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Immagine del redattoreGiuseppe Cavaleri

«Era tutta una corsa»: recensione a "La complicità del plurale" di Marco Bellini

In una delle poesie più celebri di Strumenti umani Vittorio Sereni scriveva che tutto la morte dissigilla. Dissigillare, ovvero aprire; per estensione potremmo dire che la morte rivela. Cosa rivela la morte per chi muore, ahinoi, non è dato saperlo. Ciò che invece si domanda Marco Bellini (che infatti riporta la poesia di Sereni in epigrafe) con la sua raccolta La complicità del plurale (Lietocolle, 2020) è cosa rivela per chi rimane, per chi è costretto a scoprire che il tempo, gli oggetti e i luoghi sopravvivono incuranti a questa mancanza.

Il tema, come giustamente sottolineato da Augusto Pivanti nella prefazione, non è nuovo nel panorama della poesia contemporanea, italiana e non. D’altronde l’andare via di un genitore significa l’andare via di una parte di quello da cui veniamo. Spesso inevitabile, quindi, per un poeta voltarsi indietro e ripensare quello che è stato, rielaborarlo.

La necessità di ristabilire una verità antenata, per dirla sempre con le parole di Pivanti, viene fuori nella prima sezione della raccolta. Sin dalle primissime poesie emerge con chiarezza l’urgenza di un dialogo ultimo capace di ricomporre i frammenti sparsi dei ricordi, dandogli una definitiva unità e sostanza («Certo, mettere un appunto / nella memoria di chi viene dopo»).

Chiarite le coordinate, l’inquadratura poetica di Bellini però si restringe. Dalla prima sezione, dove la prima persona raramente viene chiamata in causa e che sembra avere una funzione marcatamente introduttiva, nelle successive il focus è puntato sul privato e la raccolta abbraccia così un andamento narrativo, accompagnando in maniera lineare e accorata il progressivo venire meno del padre fino al «momento che scompone». Sarà, però, nell’ultima sottosezione che il poeta tirerà definitivamente le fila del discorso che percorre la silloge: la relazione sottile tra morte e memoria, il tentativo di sottrarsi a un’ equivalenza altrimenti perdente, somatizzando l’indifferenza insita nel reale, nel giardino che non si disfà, in ossequio a chi per tanti anni lo aveva curato.

Quello che colpisce della scrittura di Bellini è l’attenzione a far parlare le cose e le azioni in maniera onesta, restituendone la forza semplice e per questo radicale che ci trasmettono. È così che la versificazione piana, senza soprassalti stilistici o prosodici, restituisce dettagli (il panno passato sulla foto al cimitero, le carezze e gli sguardi velati) di misurata delicatezza, oppure immagini e correlativi forti (il cranio ritrovato, l’involucro svuotato della cavalletta) resi senza alcuna torsione espressionistica, ma con oggettività e estrema lucidità.

La raccolta testimonia, in questo modo, non solo il tentativo di rielaborazione di un evento così doloroso, ma la presa di coscienza matura e consapevole di un dialogo che il tempo ha definitivamente interrotto, rivelando la nudità che è insita nell’esserci, nello stare al mondo.

Non prima di aver testimoniato con la stessa silloge, però, il valore salvifico della parola, che riesce a fissare «la misura di un gesto lasciato», dando dunque senso e memoria al vissuto di ciascuno, e che viene in soccorso a questa nudità, mostrandoci quanto sia radicale, fino alle strutture più formulari e inconsapevoli di una lingua, l’importanza dei legami e delle origini nel definire l’identità del singolo («Del verbo lasciare mi sorprende la complicità del plurale»).



Alla fine il respiro

era tutta una corsa, come il fieno

in cascina per i giorni chiusi

sotto la saldatura di stagno.

Alla fine la carne

si è fermata, riverbero ultimo

storia deposta per chi resta.

Alla fine hai perso

il rumore che fa la vita.

Alla fine tutti sono usciti, tornati

alle auto, hanno ripreso la traccia

dei loro anni messi su

con i mattoni e i nomi, un elenco

che porta anche te.

Non puoi farci nulla. Questo

è il momento che scompone.

Le corde vocali non vibrano

per dire “parlatemi”.

Parlare

è il verbo senza voce.


*


Il rumore della ghiaia traccia la mattina;

è un rituale al posto della colazione

le due tazzine composte

si stava vicini.

L’annaffiatoio appoggiato alla colonna dell’acqua

la scopa per i petali caduti sono gli accessori

con cui prepari l’appuntamento.

Il loculo è in alto (l’unico disponibile)

la fila verticale e poi l’estensione orizzontale

questo muro impastato d’ossa dove le preghiere

tengono su il cemento.

Arrivi davanti, alzi lo sguardo.

Non pensavi che alla morte

si dovesse trovare un posto

e che ne occupasse tanto;

era più una questione di scomparsa.

Avvicini la scala, sali, pensi che sia

d’aiuto prendere confidenza, prepararsi.

Bisbigli della casa, del giardino

che ha messo i fiori, il cane che aspetta.

Oggi fare l’amore è strofinare un panno

sulle lettere del suo nome, la fotografia;

picchiettare piano con l’unghia

sul marmo, magari sente.


I vostri corpi

hanno già parlato, lasciato della carne.

I figli ogni tanto passano e tu

non ti decidi a scendere.


*


Dimmi ora,

mentre l’erba “cava” il succo

dalla terra e fa un verde nuovo,

ora che è già dopo, dimmi

se ti va di fare i conti.

Lasciamo a domani

il silenzio che hai per me

lasciamo agli altri

ciò che è sempre accaduto.


Del verbo lasciare mi sorprende

la complicità del plurale.


Marco Bellini, nato nel 1964, vive in Brianza. Sue pubblicazioni sono: Semi di terra (LietoColle, 2007); per le Edizioni Pulcinoelefante la poesia Le parole (2008); la plaquette E in mezzo un buio veloce (Edizioni Seregn de la memoria, 2010); Attraverso la tela (La Vita Felice, 2010); Sotto l’ultima pietra (La Vita Felice, 2013), La distanza delle orme @ – Poesie con CD Inserti (La Vita Felice, 2015); il libro d’artista Tra le spine (Edizioni Il ragazzo innocuo, 2018). Nel 2013 è risultato vincitore con inedito nelle selezioni italiane per l’European Poetry Tournament. Sue poesie hanno ottenuto riconoscimenti in diversi concorsi e sono presenti in numerose antologie, su blog e riviste di settore. È stato tradotto in diverse lingue europee. Fa parte delle giurie del Premio Letterario Nazionale Galbiate e del Premio Nazionale di Poesia Umbertide 25 Aprile. Collabora con il semestrale di letteratura «Incroci» e con la rivista «Qui Libri». Ha curato l’antologia poetica Muri a secco (RPlibri, 2019). Cura la rassegna di eventi sulla poesia in collaborazione con l'Associazione artistico culturale Artee20 di Merate (Lc).


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