«In nessun luogo, in tutti»: recensione a "Di casa in casa" di Yael Merlini
I social pullulano di video che ritraggono persone impegnate ad arredare una casa, rendendola il più simile possibile a sé stessi, o comunque alla versione di sé che vogliono mostrare agli altri. Tinte inusuali per le pareti, scaffali dalle forme astruse, mobili ultra-moderni. La verità è che è molto più facile che le case che abitiamo non ci assomiglino affatto, ma che finiamo poi noi per diventare simili a loro col tempo, modellandoci sugli spigoli, adeguandoci agli anfratti. Una finestra sul mare in burrasca ti cambia in modo diverso da una affacciata su un piccolo fiume di campagna, dove la mattina si abbeverano le mucche. Di casa in casa (From home to home) di Yael Merlini, Arcipelago Itaca 2023, dà voce a questa realtà. Per rendermene conto però non mi è bastato leggere i versi che la raccolta contiene: mi sono dovuta imbattere nella biografia dell’autrice prima di accorgermi che l’idea che mi ero fatta della sua poetica era qualcosa di totalmente estraneo alla sua vita. E dato che per me poesia e vita non possono essere scisse, ho riletto la raccolta alla luce di quella biografia e ho ripensato immediatamente a un’altra poesia, di un’altra poetessa che recita: «I learned – at least – what Home could be». Un apprendimento lungo una vita, come quello di Yael Merlini.
Nata a Firenze nel 1968, laureata in Lettere Classiche, Merlini si è trasferita a Gerusalemme per il suo dottorato di ricerca in Linguistica Semitica e lì è rimasta fino al 2003. Nel 2005 si è trasferita in Germania e nel 2016 ha trovato una nuova casa dove vivere e lavorare, a Berlino. La sua vita, mi sembra di poter dedurre da queste poche righe in una quarta di copertina e da qualche foto recuperata online, è uno spostarsi di casa in casa, proprio come recita il titolo della sua raccolta. Ed io invece, leggendola una prima volta, mi ero fatta l’idea di una vita passata interamente in una casa sola, di cui ogni stanza è vissuta a fondo ed è resa del tutto simile a chi scrive, come lo sono quelle case che si vedono sui social.
Di casa in casa invece, come si scopre con una lettura più consapevole, abita luoghi diversi, in modi diversi, con lingue differenti. In ognuno di questi, però, la planimetria delle abitazioni è attentamente setacciata, come uno scandaglio dell’anima che segue – e non può che seguire - l’esplorazione dell’architettura dove l’autrice si muove, tirandosi dietro il lettore. La casa – singolare collettivo per le tante case che, apprendo dalla biografia dell’autrice, sono state sua dimora – è quasi sempre vuota, soprattutto nella parte centrale della raccolta. O meglio, le presenze vive ci sono, ma sono come «smarrite / tra le / porte». Ed è dopo questo smarrimento che i passi all’interno dell’abitazione si fanno sempre più felpati, andando incontro ai ricordi.
«Non ho una soffitta / ma un fratello / e mucchi di avventure / pigiati / tra il letto e l’armadio» racconta Merlini, prima di tuffarsi in un cassetto che mi sono immaginata zeppo di vecchi calzini e fazzoletti di stoffa. «a gambe incrociate / siedo / circondata da cassetti / piccoli e quadrati / lunghi, angusti / profondi, stretti e bassi / che non vedo / la fine / quando alzo la testa». Dai cassetti «volti / conosciuti / si sporgono», per tentare di liberarsi dalla trappola della memoria e riabitare quelle stanze, dove ora le presenze vive respirano dietro le porte chiuse, invisibili ma capaci di cambiare l’equilibrio delle stanze.
Non ci è dato incontrarle. Piuttosto, siamo soli e immobilizzati a ogni pagina che gira «mentre / scorrono sbiadite / le sequenze / di un film / muto». Merlini non illude: afferma e fa ciò che dice, trascinandoci nei meandri di queste case, che somigliano a palazzi di ricordi.
L’io poetico ha le sue collocazioni precise, in polaroid un po’ sbiadite che ci mostrano la poetessa ora seduta di fronte a una finestra, intenta a guardare il proprio riflesso nel vetro, ora accucciata su un soppalco, mentre ci osserva dall’alto come fanno i gatti, ora rinchiusa in un armadio, con i polpastrelli impiastricciati di parole: «mi ci accomodo / dentro e chiudo / le ante / a mangiucchiare / la carta zucchero / che mi macchia / le mani / e a declinare / idee, inosservata». I versi di Merlini però si concentrano su un ambiente in particolare delle case entro cui la poesia guida il lettore: la camera da letto. È qui che le parole riportano, con costanza, per tutta la raccolta, allontanandosi mano a mano dalla finestra oltre la quale si muove un mondo di «autobus in attesa» in qualche strada di Gerusalemme, dove si susseguono per le strade uomini e donne in cui Merlini riconosce qualcosa di sé, mentre li osserva.
