Gli inediti di Matteo Persico
Gli inediti di Matteo Persico qui proposti si allungano ben oltre la superficie occupata sulla pagina, poiché la riflessione che smuovono, e che interessa il personale e il sociale assieme, si prende una buona parte di spazio del nostro tempo. Persico affronta, con toni altamente e giustamente critici, la condizione lavorativa e comunitaria dei giovani di oggi, riferendosi alle attività che si trovano costretti a fare per mantenersi, per rimanere al passo coi tempi, per stare in qualche modo dentro quella bolla dalla quale, poi, vogliono fuggire. La capacità di Persico di inserire termini che la comunicazione attuale ha reso respingenti («Teams», «Proteine», giusto per citarne alcuni), insieme al sapiente uso dell’ironia, conferisce a questi testi un potere altamente propositivo e reattivo, nonostante essi descrivano una stasi corrosiva dove non resta che dire «ci si vede domani, come che sia.».
I.
Che a ventisei, discutere di previdenza
complementare e fondi pensione
ci sembra la morte stia già lì, rapace
dietro l'angolo, pronta a rapirci. O magari
è l'ombra dell’illimitato possibile
che sopravvaluta il ciclo di vita, un retaggio
degli studi umanistici: non ama fermarsi
alle polverose logiche di risparmio. Invece,
dovrei sbloccarmi rispetto ai valori aggiunti
e smettere di ancorarmi al non-si-addice;
che davanti ad un Caffè Mauro – assunto
alle spalle di un'alba usa e getta – di cosa
dovrei mai parlare? Calcio e pensione:
cardo e decumano, in logiche ferree.
II.
Il display s'illumina come s'illuminano nei poligoni
i domini dei fucili; crivellato di dati retributivi
rimane a farsi violare
nei pianti delle otto ore successive: sono piani verticali
fino a pranzo. Poi, orizzonte di pietà.
Usciamo, certo. Eppure fissiamoci nell'atrio
a quest'ora ancora qui? C'è una sveglia che non sbaglia
uno strillo, ci piange nelle opportunità nuove
mentre la strada di casa viene sbucciata dalla corsa: sulle spalle
una cartella di scadenze e di manette. Odore acre
nella morsa si fa da sé.
Non perdona, detto così: ci si vede domani, come che sia.
III.
Almeno non ci facciamo chiamare per nome, morte e stupore
nelle chiamate di Teams non possono coesistere. La ciurma
si divide – il fracasso stanca – le mura delle case
e dei contratti bloccati fanno il resto: soffocare in pace
nella culla di tutte le morti disonorevoli.
Il fuoco del mondo ci interessa poco: stanchi
della carbonella sotto al culo e dell'amaro in bocca,
lo sforzo di tranciare i denti se l'infezione già buca
le gengive; la Xylella buca gli ulivi, che non muovono una foglia.
Almeno non ci lamentiamo: una mandorla
in più o in meno potrebbe farci esplodere il cuore, il jogging
in città scommette sulle neoplasie polmonari
e il mare, il mare diviso in corsie non è mai stato
più malato di così. Sono lontani
dalle nostre salme
i nomi di ventura da raccontare ai nipoti
e di cui fregiarsi nella palude che viviamo e che siamo
moscerini, mosche; dicerie pronunciate
da nullità senza nome.
Senja
Letali le giornate – sì, che le ricordo –
dove non siamo che satelliti: il mondo
e il nostro inosservato ruotarci attorno.
Supernova di scrivania tra penne e fogli
non fa prigionieri: spilla
l'avvenire, il gomito di ragnatele e il muro
con la propria testa plastica, in dinamica attesa
della morte civile, un guaio di apocalisse,
[e del suo sollievo.
Bum bum tap
Sono stanco, sai; di ascoltarmi e non sentire
le orme del terremoto che mi sfugge.
È dentro di me, solletica. Casca
e immediatamente si risolleva.
Un pomeriggio in ufficio come tanti, oppure
un cumulo di detriti e dossier
conoscono a fondo le proprie conseguenze:
fanno intendere di volere e di volere attendere,
hanno sacrosanta pazienza; se cessa il rumore
trovano qualcosa di cui nutrirsi, le proteine
del silenzio intracranico. Per questo
le turbine neuronali hanno un bel da fare. Mai ferme,
proprio un bel da fare. Ci fanno intendere
di volere e di volere attendere; come fossero
il cambio di un vento che auspichiamo, oppure
una tenerezza di troppo, che non vuole
farcela passare liscia.
Di questo sono stanco. Un negozio di semiautomatici
è ovunque nel mondo: le nostre giudicanti
strade senza uscita.
Matteo Persico nasce a Roma nel 1994. All’età di vent’anni pubblica la sua prima raccolta di racconti, dal titolo Sogno e Incubo (Cavinato editore, 2014). È presente, con alcuni testi inediti, nella raccolta del premio Il Club dei Poeti (2015) e nel “Quaderno Poetare” del concorso Poetare (2021), indetto dalla Scuola di Editoria e dalla Samuele Editore. Nel corso del ventisettesimo concorso “Ossi di seppia”, è stato menzionato nei premi speciali della giuria. Alcune poesie inedite sono apparse su diversi blog cartacei e online, tra cui Il Simposio della Poesia, Il Visionario – blog di poesia, IlDetonatore.it, La Repubblica – Roma (Bottega di Poesia di Gilda Policastro), Poeti Oggi, Inverso – Giornale di poesia, Poetry Factory, Critica Impura, Poesia Ultracontemporanea e LaRosainPiu. Un suo testo è stato tradotto in spagnolo sulla pagina del “Centro Cultural Tina Modotti”.
Commentaires