top of page
Facebook Cover Photo.png
Immagine del redattoreEmanuele Andrea Spano

«Giovanili arrendevoli fughe»: recensione a "La zona rossa" di Raffaele Castelli Cornacchia

La zona rossa di Raffaele Castelli Cornacchia, uscito quasi un anno fa per Transeuropa, è uno di quei libri che fin dal titolo, si mostra dichiaratamente al limite, sul confine, appunto, tra ciò che si dovrebbe e non si dovrebbe fare in poesia. Questo almeno per i tanti, forse troppi, che danno ancora credito alla regola non scritta secondo cui la poesia necessita di distanza, secondo cui le cose devono decantare prima di essere scritte e non si può, e non si deve, raccontare dal di dentro, spinti dall’urgenza, ma attendere che l’alluvione passi, che il cielo schiarisca prima di affidare il dolore, la rabbia o un qualunque sentimento ai versi. Gli stessi che non hanno capito che la poesia, invece, è un fatto anzitutto di sensibilità, e che la sensibilità è qualcosa di privato, di personale, e nessuno può dettare i tempi, i modi di quella degli altri, ma solo limitarsi a giudicare come quella sensibilità, con tutto lo strascico che si porta dietro, si coagula sulla pagina. Sì perché La zona rossa di Castelli è proprio quella in cui siamo piombati tutti, inaspettatamente, nel marzo dello scorso anno e della quale ancora non ci siamo liberati, quella imposta da una pandemia che ci ha costretti ad assistere ai tragici cortei delle ambulanze, a sentire la voce delle sirene farsi sempre più pressante nel vuoto delle nostre città, quella dell’ “andrà tutto bene” e dei tricolori alle finestre, quella dei lutti che ci hanno travolto tutti o che, al limite, ci hanno lambiti portando via il vicino di casa, l’amico del nonno, la vecchietta che viveva sola nella casa di fronte e che dalla terapia intensiva non è più uscita, i tanti dimenticati e parcheggiati nelle RSA. La breve notizia che precede questo corpo compatto di liriche, che non vuole essere una giustificazione a priori ma piuttosto un’inevitabile premessa, ci dice del carico di dolore vissuto sulla propria pelle, della malattia, della morte dei cari – la madre cui dedica un lucido e composto omaggio in un frammento – ma ci dice anche di quella condizione di isolamento, di quello standby dalle nostre vite e dal mondo che ci ha costretti a guardarci dentro, oltre che addosso – magari soppesando la ricrescita dei capelli, la pelle che si faceva trasparente fino a rivelare le vene sotto – e ci ha messo davanti a tutte le nostre mancanze e alle mancanze di quello stesso mondo che continuava a crescerci intorno.


