«I segni che lasciamo si prolungano nel tempo per entrare in altre menti»: recensione a "Natura" di Roberto Cescon
Il mondo esiste esattamente come è percepito dalla nostra mente oppure, come tale, esiste unicamente dentro di noi, al punto che ogni individuo non ha che da accettare la propria irrisolvibile solitudine? «[…] ma la mia mente ora chiede un corpo, / si protende con le dita al tuo silenzio / e ti chiama mentre accadono cose, / ma davvero accadono fuori?». L’interrogativo che dà slancio alla raccolta Natura di Roberto Cescon (Stampa 2009, 2023), opera candidata al Premio Strega nella sezione Poesia, è una promessa rara e dalla soddisfazione inattesa. La promessa, cioè, di trovare risposta alla domanda da cui tutto ha inizio, che è poi una domanda di lunga data, nel dibattito della filosofia teoretica. Astratto solo in apparenza, il quesito di Cescon è in realtà dei più banali per l’esistenza quotidiana di ciascuno, filosofo o meno: quante volte, di fronte a un avvenimento o a una conversazione, non si può fare a meno di pensare “ma solo a me sembra che le cose stiano proprio così? Son matto o è la realtà questa?”.
Cescon nei versi iniziali della sua raccolta esplora con minuzia i sensi tramite cui l’essere umano esperisce il mondo, in maniera istintiva. I suoni, gli odori, le cose che non si vedono ma si percepiscono e consentono al pensiero di prendere forma e dare così forma al mondo sono però solo una prima modalità di accesso all’esistente, ovvero a ciò che sta attorno a noi. «Attorno a te esseri antichissimi / partoriti da millenni, millenni di volte» scrive Cescon per collocare sé stesso e il suo lettore in un qui e in un ora che hanno una storia, una lunghissima storia, e che quindi ci permettono di riconoscerci in qualcosa che esiste. Scrive infatti ancora: «Tu sei questo corpo che spicca dalla terra / quando senti il profumo / di un dolce dal forno per l’indomani / magari sotto un porticato, d’estate… / ma dove vuoi andare / che qualcuno ti tira sempre giù… / Potrei dire che tutto accade / nel tempo in cui viviamo, ma è lo spazio / delle tue parole che fa diventare tempo / lo spazio tuo e degli altri». La sensazione è dunque l’approccio con cui ci si muove nel magma della realtà, ma come immediatamente emerge dai versi è poi solo tramite la parola che è possibile passare dall’esperienza dell’altro a una sua verosimile conoscenza. Quest’altro di cui si parla in Natura è qualcuno che dapprima ci si fa incontro in un intreccio di odori, suoni, sensazioni e contatti, ma del quale i sensi restituiscono una possibilità di relazione estremamente incerta. I sensi con cui percepiamo l’altro sono in fondo nostri e nostri soltanto, come si può allora essere sicuri che chi ci sta di fronte sia davvero tale quale sembra a noi? «Gli altri, fatica immane / di stanarli, sempre sull’orlo / di una risata di spilli / nel mentire frugano la verità / o una promessa di avvenire / tra incompiute stanze». Quasi a dire che di chi ci sta di fronte scorgiamo un occhio che vede, ma non vediamo davvero ciò che sta osservando, o come lo sta osservando: è questo il muro impenetrabile di elaborazione dell’esistente che sconforta il poeta. Eppure, per quanto fallace, la percezione fornita dai sensi è per Cescon un’ancora imprescindibile, che ci mantiene presenti a noi stessi e ci riporta in quel qui ed ora già individuato («e la ruspa e le voci di operai / sono entrate nel silenzio della mia»), impendendo che la nostra esistenza resti puro pensiero imprigionato nella solitudine di una mente.
Come uscirne dunque? Il primo suggerimento che si trae dalla raccolta è quello di affidarsi al suono, ma non un suono qualsiasi, bensì la voce (sono le «voci di operai» a destare il poeta dallo sconfinare del suo pensiero), ovvero il mezzo di trasmissione principe della parola. È la parola infatti, nella poesia di Cescon, a rivestire il vero tramite di costruzione di un mondo al di fuori della limitata elaborazione che ciascuno produce da sé, col proprio pensiero. Parola che diventa innanzitutto poesia, ovvero rete capace di acchiappare le sensazioni del poeta e avvolgerle, filo per filo, stringendo l’uomo alla natura pulsante delle cose che accadono, che gli accadono. La parola di Cescon è una voce condivisa, con un suono diverso da quella individuale dei pensieri, capace di sentire ciò che gli altri in altro modo sentono: le parole poetiche si diffondono fuori da chi le pronuncia/scrive, per diventare altrui ricordando proprio a chi le pronuncia/scrive del mondo che esiste al di fuori della mente. «Ma poi torna, roditore certosino, / e mi tiene nel gorgo / perfino quando taglio la verdura / o devio gli occhi mentre parlo con qualcuno / ché qualcosa continua a risuonarmi / perché la vita era lì, fuori». È parola che diventa cosa, o meglio connessione tra le cose e le persone: «Albero, lo dico e appare / nella mente di chi ascolta. / Fosso, bisonte, cuscino e ancora / l’aria mossa dal segnale si fa evento. / Potente questa cosa».
