche, intendo, da un lato, che dobbiamo approfondire la riflessione sugli altri tre sensi – olfatto, gusto, tatto – e poi fare un passo ulteriore. Questi tre sensi sono ritenuti meno “nobili” dalla tradizione del pensiero che arriva a noi, ma l’olfatto, per esempio è forse il senso più profondamente radicato nel corpo, che per primo ci porta conoscenza dell’ambiente, delle cose, dei corpi. E dall’olfatto non è separato il gusto (abbiamo un “olfatto retronasale” di cui ci rendiamo conto quando abbiamo un forte raffreddore: ciò che mangiamo non sa di niente). Ma il gusto è anche tatto: viscido o croccante, liquido o pastoso. Non è un caso che il “gusto” sia diventato, proprio nel Settecento, la categoria estetica della modernità: il procedere del razionalismo, che avrebbe abolito la mitologia e privilegiato il sentimento sul “sentire”, tendeva a togliere di mezzo ogni “non so che”. Il tatto infine, il con-tatto. Sembra il senso dell’immediatezza, ma è il cervello che elabora le informazioni, come per gli altri sensi. Quando tocco, infatti, sono toccato. Quando tocco con le mani non è come quando tocco con le altre parti del corpo. Il dolore mi “tocca”. Come “tocca” una carezza, che vorrebbe portare via il desiderio-corpo dell’altro e torna “a mani vuote”? Ma non basta: a tutto questo, quando parlo di sinestesia, occorre aggiungere la propriocezione, ovvero la percezione di sé, secondo la quale io sono un corpo, sono in un corpo e ho un corpo. Sono qui seduto a scrivere, c’è un dentro e un fuori di me e ci sono le mie mani che scorrono i tasti. Non si dice, dopo essersi dati una martellata, “sono dolore alla mano”, ma “ho un male cane alla mano”, oppure “mi (a me) fa male la mano”.
Chiedo perdono per la lungaggine. Torno alla domanda: nel nostro modo di vivere attuale la comunicazione privilegia l’immagine (che non è il vedere, ma la cattura di un riquadro immobilizzato del vedere). La poesia dovrebbe riportare il vedere al suo legame sinestetico con il corpo-psiche, ritrovare, riaprire le facoltà percettive che sono fondanti la nostra esistenza. Nel mondo dell’immagine ormai siamo arrivati allo stordimento, a una specie di sonnambulismo: per questo anche esplorare con le parole i margini della veglia e del sonno fa parte di uno stesso compito, che la poesia si assume o dovrebbe assumersi, così come tutta l’arte. E questo compito è quello di riscattare la percezione e di darle parola, permettendoci così l’accesso a una dimensione del tempo che non è quella vorticosa e istupidente del trionfo del prossimo istante.
Telepatia (Lietocolle-Pordenonelegge 2016), a proposito di punti di osservazione, ha due focus: uno sul dolore e uno su gli Altri. Entrambi questi aspetti vengono sempre circoscritti a una sfera spazio-temporale ben precisa, come se dovessero essere necessariamente contestualizzati per potere esprimere a pieno il loro significato. Mi vengono in mente, tra gli altri, questi versi:
L’ho mai detto, io, ai miei,
agli amici, agli alberi, al cielo,
anche quando davvero potevo,
a qualcuno ho mai detto: “Sono felice”?
Mia figlia lo dice, senza pudore,
senza paura che qualcuno le invidi
la felicità, senza pietà per suo padre
che la stringe in silenzio e se dice “Anch’io”
poi deve correggere “in questo momento”.
L’amore e la parola sono capaci di andare oltre “questo momento” o l’iperpresente contemporaneo ha fagocitato anche il valore dell’attesa, l’utopia della progettualità, le nostre promesse di eternità?
