«Non erano affatto nostri»: recensione a "Cronicismi" di Antonio Vittorio Guarino
«A differenza delle altre malattie la vita è sempre mortale. Non sopporta cure. Sarebbe come voler turare i buchi che abbiamo nel corpo credendoli delle ferite. Morremmo strangolati non appena curati». Così scriveva nelle pagine conclusive del suo romanzo Italo Svevo, riflettendo sul concetto stesso di malattia, e di sanità, e sull’incurabilità di un male che è insito nella natura stessa dell’uomo, e perciò impossibile da eradicare. Ora questi Cronicismi di Guarino, usciti per Oèdipus proprio sul finire di quel 2020, che non stenteremmo a definire come l’annus horribilis del nuovo millennio, a un secolo pressoché esatto dalla pubblicazione di quel libro, paiono contenere almeno un riverbero della conclusione a cui giunge Zeno, e Svevo, sul finire di quel diario che consegna al Dottor S, rinunciando però ad ogni ulteriore terapia.
Sarà che il termine “cronicismo” ha a che fare parecchio con il lessico della malattia, sarà che se pensiamo a un fenomeno, a uno stato, a un malessere che si cronicizza e si ripresenta costante, non possiamo che concludere che la vita stessa dell’uomo è una serie ininterrotta, e compatta, di cronicismi, e in ciò esiste una consonanza, almeno sotterranea, con quanto scriveva Svevo.
Guarino, tuttavia, ben sa che alla radice di quel malessere che ci portiamo dentro da sempre, c’è proprio la consapevolezza della nostra finitezza, della nostra mortalità e ancor più, la percezione stessa del tempo che ci scivola addosso, dell’inafferrabilità delle cose, del presente, dell’impossibilità stessa di concepirlo quel presente come categoria di pensiero, come dato.
In questo senso la macchina fotografica, lo scatto che ci immortala – con tutto lo strascico di significato che già questa parola contiene – che Guarino ci racconta nelle prime pagine di questo libro, ha un valore quasi fondante e suona come una messa a fuoco di quel senso, che tenterà faticosamente di agganciare dopo. «Ci piace fare i morti, gli eterni, i presenti /ricordi che svaniranno al prossimo aggiornamento di memoria» scrive, e in quell’enjambement c’è tutto lo scivolamento delle cose, il confine incerto e inconsistente tra il “prima” e il “dopo”, mentre le foto mentono, ci dicono solo uno stato che non è realtà, ma una falsificazione delle cose, come la tazzina, ritratta in primo piano, che non sa trattenere il sapore delle labbra che l’hanno accarezzata. L’idea che le cose, poi, vivano una vita propria, che non ci appartengano, come gli oggetti nelle foto che forse si parlano sulle pareti, quando non ci siamo, si intravede in trasparenza nelle pagine di questo libro: la consapevolezza che non è sufficiente toccarle quelle cose, sfiorarle con i sensi, vederle, che tutto in qualche modo esiste fuori di noi, e per certi versi ci sopravvive, e che esiste una distanza incolmabile tra ciò che le cose sono e il nostro modo di sentirle. «Non erano affatto nostri», scrive Guarino in un titolo quanto mai evocativo, come a dirci che le cose che pensavamo ci appartenessero in realtà non le possedevamo, come la lucertola e la sua coda, appena recisa, sono «estranei l’una all’altro, ignari di essersi un tempo / appartenuti». Non basta allora toccare le briciole di pane sulla tavola, lasciare che si appiccichino alle nostre dita, non serve uscire fuori, abbandonare le pareti della nostra stanza, tentare di riappropriarci di quel mondo che sta al di là della nostra finestra e che il sole appena lambisce, non serve neppure la “cura” della poesia, il verso che resta chiuso dentro al libro che teniamo stretto tra le mani mentre camminiamo alla ricerca di una panchina, di un approdo, perché la realtà non ci appartiene, non possiamo penetrarla, averla intera, perché tutto è perso un attimo dopo.
C’è tantissimo nella parola di Guarino, c’è la straziante consapevolezza della nostra precarietà, c’è l’indefinibilità delle cose e la fallibilità stessa della parola, le sue imperfezioni. Eppure la sua scrittura si muove come una macchina da presa tra i palazzi, tra piazze semideserte in cui le voci cadono, e si attutiscono, in un piano sequenza lungo e lacerante che pare racchiudere tutto in un solo sguardo, racconta dall’interno, dagli anfratti della nostra coscienza, si stringe sul particolare, sul dettaglio, scivola nel buio del passato. Perché quella lente, per quanto deformata e deformante, è tutto ciò che ci è stato dato per raccontare noi e il mondo, e la prossemica del nostro esserci, in quel mondo.
C’è infine la nostalgia di quell’unità che inseguiamo da sempre, di tornare a essere monade, di rimettere insieme l’intero e cancellarne le fratture, come quando, bambini, provavamo ad aggiustare le zampette dell’uccellino con lo stecco di legno del ghiacciolo. C’è la sensazione di essere in bilico, costantemente, come i piatti in equilibrio precario, come i ragazzi sul bordo della fontana, che camminano, cercando di non cadere nell’acqua. E c’è in fondo lo stupore di esserci e di essere vivi, perché alla fine «[…] non sappiamo, ma sentiamo / che c’è una musica», e quella “musica”, in qualche modo, ci riguarda.
Antonio Vittorio Guarino, nato a Napoli nel 1985, vive ad Avellino. Si è laureato in Filosofia presso l’Università degli studi di Napoli “Federico II” con una tesi sulla nozione di lavoro in Simone Weil, da cui poi è stato tratto il saggio SimoneWeil. Tra riformismo e mistica del lavoro, pubblicato sulla rivista Segni e Comprensione (Università del Salento). Attualmente è borsista presso l’Istituto italiano per gli studi filosofici. La sua produzione poetica consta di diverse sillogi: La Vita Beota (Ed. Il Foglio Letterario, 2009), La caduta dalla giovinezza (Onirica edizioni, 2011), La costellazione dell’assenza (Fara 2016), opera vincitrice del VI concorso nazionale Faraexcelsior, e Cronicismi (Oèdipus, 2020). Alcune sue poesie sono presenti su antologie, riviste e siti web.
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