Editoriale Poesia & Rete (appuntamento n°5, prima parte)
Continua, con questo quinto incontro, l'editoriale su Poesia & Rete, a cura di Alessandra Corbetta, un progetto trasversale alle pubblicazioni del blog che prova a monitorare, attraverso interventi di diversa natura, lo stato delle interrelazioni tra il linguaggio poetico e le dinamiche del Web.
Chi volesse segnalarci studi o ricerche su questo argomento o desiderasse contribuire ad arricchire con competenza il dibattito, può farlo scrivendo a redazione@almapoesia.it, specificando in oggetto “Editoriale Poesia & Rete”; tutto il materiale pervenuto verrà sottoposto a lettura e quello ritenuto più interessante e valevole verrà proposto all’interno del progetto.
Ospite di oggi è Davide Castiglione. Per potere seguire il filo dell'intervista invitiamo, prima di procedere alla lettura, a prendere attenta visione dell’articolo Poesia e web: limiti, mancanze, proposte redatto dallo stesso Castiglione e apparso qualche tempo fa anche su www.criticaletteraria.org e che qui riproduciamo, poiché la conversazione vuole essere un approfondimento dei temi lì proposti. Sebbene il contributo risalga al 2012, molte delle tematiche evidenziate da Castiglione continuano a manifestarsi in tutta la loro attualità, a riprova di una condizione di stasi intorno a questi argomenti.
Proviamo, ancora una volta, a smuovere un po’ le acque.
Un aggregatore come PoEcast, che di giorno in giorno elenca i nuovi contributi pubblicati in parecchi siti di poesia italiani, offre la possibilità di una panoramica interessante. Panoramica della poesia contemporanea italiana in rete? Certo, questo è tautologico. Panoramica della poesia italiana contemporanea? Solo in parte, ovviamente, e per almeno tre motivi:
Una vera panoramica è strutturata, ha bisogno di uno studio organico a monte, e si dà forse solo nella forma della rivista militante (panoramica volutamente parziale ma tutt’altro che casuale di un indirizzo o una gamma di indirizzi specifici) o in monografie accademiche costruite su criteri che – condivisibili o meno – sono solitamente codificati: storicizzazione, appartenenza a movimenti o manifesti, apparato teorico che legga testi e poetiche in una dinamica, una narrazione, inserita nel contesto storico; lo studio di Niva Lorenzini (qui una mia recensione) o quello, più recente, di Guido Mazzoni s'inseriscono in questa categoria.
Le numerose antologie poetiche uscite in questi anni poi, non possono assolutamente proclamare di offrire una “panoramica” intesa in questo senso: mai che sia incappato in un’antologia che rendesse espliciti e tangibili i criteri di scelta (al di là di qualche vaga, e inutilizzabile, indicazione) né il bacino iniziale di autori considerati, i motivi programmatici e non contingenti delle esclusioni, etc. Difetti metolodogici contro cui, con mio conforto, ha puntato il dito anche Stefano Guglielmin - poeta e curatore del sito Blanc de ta nuque - nel nostro breve incontro londinese questo agosto.
Chi si occupa di poesia sul web lo fa spesso con competenza e dedizione, ma senza un progetto unitario, (forse) poco consono alle dinamiche del web; in altri casi, l'approccio rimane troppo legato a una concezione assoluta e astorica della poesia, che salta testo e contesto illudendosi dell’esistenza di una “essenza” veramente rintracciabile, comunicabile e non solo esperibile. Lacuna che si fa endemica nei commenti a tali contributi, ma questa osservazione meriterebbe un articolo a parte.
