«Ho voglia di cose buone»: recensione a "Tempo d'opera" di Alberto Toni
Un libro postumo, come è Tempo d’opera di Alberto Toni, uscito per Il ramo e la foglia edizioni nell’estate di questo 2022, suscita sempre un certo clamore e innesca una discussione che spesso si spinge al di là dell’oggetto in sé, rinviando a finezze di carattere filologico, a questioni morali, a dubbi sulla liceità dell’operazione stessa, che resistono in sottofondo anche quando, come in questo caso, a consegnare alle stampe quanto era rimasto nell’ombra è un profondo conoscitore dell’opera del poeta, nonché un critico avvertito e, in ultimo, un amico che tanto ha condiviso con lui e che certo saprà tributargli il rispetto dovuto. Ci si aspetterà poi un qualche lascito da parte dell’autore, un testamento in versi che chiuda idealmente quel macro libro che ogni poeta della statura di Toni ha saputo costruire nel corso degli anni. Ma il punto è proprio questo, come già lascia in qualche modo presagire il titolo: l’ “opera” possiede un tempo proprio, una sua dimensione, non patisce le cesure, gli accidenti, i malanni che affliggono noi in quanto uomini, l’opera non muore e, se è vero che questo è un libro postumo, ogni libro a suo modo è postumo nella sua capacità di sopravvivere a chi l’ha scritto, di rigenerarsi, di gettare radici che andranno oltre la morte, la nostra. Se di tempo si vuole parlare, e d’altronde è il poeta stesso a dichiararcelo, occorre guardare al tempo con lo stesso splendido stupore di Alberto Toni che a quel suo tempo instabile, franante ha saputo sostituire il tempo della parola, del gesto della scrittura, dell’arte che torna, quasi per incantesimo, a rivivere e a farsi carne nella sua poesia in un dialogo incessante che include tutto e che annienta i confini. Non a caso la dimensione del sonno, e del sogno, pare avvolgere tutto il libro, un sonno che non è resa alle voci che ci assediano, ma piuttosto un ritrovare nell’ombra, nel buio, quello spiraglio di luce che ci riscatti, quella traccia, quella «temporanea via d’uscita», che ci riconsegni al mattino dotati di nuovi occhi, di una nuova vista.
È vero, nella notte i cani latrano, si sgolano fuori dalla nostra finestra eppure esistono voci altre, esistono semi da coltivare nel buio, esistono betulle da guardare al risveglio sotto una nuova luce, esiste il miracolo di un giardino che vive una vita propria, che ci sopravvive con il suo tempo che in fondo non ci appartiene.
Stupisce in questo libro, più che altrove, la compostezza della poesia di Toni, la lentezza della sua parola che verso dopo verso pare avvicinarsi alle cose, costruire quel dialogo che diviene fitto e denso solo dopo aver preparato la pagina, la parola. Quest’approssimarsi è già percepibile nella lingua, nell’uso delle iterazioni che, almeno nella prima parte, paiono una messa a fuoco, fino a quando il tono si fa secco, distinto ed entrano i tanti echi dell’arte figurativa del Novecento, della scultura così amata, i frammenti di quelle letture assimilate e digerite che si amalgamano e sovrappongono alle proprie voci, alle proprie occasioni, alle tante presenze diafane che si insinuano con levità dentro un affresco che si fa, pagina dopo pagina, più intenso fino far divenire incerto il confine tra il sonno e la veglia, tra il presente e il passato, tra l’esserci e il non esserci.
In fondo l’ homme di Giacometti possiede quella fragilità che appartiene al poeta, e alla fine è un po’ anche la nostra, gli Igloo di Merz, spogliati fino a rivelare lo scheletro, ci dicono tanto del mondo che abitiamo e crediamo di possedere, come la colonna di Brancusi ci racconta di quella tensione verso il cielo che ostinatamente continuiamo a coltivare, nonostante tutto.
Questo libro ci dice tanto della vita di Alberto Toni, più che della sua morte, del suo modo di vedere, di percepire e misurare quello spazio in cui tutti siamo solo ospiti di passaggio per poco, ci dice tanto del suo modo di concepire la scrittura come un continuum e della necessità di dire, non di affermare o di imporre attraverso la parola, come tanti che maneggiano la poesia hanno ancora la presunzione di poter fare.
«Nell’ora del crepuscolo ho voglia di cose buone» scrive, quasi sul finire di questo libro, e quel buono che ha saputo restituire a una nuova luce, mentre la luce si faceva rada e sottile, pare oggi più che un lascito, un viatico di cui tutti dovremmo ringraziare, prima ancora che come poeti, o lettori, come abitanti, o ospiti, di questo mondo.
Alberto Toni (1954 – 2019) è vissuto a Roma, dove ha insegnato materie letterarie nelle scuole. Ha esordito come poeta nel 1987 con la raccolta La chiara immagine (premio L’isola di Arturo – Elsa Morante), a cui sono seguite Partenza (1988), Dogali (1997, premio Sandro Penna), Liturgia delle ore (1998, premio Eugenio Montale), Teatralità dell’atto (2004, premio Pasolini), Mare di dentro (2009), Alla lontana, alla prima luce del mondo (2009), Democrazia (2011), Vivo così (2015), Il dolore (2016), Non c’è corpo perfetto (2018). Una scelta delle sue poesie, Selected Poems 1980-2010, è apparsa in traduzione inglese negli Stati Uniti (2014). Ha pubblicato inoltre alcuni libri in prosa: Con Bassani verso Ferrara (2001), Quanto è lungo il sempre (2001), L’anima a Friburgo (2007), Livorno (2016). Come critico letterario ha collaborato a numerose riviste e periodici e ha scritto testi per il teatro.
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