La parola tutto cambia nell’esistenza del poeta perché se è vero che «il vissuto muta nella mente», come più volte suggerito quando l’io parlante si trova a guardare, osservare, toccare il mondo, è vero anche che il linguaggio lancia una fune che lega e fissa quel vissuto cangiante a qualcosa di antichissimo e stabile, che sta fuori di noi ma che tramite la verbalizzazione ci raggiunge e ci inserisce in un flusso storico inalienabile. Scrive Cescon: «[…] la vita là fuori / viene da prima delle forme / e non da te che la prolunghi nei futuri / decine e milioni di anni prima / un baleno se pensi / al tempo vasto che non vedi / di pietre che si fanno ossa / e poi sabbia e corpi e foglie».
E infatti, accanto alla poesia, sono la primordiale origine del linguaggio e le sue successive evoluzioni a diventare protagoniste di Natura in una seconda parte della raccolta, dove i versi lasciano il posto alle prose poetiche. La guida, dapprima, sono i verbi che ancora una volta richiamano il mondo della percezione: sentire, tendere, muoversi, ma curiosamente anche mentire, utilizzo specifico della parola che apre al linguaggio come mezzo di esplorazione del mondo accanto ai sensi. È l’incanto della parola che permette di conoscere l’esistente, incanto che emerge da storie antiche e leggende primordiali, dove tra tartarughe e Arunta australiani, tornando indietro nel tempo al Medioevo o viaggiando verso l’isola di Tabar, con canoe e delfini rosa, il racconto dipinge modi di sentire condivisi, che, proprio come la poesia, spezzano le solitudini singolari di quei mondi che si creano nelle nostre menti. All’incanto della parola segue difatti l’ex-canto, una narrazione che esce, diventa tradizione e si espande alla materia, «soglia del mondo immaginato».
Si arriva così alle incisioni rupestri, più volte evocate anche in precedenti componimenti della raccolta, che Cescon cita con minuzia archeologica, indicandone il luogo di ritrovamento (La Pasiega, Blombos Sudafrica, Diepkloof, Gilf el-Kebir, Chauvet, Grotta dei Cervi a Porto Badisco e il caso unico nel suo genere dell’isola Olkiluoto, in Finlandia, dove le incisioni sono ancora tutte da realizzare), la particolare tipologia di roccia su cui sono realizzate, gli strumenti impiegati e di ognuna offre un lampo di visione. Ma a contare è soprattutto il significato che esse rivestono per l’intera storia dell’umanità, tale è il loro ruolo nell’evoluzione del linguaggio umano: «Ovunque, nel mondo, gli stessi segni, già nelle cose, sono storie uscite dalla mente che vede con le mani. Noi guardiamo indietro il loro guardare avanti lo stesso tempo». Uscite dalla mente, fuori: è la stessa esternalizzazione ricercata a lungo nei versi che precedono queste prose poetiche e che in queste incisioni trova conferma di un fatto, ovvero che la parola è l’unico modo in cui l’uomo possa uscire da sé stesso e guardare al mondo non più con sguardo unico, ma universale.
È questo lo scarto che porta alla felice conclusione della raccolta di Cescon, una complessa opera di studio e meditazione, che dall’insistente voce della poesia giunge alla parola che traccia la storia dell’umanità e che risponde al quesito da cui i versi prendono il via. Entrando nelle grotte dove i nostri antenati incisero stelle e bufali nella roccia, garantendo al racconto il sapore dell’eternità, svanisce il timore di vivere rinchiusi in singolari solitudini affette da percezioni troppo relative, che il linguaggio riesce a legare in una vita organica e condivisa. Una vita che nella poesia e nelle pagine dei libri, come nelle grotte delle incisioni rupestri, torna indietro a noi ed elimina il tempo passato, riuscendo già per incanto a prolungarci nel futuro. Altro non è che l’incanto del linguaggio, capace di sciogliere le solitudini, perché nato in comunità, finalizzato alla comunità, propagato alla comunità che sarà, dal momento che all’uomo solo nulla varrebbe il dono della parola. E dunque, davvero il mondo esiste così e solo così come si mostra alla nostra mente? «Un inganno, non pensarlo / è più forte di te, che la mente / non sia fuori, tra i viventi. / Questo bosco, per esempio: sei sicuro / che quel prato sia fuori dalla mente / del cervo? O la mente di quel cervo / non sia anche dentro l’erba?».
Roberto Cescon è nato nel 1978 a Pordenone dove vive e insegna. Ha pubblicato Vicinolontano (Campanotto 2000), Il polittico della memoria. Aspetti macrotestuall sulla poesia di Franco Buffoni (Pieraldo 2005), Disabile chi? La vulnerabilità del corpo che tace (Mimesis 2020) e Di tutti e di nessuno. Una poetica della specie? (Industria & Letteratura 2022). Suoi racconti sono inseriti nell’antologia Scontrini (Baldini e Castoldi 2004). Nel 2010 esce, per Samuele Editore, il volume di poesie La gravità della soglia. Seguono le raccolte La direzione delle cose (Ladolfi 2014) e Distacco del vitreo (Amos Edizioni 2018).
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