Ma il mondo di diffidenze che sta fuori dall’uscio («scale occhi / mi osservano / ad ogni discesa / e salita») è tenuto fuori dalla porta, il rischio di lasciarsi trascinare nella vita di comunità, senza mai riuscire a trovare ciò che si cerca è grande. «Qualcosa / trovo / dietro alle / finestre» rivela Merlini, come a giustificare quegli sguardi gettati quasi di sbieco fuori di casa, prima di trascinarci ancora, di nuovo, all’interno, dall’altra parte del vetro.
Qui di notte il mobilio si risveglia come in uno spettacolo de Lo Schiaccianoci e tutto confluisce nuovamente alla camera da letto, quasi a dire che è inutile scandagliare il mondo esterno quando la casa stessa che abitiamo ci è estranea. O meglio, noi siamo estranei a lei. È per questo che il ciclone di poesia alimentato da Merlini è attirato sempre a questo centro di gravità, un punto denso dove il tempo si concentra e il passato si restituisce al presente, tra un sottopalco e un letto a cassapanca, girando su sé stesso per riconoscersi: «Di notte enumero / uno dopo l’altro / i sacchetti etichettati: / una testa senza capelli, / due cucchiai d’argento / un matrimonio / non mio, un orologio / a muro con una sola / lancetta // ché il tempo / dentro il letto / a cassapanca / è circolare, / mi spieghi».
Nell’intimità della camera dove l’io si abbandona, la parola ha finalmente senso di esistere, di prendere dimora e ricomporsi sul foglio. L’identificazione tra l’io che abita e la casa che ospita è così totale: Merlini si riordina come si farebbe con un frigorifero, si veste di frasi da inzuppare nel caffè, cerca rifugio in una cucina dove trova «solo / avanzi, / pasto rimasto / tra i denti», è triste come i muri che trasudano, salati i suoi occhi sono una ferita, lei si sente ammuffita come qualcosa di dimenticato, smezzato, come una poesia. Sono gli oggetti stessi a prendere vita, per riflesso della vita di chi scrive: le stanze dove si trovano accolgono senza respingere la parola poetica, là dove pare non ci siano esseri umani disposti a farle spazio. La parola resta però, in questa solitudine apparente, l’unica congiuntura possibile con l’altro. Un germoglio che nasce nella penombra di una stanza ma spinge le gemme a picchiettare sulla finestra, a uscire nel mondo, in quella Gerusalemme affollata che è impossibile mettere completamente su carta.
Sulla scia di questo germogliare il “tu” che era comparso all’inizio della raccolta per rinchiudersi poi dietro misteriose porte, torna a fare capolino ed è premessa di partenza: «tu ed io / senza doglie / abbiamo traslocato / paesi / riordinato dimore / sorvolando i confini / della parola-scambio». Lo spostamento, il trasferimento, che avrebbe tutte le caratteristiche per farsi doloroso come un parto, grazie a quel “tu” riesce ad avvenire senza doglie, riuscendo a mettere in atto fuori dalla casa quella fine di esilio che la parola poetica aveva già promesso su carta. È proprio quel “tu” che insegna a Merlini a vivere nelle distanze e non più nelle stanze. Finalmente si esce: «io a cercarmi / nell’umidità della strada». Finalmente non si è più corpi tra gli oggetti, ma corpi tra corpi e il tempo riprende a scorrere, lontano dal buco nero che si era formato nella camera da letto senza suoni: «Con le mani appiccicose / di polvere mi asciughi / le lacrime rinsecchite / e le mettiamo via / nel fazzoletto di trina / a contare gli anni». E mentre la vita scorre, fuori, e si allontana verso altre dimore, altri letti, altri armadi, la casa di prima crolla come fanno, nella mia immaginazione, certi ricordi quando vengono archiviati accartocciandosi su sé stessi: «In sequenza / si chiudono / le crepe / tra le stanze allineate, / muri / caduti a pezzi / e pareti / senza contorno. / A noi sta decidere / chi essere / e mi imprimi / nelle pupille / la direzione».
Solo adesso, finalmente, Merlini può dirsi Zuhause – in una lingua, il tedesco, che lascia indietro le strade affollate di Gerusalemme e spalanca le porte di Berlino - ovvero a casa. Come Emily Dickinson, anche Merlini ha imparato alla fine cosa possa essere una casa: non un luogo da esplorare, ma tutti i luoghi dove esplorarsi. Perché è difficile che i progetti di una vita intera possano essere ricomposti entro una sola planimetria. «Io cerco / il mio zuhause / in nessun luogo, in tutti / cerco il coinquilino / del mio essere, / intimo arredamento / di colloqui / illimitati».
Yael Merlini è nata a Firenze nel 1968 dove ha completato gli studi in Lettere Classiche. Per il suo dottorato di ricerca in Linguistica Semitica si trasferisce a Gerusalemme e vi rimane fino al 2003. Nel 2005 si trasferisce in Germania e dal 2016 vive e lavora a Berlino. Membro attivo di "Ze Kollel" una risposta europea inclusiva e sovversiva allo studio tradizionale della Torah, che dà vita a nuovi e radicali commenti Talmudici, è anche membro di Yiddish Berlin, incontri poetici e culturali in yiddish. L'ultima pubblicazione in versi Di casa in casa (Arcipelago Itaca, 2023), con la quale aveva vinto vince l´8a Edizione del Premio Nazionale Arcipelago Itaca nella sezione opere inedite 2022.
Comentários