Last, but not least (e questo davvero è il punto che mi preme più sottolineare) il bacino degli autori presentati è determinato dalle stesse dinamiche del mezzo di produzione, il web: chi scrive del “sottobosco” (per “sottobosco” intendo tutti coloro che hanno poca o nulla visibilità nei canali ufficiali) pesca usualmente da internet, e quindi avere testi propri in rete, o addirittura un sito (come il sottoscritto) diventa magari determinante più della qualità dei testi. Eppure - accidenti della vita - conosco ottimi poeti che stanno alla larga dal web, così come dagli eventi mondani e magari anche dalle riviste: sono autodidatti che forse hanno letture inferiori in numero ma decisamente maggiori in caratura; che le hanno assimilate col beneficio del silenzio, col risultato che la loro scrittura è spesso meno epigonica, generalmente più fresca di quella (ri)proposta sui siti specializzati, dove imperversano meccanismi di reciproche influenze, di dominanti estetiche che andranno un giorno studiate per bene. L’ansia da riscontro, l’essere “troppo dentro” il mondo della poesia può guastare la voce: non sono certo il primo a dirlo.
Comunque, la vera panoramica che PoEcast offre è di altro tipo, e si lega più al modo di far vedere la poesia che alla poesia stessa; è insomma un negozio d'ottica, e non è male premunirsi e restare vigili.
All’assortimento casuale spacciato per panoramica preferisco l’idea di costellazione individuale e comunitaria, quella rete di stelle fisse e stelle variabili, opere e testi a monte dello scrivere di ciascuno: tutte cose che andrebbero indagate, magari partendo da un progetto in via di definizione e al quale, una volta illustrato, spero vogliate collaborare. No, la panoramica più interessante che posso trarre dal frequentare vari siti non ha a che vedere con la poesia: con il modo di comunicarla piuttosto, modo che andrebbe catalogato e sistematizzato a uso e consumo dei naviganti – studiando attraverso quali lenti la si propone, per trattenere gli schermi giusti e disfarsi di quelli illusori.
In concreto: mi basta leggere un paio di post sul sito collettivo La poesia e lo spirito per capire che non fa per me, che il tono da proclama un po’ utopistico e semplicistico è quanto di più lontano da ciò che cerco. E' probabile che di quel sito mi limiterò, al massimo, a leggere le poesie saltando il paratesto. Oppure, se leggo siti come Blanc de ta nuque e Imperfetta ellisse so che – pur nella diversità del taglio dato alle recensioni – c’è un singolo e la sua idea, duttile ma forte, di poesia alle spalle: e l’interesse cresce, perché l’impeto di conoscenza prevale su quello promozionale degli autori che vi appaiono. Se leggo punto critico so che mi troverò davanti a contributi critici e teorici di alta qualità, su autori che non appartengono affatto al “sottobosco” come l’ho inteso prima: mi sarà necessario leggermi prima le opere e poi i contributi sulle opere. Se leggo UniversoPoesia so che vi si discutono polemiche salutari, situazioni di ordine generale e che pertengono più al mondo della poesia (quindi a ciò che le sta attorno, permettendole di vivere e farsi pubblica) che alla poesia in senso stretto. Se leggo mosche in bottiglia so che la voce critica è quella di un lettore attento che si chiede il perché un poeta conta, o ha contato, per noi. E così via. Il bello sta nella capacità di capire il taglio dato, le ossessioni, di chi scrive di poesia e di chi la commenta.