La peste, come spesso il poeta la definisce, la bestia squartata, che tutti esaminano, cercando le parole “appropriate” per raccontarla, è quasi un discrimine tra una vita e un’altra, tra un pre e un post-pandemia, tra ciò che eravamo prima e ciò potremmo essere dopo, con una consapevolezza rinnovata, senza renderci conto che forse ammalati lo eravamo pure prima anche se il morbo era un altro, invisibile e subdolo, ma pur sempre tragicamente epidemico. Dentro questa faglia, in questa dilatazione del presente che lascia esondare i pensieri fuori dai circuiti neuronali, si colloca una parte consistente del discorso di Castelli, che non teme di lasciar fuoriuscire dalla propria mente il flusso della riflessione e che spesso asseconda quell’ondata di parole che rischia di annegarci e sommergerci se non viene addomesticata – e non a caso l’elemento dell’acqua che sgorga e invade, sotto forma di sorgente o di alluvione, ricorre spesso in queste pagine. Tra i singhiozzi del monitor, il ronzio del frigo che invade lo spazio, tra le immagini frante di una città desolata e desolante, si muove la voce del poeta che resta sempre sul limite tra la realtà e il sogno, tra la rappresentazione fisica, tangibile delle cose e la loro rielaborazione, una voce netta, caustica che non risparmia l’invettiva, che rasenta con intelligenza talvolta il divertissement, ma che usa quel cortocircuito di parola e pensiero per tracciare un ritratto precipuo della nostra confusa contemporaneità. In questo senso va interpretata la mescolanza di registri linguistici e semantici e di codici differenti, come la scelta di partire dalla ricetta del Brandacujun, versificata e reinterpretata, per costruire un movimento a due voci giocato tra mare e terra, in cui proprio il nome di quel piatto smontato si fa la chiave di un gioco linguistico altrettanto sottile – tra il «coglione della barca» e le «giovanili arrendevoli fughe / a brandare seni e testicoli sulle brande». L’uso estremo, equivoco e dilatato della parola, con il suo significante e i suoi significati, non solo sprofonda il lettore in una gabbia linguistica, ma sottrae l’intero libro alla condanna della retorica, quella, un po’ melliflua e ridondante, a cui il titolo minacciava di sottoporci. E quella gabbia, fatta di pensieri, di paure, e pure di ossessioni e fantasmi, è la stessa in cui tutti, contro il nostro volere, ci siamo trovati imprigionati in quel periodo, costretti in fondo a riflettere sulla vita “vera” – quella che «costa di più» e non sappiamo costruire – mentre eravamo, e forse siamo, impegnati a rincorrere quella finta.

Allora si capisce come quel “qui”, che è il titolo di uno dei testi più articolati e interessanti dell’intero libro, costruito su una partizione in atti quasi fosse una commedia, o forse una tragedia o una farsa, in cui l’autore entra ed esce dal recinto dei suoi versi liberamente, sia in realtà irraggiungibile e perennemente terremotato e sia impossibile conoscerne le coordinate, stabilirne una collocazione fisica e temporale. E non già, e non solo, in virtù di quella pandemia che ha disperso le tracce e reso fragili e inutilizzabili le nostre poche certezze, ma proprio perché quel “qui” che ci eravamo illusi di avere sottomano e di saper dominare, realmente non lo abbiamo mai conosciuto.

Resta allora da comprendere quale sia il ruolo del poeta, se abbia almeno lui le chiavi per dare un qualche ordine a questa realtà che sfugge da tutti i lati, se riesca a trovare un epicentro in quell’alluvione di parole e pensieri che squaderna sulla carta, per disinnescare tutto. Al poeta, che fatica a trovare un accordo tra la sua penna e la materia che vuole raccontare, che non trova il «germoglio», che scava alla ricerca delle radici, resta l’onere e l’onore di raccogliere lo «sterco», di muovere dai «parcheggi dei centri commerciali», dalla superficie derelitta del mondo, per riprendersi la propria interiorità e l’interiorità delle cose, con il passo forse del «ragno gambalunga» che cammina dentro l’acqua, senza annegare.


Raffaele Castelli Cornacchia vive a Brescia. Fa l’insegnante e il formatore, specializzato nella progettazione di percorsi interculturali di integrazione e di dialogo fra culture. È presidente provinciale dell’ENAT (Ente Nazionale Arti e Tradizioni Popolari). Ha scritto i monologhi teatrali Un esodo per gioco e Centocinquanta. Ha pubblicato il romanzo breve Il pacco di Durante (Robin Edizioni, Roma 2006) e i libri per piccoli lettori Gli abitanti di Colle Bianconero (EdiGiò, Pavia 2013) e Le chiocciole di Amemì (EdiGiò, Pavia 2015), dei quali è anche illustratore. Per la poesia ha pubblicato l’antologia poetica Sul ponte sconfinato di Limey (Lampi di stampa, Milano 2008) e i libri di poesia A meno che (Ennepilibri, Imperia 2008), Via Milano (Lampi di stampa, Milano 2012), L’alfabeto della crisi (Italic-PeQuod, Ancona 2013) e La zona rossa (Transeuropa, Massa 2020).

Comments


bottom of page