È difficile essere sintetici, e già mi sono dilungato molto: diciamo che le risposte alle prime due domande sono una premessa a quanto tenterò di dire. Il tempo e la lingua sono consaguinei – uso, per brevità, questa metafora – e nella lingua abbiamo l’esperienza più profonda del tempo: nell’istante della sua pronuncia la parola dilegua. Quella parola che dice noi, gli altri, nel nostro e nello stesso tempo, ha solo il silenzio per risuonare ancora un istante. Ma la parola dice il tempo e il nostro essere tempo. E, nel tempo, noi possiamo ri-creare la parola, componendola in una forma che trattiene il tempo, lo amplifica, lo esalta. Quanto più il presente si fa iperpresente, prossimo istante già in fuga verso il prossimo istante, tanto più la parola poetica può metterci in una relazione “amorosa” con il tempo vissuto, ovvero in una relazione di appartenenza con gli altri e con il mondo. Il desiderio è qualcos’altro da un tiro al bersaglio, come pare che oggi si debba intendere. Oggi il desiderio pare riassumersi in un “voglio” questo o quello, un tragitto tra il desiderante e il desiderato da percorrere più in fretta possibile. Ma il desiderio sa qualcosa che sono e che non so di volere, e forse è diverso, o il contrario, di ciò che credo di volere. L’amore, la poesia, sono l’apertura a questa dimensione del tempo nel quale riconosco il mio desiderio senza che io possa identificarlo con un volere. Per questo nella poesia, come nell’amore, ci intratteniamo nel tempo, siamo ospiti del tempo e non soltanto dei soggetti in fuga nel tempo verso il prossimo istante.
In Il respiro e lo sguardo. Un racconto della poesia contemporanea (Bur 2005), attraverso una serie di concetti chiave, lei accompagna il lettore a una conoscenza nuova della poesia, o meglio, a una conoscenza che prova a usare in modo diverso alcuni degli elementi cardine che la riguardano e proponendo i testi di alcuni autori capaci, con i loro testi, di arricchire il viaggio.
Partendo da questo saggio e alla luce della sua lunga esperienza di insegnante e della direzione di Pordenonelegge, a cosa dovrebbero dedicare davvero attenzione e cura i giovani che oggi vogliono provare ad accostarsi alla poesia con passione e serietà? Su cosa devono tenere puntata la bussola?
“I giovani”… una categoria sempre più inafferrabile, sia dal punto di vista sociologico che esistenziale. Se restiamo nell’ambito della poesia, i “giovani poeti” negli anni ’70 e ’80 erano quelli tra i venti e i trenta anni; oggi mi pare che sia necessario collocarli tra i trenta e i quaranta. È la vita in generale che è cambiata in questi ultimi trent’anni. E soprattutto si è sbiadita quella potenza/stupore/inesperienza degli “anni di formazione” che fece scrivere a Walter Benjamin le stupende pagine di Metafisica della gioventù. Dall’inizio dell’Ottocento fino agli anni ’70 del secolo scorso, la “gioventù” ha corrisposto al mutamento della società e della storia, a una figura generazionale del desiderio e dell’agire. A me pare che oggi non sia più così. E sia tutto da ripensare. Nel rapporto tra “i giovani” e la poesia credo rimanga però valido il fondamento di iniziazione, la scoperta di una possibile altra dimensione dell’esistenza. Perché nella poesia c’è la promessa di una lingua più vera (e di una vita più vera). Di conseguenza, nella scuola e fuori dalla scuola, si dovrebbe credere meno in una trasmissione di contenuti e più in una condivisione di valori. Il che significa anche offrire la possibilità ai “giovani” di fare, di sbagliare, cioè, di praticare la realtà come loro la percepiscono, e non soltanto di replicare la realtà entro la quale noi (noi chi, i “meno giovani”?) siamo operanti. A volte ho l’impressione che i “giovani poeti” sbaglino troppo poco, si tengano entro un margine di azione che immaginano accettato, puntando tutto sulla comunicazione. Ma la poesia è “fare”. Ecco, mi piacerebbe che la bussola fosse puntata più sul fare che sul comunicare, vorrebbe dire più errore, più erranza, più realtà.
Due nomi e cognomi: Andrea Zanzotto e Pierluigi Cappello. Li ha conosciuti, li ha studiati, ne ha condiviso i luoghi, ne ha scritto.
Ce li vuole raccontare partendo dal testimone che le hanno passato, non solo a livello poetico ma anche umano?
C’è una differenza. Andrea Zanzotto era del 1921, aveva 38 anni più di me, Pierluigi Cappello del 1967, quindi ne aveva 8 di meno. Nel primo caso è stata la conoscenza di qualcuno che per me, attraverso la sua poesia, era già un maestro, e poi il magistero è diventato relazione umana, nutrita di quotidianità e di affetto. Quando ho incontrato per la prima volta Pierluigi Cappello era alle sue prime esperienze poetiche, mentre per quanto mi riguardava un mio ruolo riconosciuto ce l’avevo già, e l’amicizia è stata anche condividere con lui amicizie e relazioni, quella con Mario Benedetti, per esempio, tra le altre.
