«Il nostro canarino è tenace»: recensione ad "Appese a un chiodo ma vive" di Alessia Bettin
Il mondo è finito e noi lo guardiamo avvicinarsi al suo tramonto mentre i versi di Alessia Bettin diventano quadri che escono dalle nostre pupille ribaltandosi sulla realtà. Le poesie raccolte in Appese a un chiodo ma vive (Puntoacapo, 2023) guardano giù dal precipizio costruendo il panorama intorno a sé con versi che sono come sferzate del pennello di un pittore surrealista, la cui abilità non sta nel rappresentare ciò che esiste ma ciò che egli è capace di scorgere nel reale.
In un accumularsi di oggetti che sono scarti e macerie, Bettin costruisce montagne sempre più alte da cui osservare le cose nel loro insieme; eppure, questo processo di continuo accumulo le permette al tempo stesso di nominare, indicando con dito fermo ogni cosa che entra nel regno della poesia, senza generalizzare mai. Non c’è niente di astratto nel surrealismo di Bettin: una giovane famiglia è colta da una finestra vicinissima ai volti mentre la poetessa si arrampica sulle sue pile di macerie. «Seduti sul divano / la cucina in ordine / l’iphone in mano / il fornello lucidato con l’acido citrico / la moka rossa sul piano di lavoro in quarzo / il cucciolo di jack russell / il bambino che dorme nel letto / guarderemo con ingenuo ottimismo / a nuovi terzi / come possibilità».
Quello che succede è che Bettin è immersa nell’oggi di cui parla dall’esterno, vittima a volte proprio di quel vizio che la sua poesia denuncia con più forza: l’incapacità di rinunciare a qualcosa, di focalizzare un punto soltanto a discapito degli altri, di essere in un luogo e non in ogni dove. La tensione alla fagocitazione del mondo è controbilanciata però in diffuse occasioni dall’istinto, questo sì altro rispetto al mondo d’oggi e tipico del poeta, di far parlare non la realtà ma l’immagine che essa offre al singolo: sono le piante con il loro sorgere spontaneo e selvaggio («c’è un ulivo secolare / al centro della rotonda / potato a morte […] inutile saggezza / dei nodi del legno / i metri di altezza»), i colori improvvisi, il bianco del latte, della biancheria, delle stelle, dei morti, delle bare, delle scarpe («Stella bianca si scioglie / nella vasca da bagno / bara bianca / sotto il sole d’agosto»), il giallo di un becco, il rosso di un cuore «instagrammabile», tutti elementi che contribuiscono a posizionare le parole più in alto rispetto al mondo di cui sono eco. Non serve cercare un senso e infatti la poesia di Bettin sfugge tanto alle leggi della sintassi quanto a quelle della logica, basta invece dare una luce entro cui guardare alle cose del mondo con occhi non velati dal fissare troppo a lungo uno schermo, denunciando che ancora è possibile - e doveroso - farlo: «abbiamo occhi disabituati alla luce / qui esplosioni e crolli sono all’ordine del giorno / viviamo disordinati / ma il nostro canarino è tenace / nero di fuliggine continua a respirare».
Torniamo però per un attimo alla pila di macerie, disordinati scarti di questo mondo che produce senza sosta e dimentica: Bettin li raccoglie e se li mette sotto i piedi non per schiacciarli ma per crescere, diventare più alta, ampliare la visuale, concretizzare la parola. Per questo prendere dal mondo tutto ciò che c’è la sua è una poesia, come nota nella prefazione all’opera Mary Barbara Tolusso, dalla «vena ossimorica», una vena, si aggiunge, che «tende a conciliare gli ossimori […] Riesce a conciliare elementi antitetici, taglia il surrealismo con una buona dose di minimalismo, il sogno è un codice che usa spesso». E sempre per questo quella di Bettin è anche una poesia densa di ritmo. Funziona così quando si cammina in salita: occorre tenere un passo cadenzato, altrimenti il fiato viene presto a mancare.
«i carbo, le prote, la giornata veg / lavoro in multifrequenza / i glutei contratti nei leggings / i tacchi di plexy / nel posing l’indice fa curve nell’aria / ricorda movenze circensi solfeggi», raccontano versi di un’altra vita spiata dalla finestra mentre la montagna di scarti fuori dal palazzo cresce e la poetessa sta saldamente afferrata ai suoi spigoli. Non butta via nulla, Bettin, non fa tabula rasa per imporre la propria visione al mondo, ma prende tutto quello che dal mondo arriva e lo consegna senza fronzoli alla pagina. Raccoglie e fa fiorire ciò che è marcio e sfiorito, solo che non può nemmeno fare a meno di leggere questo mondo, prima di scriverlo.
Così «l’uomo di potere» diventa una creatura scarafaggio di kafkiana memoria («i suoi bisogni vengono prima / mangia briciole dal pavimento / si pulisce i denti con le unghie / lancia gomme masticate addosso»). Così, ancora, il cielo diventa una storia («guarda ha il sorriso dello stregatto la luna / promette bene / e non importa se l’ultima falena va a morire / fra le stoviglie sporche»). Così è possibile scorgere «sangue ossa parti molli / tra vetri esplosi / i tulipani rossi»).
Infine, tra i tanti volti accumulati, nell’accozzaglia di ciò che resta quando il mondo sta per finire, si trova qualcosa cui si è stati simili in un tempo non necessariamente finito. Per Bettin è «la ragazza Luisa», protagonista indiscussa della sezione “Le cubature falle vegetare”, che ancora una volta non generalizza affatto la condizione femminile in questo apocalisse intravisto, ma piuttosto è individuo con esigenze specifiche, i cui riflessi però sanno dare vita a un volto che è dell’autrice tanto quanto potrebbe esserlo della lettrice.
Luisa è come chi scrive “appesa a un chiodo ma viva”, ovvero, come recita l’originale detto veneto Tacài a un ciodo, ma vivi: salva per miracolo, sopravvissuta. Una giovane donna, un’amica, forse qualcuno che possiamo scorgere dall’alto della nostra pila di macerie abbarbicata a un’altra montagna di scarti, qualcuno con cui possiamo condividere le idiosincrasie di questo tempo in parte reale, in parte online, in parte riscattato, in parte – troppa – ancora soggiogato. Con Luisa e Bettin sogniamo di poter scendere un giorno, dopo aver trovato la nostra via tra ciò che resta, di poterci stringere la mano nell’essenzialità di un campo di fiori, non più appese a un chiodo, finalmente vive: «rimettiamo un vecchio pozzo in giardino / con le rose rampicanti di tanti colori / la griglia di protezione per i bambini /chiamiamoci da una parte all’altra della siepe / da montagna a montagna».
Alessia Bettin è nata a Padova nel 1982. È laureata in Lettere e in Scienze dello spettacolo e della produzione multimediale. Ha vinto diversi premi letterari, tra cui il premio Esordi 2020 Pordenonelegge, il premio di poesia Coop for Words 2018, il premio speciale del presidente di giuria Bologna in Lettere 2019 per la poesia inedita e il premio Action4Land 2021 Seven Blog. Ha pubblicato la raccolta di poesie Ci aspettano estati tropicali, presente nell’ebook ESORDI I 2020 (Pordenonelegge, 2020). Nel 2019 ha frequentato la scuola di scrittura Bottega Finzioni. Alcune sue poesie sono apparse su blog e nella rubrica di Repubblica “La Bottega della poesia”. Appese a un chiodo ma vive (Puntoacapo Editrice, 2023) è la sua raccolta di esordio.
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