L’altra panoramica è il contrario di una panoramica: è l’elencazione di ciò che manca, il ripartire dal negativo formalmente mutuato dalla Scuola di Francoforte. Qui sarò più lapidario e, spero, più impattante: perché è una cosa che mi sta a cuore. Ecco i miei punti:
1. C’è ovunque un overload quantitativo, manca concentrazione. Questo è endemico per la struttura stessa del web, per cui se non pubblichi almeno un contributo o due a settimana non vieni seguito. Incredibile inoltre notare come la scelta del medium - file pdf o post direttamente sul sito - orienti i naviganti praticamente solo su quest'ultimo, mentre il file si presterebbe meglio a un tipo di lettura lenta e ragionata, di un testo da salvare sul proprio pc o persino da stampare. L’overload è su tre livelli: numero di post a settimana (o giorno!) per sito, numero di siti su argomenti simili, lunghezza dei post e numero di poesie presentate a post. L’ultima osservazione mi conduce al punto 2:
2. Prevale l’interesse dato ai poeti rispetto alle poesie. La distinzione non è di poco conto, perché in ultima analisi l’interesse sia di chi presenta sia di chi commenta è sull’autore, non sul singolo testo e sulla sua potenziale rilevanza per il lettore. Parlare dello spirito poetico che muove un autore, dei suoi temi etc., è utile ma rischia di dispensare chi scrive critica (e anche chi commenta) dalla necessità di affrontare lo specifico poetico del testo, e insomma la validità del “laboratorio” di un autore: che se non è tutto, è quasi tutto. Io sono convinto che un poeta debba giocarsi la sua credibilità anche sul singolo testo, perfino in un giro di versi, in una proposizione: basta una manciata di versi per capire cosa aspettarsi, se c’è talento o no. Si impara di più tornando venti volte sullo stesso testo che leggendo rapidamente due raccolte dello stesso poeta. La quantità annacqua e deresponsabilizza; oppure è necessaria ma solo complementare a un lavoro di critica (e di commenti) che chieda conto di ogni scelta linguistica e di poetica. Questo mi conduce al punto 3:
3. Manca un sito che si sforzi di collegare il piano dell’espressione a quello dell’intenzione e della rilevanza, o altrimenti detto: un sito che colleghi le forme (uso del lessico, del verso, delle procedure scritturali ecc.) alle poetiche sottostanti (visione del mondo e delle cose, postura autoriale, tipo di lettore ipotizzato) e queste alla loro plausibilità, cioè tanto al loro grado di ascolto del presente quanto alla capacità di essere rilevanti (e in che modo) per i lettori. Si obietterà che questa mira è troppo alta per qualsiasi sito, e che potrebbe realizzarsi solo in riviste d’alta caratura (penso a “Ulisse”) o in microcircoli che prevedano incontri non virtuali ma nemmeno mondani tra autori e lettori. Questo è vero solo in parte: credo che un formato semplice ma rigoroso possa innescare un processo di sensibilizzazione e la formazione di una comunità critica che è proprio quello che manca in rete e non solo (gli studi sono elitari, le riviste non sono interattive, i festival spesso solo mondani, gli incontri fecondi solo privati, la dispersione è ovunque). In una battuta: meno presentazione e più seminario. Serve un sito che proponga un testo a settimana, una ventina di versi su cui esprimersi: e nient’altro. Che sia anche anonimo l’autore: che il ragionamento sul linguaggio possa problematizzare la nostra scrittura e il nostro ragionare su contenuti spuri.
4. Manca anche un luogo che faccia cadere, o almeno ammorbidire, le barriere comunicative tra pubblico generale e poesia, e tra poesia mainstream e scritture sperimentali. Quest’ultima cosa a volte accade (penso alla discussione infuocata su Alessandro Broggi in Blanc de ta nuque (qui); o a quella tra Andrea Raos e Alfredo Riponi sulla traduzione di Luca Gherasim, riportato su Imperfetta Ellisse (qui). Altri esempi si potrebbero fare, e vi invito a farli; però non esiste uno spazio dove la cosa sia sistematicamente incoraggiata. Bisognerebbe convergere sullo stesso oggetto senza pretendere di avere le stesse posizioni di partenza: che ciascuno apporti il suo, di sguardo, in un agone dialettico e salutare. (A margine: molti commenti utili che ho ricevuto provengono da persone intelligenti con un background diverso dal mio, anche non letterario; il punto di vista del lettore medio non va disprezzato ma nemmeno assecondato).
5. Poca divulgazione dei testi stranieri. Segno del nostro provincialismo? Vivo in Inghilterra e, leggendo un po’ di poesia qui, mi rendo conto che in Italia arriva quasi solo (ed è presentato come novità o anteprima) il mainstream straniero (Carol Ann Duffy), o quegli autori già candidati al Nobel (vd. Geoffrey Hill). Qualche indicazione pratica su come divulgare: se la lingua del testo originale è l’inglese o una lingua latina, per noi italiani dovrebbe bastare una traduzione di servizio (per es. una prosa filologicamente accurata) per non spostare il discorso sulla riuscita o meno della traduzione e attingere, invece, al testo originale (l’idea era già in Fortini); commenti sugli specifici letterari di una lingua nazionale e sulla sua lingua poetica sono utili se non indispensabili a tal proposito (ad es. il fatto che in russo e ungherese la rima non sia vista affatto né come anacronismo né come formalismo da usarsi ironicamente o parodicamente, come da noi; o che l’inglese sopporti meglio le ripetizioni; etc.). La stilistica contrastiva (una specie di grammatica comparata ristretta ai testi letterari e non all’uso generale di una lingua) è una disciplina che non esiste quasi, e che invece sarebbe utilissima in casi come questi.