Ma veniamo al punto: da Andrea Zanzotto ho appreso che la poesia è non solo espressione di sé ma conoscenza attraverso l’esposizione e la riconquista di sé nella lingua. E che la lingua è la nostra sfera esistenziale più propria, anche nel suo senso ultimo, ovvero che all’origine di ciò che appare ai più ovvio – apprendere una lingua e abitarla – c’è un fatto meraviglioso e misterioso/tremendo qual è il pervenire alla vita e alla coscienza della mortalità. Per Zanzotto la poesia era sempre ri-creare quel miracolo della lingua, che lega corpo-pensiero-desiderio-mondo, rigenerandola dalla sua cristallizzazione in uso, gergo, abitudine. Però, e questo è un punto decisivo, mai dimenticando che uso, gergo, abitudine sono anche il nostro modo di fare società e civiltà. Allora è proprio la poesia, nel ri-creare la lingua e nella piena coscienza del suo rapporto con la convenzione, che ha il compito di ri-generare la comunità. Le riflessioni di Zanzotto sulla lingua, il dialetto e la poesia sono, a questo riguardo, di un interesse senza pari.
Da Pierlugi Cappello ho imparato – perché si impara sempre, anche dai più giovani, anche quando prevale su tutto l’amicizia – che l’esistenza, la vita stessa è mutamento. Non solo adattamento. E anche in questo caso, quale ruolo importante ha avuto la poesia! Pierluigi non si è “adattato” alla menomazione subita, ma aveva intrapreso con la poesia un itinerario di mutamento. Che poi è quello che la poesia dovrebbe offrire a noi e noi offrire alla poesia. Poi, da questa sostanza di poeta Pierluigi è stato anche un interlocutore per quanto riguarda la forma della poesia, il rispetto per la parola, la trasformazione della parola in “voce” poetica.
Vorrei spostare la conversazione sul discorso relativo a poesia e Rete, di cui Alma è attenta a raccogliere testimonianze. Sappiamo che il dibattito attuale si muove passando da una posizione all’altra, riassumibili in “la Rete sta rovinando la poesia” oppure “la Rete salverà la poesia”. In questa dicotomia, semplificatrice e banalizzante di un fenomeno ben più complesso, si intravede, però, una realtà indiscutibile e cioè che i nuovi linguaggi della Rete hanno avuto un impatto rilevante su quelli poetici, in termini di comunicazione, diffusione e, forse, anche su forme e contenuti.
Qual è la sua posizione a riguardo? Come vede il futuro della poesia in relazione alle sue interconnessioni con il Web?
Ogni innovazione decisiva sul piano della comunicazione ha conseguenze sul piano della forma poetica e della sua fruizione. È accaduto con la stampa una prima volta e poi, nel tempo, attraverso le sue successive nuove tecnologie. La “rete”, secondo me, è ancora in una fase di maturazione delle sue opportunità e, come accade in questi casi, all’inizio prevalgono i difetti. Anche di comportamento, per indicare l’esplosione di narcisismo che ne è conseguito, come anche il prevalere dell’astuzia comunicativa sul lavoro formale. Ma con le tecnologie va così: prima di dimostrare l’utilità esaltano la discontinuità e risaltano i danni. Ci sono due argomenti, il primo richiede impegno: tenere fermo che la “rete” non deve farci perdere il patrimonio poetico che possediamo, non tanto in termini di testi raggiungibili, quanto in termini di conoscenza e di esperienza della forma, di eredità. La transizione della tradizione poetica dalla carta alla “rete” andrebbe accompagnata con attenzione per far sì che non diventi una vera e propria interruzione. Il secondo argomento riguarda la differenza tra la “temporalità” del libro e quella della rete, ma non è qui il momento per affrontarlo. È forse sufficiente anticipare che, se il libro appare “mimare” la vettorialità del tempo, nel suo apparente e unidirezionale scorrere che si ripropone, da libro a libro, come la costruzione di un insieme orientato di discorso, la pluri-presenza, l’intermittenza, la contemporanea sovrapposizione possibile in rete di diversi discorsi, provenienti da tempi diversi, deve essere elaborata, per far sì che il fruitore non immagini di abitare tutto il mondo utilizzando poche vie di accesso: una libreria, una biblioteca mostrano l’unicità del molteplice e la molteplicità dell’unico, mentre lo schermo, in un certo senso, le nasconde mostrando una cosa alla volta e facendo credere che dietro di sé tutto è unico e molteplice in una sorta di indifferenza spazio-temporale.
Siamo nel 2020, eppure il dibattito intorno alla questione del gender in poesia sembra non essersi ancora esaurita: da una parte ci si continua a chiedere se, in effetti, la poesia possa averne uno o se, in quanto arte, prescinda da qualsiasi suddivisione a riguardo; dall’altra l’inevitabile constatazione della prevalenza di poeti uomini nelle antologie scolastiche e pure nel panorama poetico contemporaneo.
Anche alla luce della preponderanza che il tema del femminile sta assumendo nel dibattito odierno tout-court, come inquadra l’argomento e qual è la sua opinione a riguardo? Soprattutto, prevede un’evoluzione verso altre traiettorie per un futuro prossimo?
Il mutamento appare lento, ma procede inesorabile. Le voci femminili affermate e in via di affermazione sono anche di più, e spesso più interessanti, di quelle maschili, se parliamo di quest’ultimo decennio e di quanto appare in evoluzione. Per quanto riguarda il passato, per i secoli più lontani mi pare che il danno sia fatto: è difficile recupare testi e testimonianze. Per l’Ottocento e soprattutto il Novecento c’è invece molto margine per rivalutare figure femminili di rilievo. Faccia conto però che tengo per fermo quanto ha scritto Danilo Kiš: “Se un libro si legge solo perché parla di neri, degli ebrei, degli omossessuali, oppure, perdonami, delle donne, rientra in un tipo di letteratura che mi interessa poco o non mi interessa affatto; su questi temi preferisco leggere saggi scientifici, ricerche, opere documentarie”. Chiarito questo punto di vista, che significa che è il valore dell’opera che conta - e il valore non viene dato dall’argomento – finisco di rispondere alla sua domanda, che è più profonda: quale corpo-psiche operi all’opera d’arte è importante, con le sue implicazioni materiali, simboliche e sociali. Quindi la comprensione del proprium femminile o maschile (o di altri vissuti meno definibili con questa opposizione) è, e deve diventare, parte del nostro universo ermeneutico. Deve essere inoltre fondamento della libertà e della legittimazione che ognuno merita. Auspico che l’evoluzione avvenga in questo senso, e non nella rivendicazione di un contro-privilegio oppure un veicolo facile per l’ideologia e, ancora peggio, la chiacchiera.
La consuetudine delle interviste di Alma è quella di andare a frugare nei cassetti di ogni autore per scovare un inedito.
Nei suoi ne ha uno da condividere con noi? Gliene saremmo molto grati.
Tra le ultime cose che ho scritto prendo tre frammenti di un quasi-poemetto intitolato Ibisco:
Ibisco, non sei stato abbandonato
non insistere, non hai mai saputo
da dove vieni, e quelle foglie, quei fiori
nella bella stagione erano un fatto
che non hai compreso, e non mai.
Non arrenderti, è normale
tutto ’sto buio, le voci sempre più
lontane. Di quelle foglie,
di quei fiori, chi se n’è accorto?
E chi invece uno
o due ne ha strappati (non sai
neppure se li ha buttati o se n’è
ornato o li ha persi) è stato quello
il senso di tutto, il suo bello?
*
Hai creduto di sentire, era già tutto deciso, che tu credessi
di sentire, che chiedesse di te, che volesse da te una promessa,
no, non puoi dire che sei disilluso
o che sei stato deluso,
è più semplice: passa
via, tutto, è passato, sei
passato, e pieno di vita, adesso, nelle radici il buio,
il freddo, tu lo senti
il freddo?
“osso, lo so, io, solo osso - pòrtati via la bocca
vattene - solo materia
della terra, non cecità, non nulla”
*
“Ibisco, ci siamo toccati, siamo stati
lo stesso tempo, ma cosa sai della terra,
tu nella terra, che senti?
Le parole, le immagini
conoscono in me la materia
come tu sai di me se ti torco
il fusto, intiepidisco la scorza
con le mani, porto terriccio, grani
di potassio.
Un cane addenta
le tue radici nel buio, nel sogno
cresci sul mio corpo nudo.”
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