Ci saranno altre mancanze; il silenzio attorno a queste questioni mi sembra assordante, il lavoro da fare enorme, al di là di quanto possono apportare le forze di un singolo. Ma da qualcosa bisogna cominciare. Mi piacerebbe capire quanto, e fino a che punto, questi punti sono condivisi; quanto, insomma, sono necessità non solo mia. Sarebbe anche bello che mi indicaste esempi di siti che secondo voi sfuggono ad alcuni dei punti che ho illustrato, siti che in tutta probabilità non conosco o che frequento troppo poco. Vi aspetto.
Davide Castiglione
Al punto uno, “Accidentalità delle voci raccolte”, quando parli di riviste, ti riferisci a quella nate cartacee e poi diventate online o a quelle generatesi direttamente all’interno del Web? Credi ci sia differenza tra le due rispetto a quella che tu chiami “accidentalità”?
Cara Alessandra, anzitutto ti ringrazio per esserti soffermata con tanta attenzione su quel mio vecchio articolo del 2012 dal titolo «Poesia e Web» e pubblicato su «CriticaLetteraria» in due parti (I e II), e per avermi esortato a ri-attraversarlo: a quasi un decennio di distanza (quasi un’era geologica, per internet!), credo in effetti che sia un’operazione utile per capire cosa è cambiato e cosa invece è rimasto pressoché immutato, incluso il mio atteggiamento – come spesso accade, invecchiando si diventa meno assoluti, ma forse insieme alla nettezza si perde anche un po’ il coraggio e la spinta a cambiare lo stato di cose; oltre ovviamente a inserirsi nel meritorio discorso sulla poesia e la rete che portate avanti con «Alma Poesia».
Vengo a questa tua prima domanda: in quel mio intervento criticavo la mancanza di chiarezza (di meccanismi di selezione espliciti, o almeno rinvenibili a posteriori: vedi la risposta alla domanda successiva) circa la presenza, talora perfino sovraesposta, di taluni autori in rete, contro l’assenza o la presenza sporadica di altri. Forse “accidentalità” non era la parola giusta, dato che non c’è quasi mai nulla di accidentale (io direi: di gratuito, anche nel senso nobile del termine) nell’essere ospitati su uno spazio virtuale: di solito l’esserci coi propri testi – quando non si tratti di autori davvero affermati, la cui presenza conferisce prestigio allo spazio e viene dunque cercata dai redattori stessi – riflette quasi esclusivamente l’impegno e le capacità promozionali dell’autore X, rispetto a quelli dell’autore Y[1]. L’impegno promozionale non va demonizzato, è anzi vitale che ci sia, a maggior ragione se portato avanti con il minimo d’invadenza possibile; al tempo stesso la sua proliferazione è in parte sintomo di un effettivo problema strutturale, la latitanza di un talent scouting che sia continuo e di piattaforme e metodi che lo incoraggino. Piuttosto che di accidentalità avrei forse dovuto parlare di opacità o mancanza di struttura/procedura/criteri, ma credo ormai si capisca cosa intendessi dire.
Posso ora risponderti nel merito: c’è differenza, in termini di opacità delle voci raccolte e presentate, tra spazi nati nel web e riviste cartacee che solo in un secondo momento si sono spostate nel web, o hanno aperto un sito da affiancare al cartaceo? Nella stragrande maggioranza dei casi credo proprio di no, se non forse il fatto che nelle riviste cartacee gli autori ospitati tendono a far parte di un sistema più chiuso (più chiuso e ridotto di una comunità, ma più aperto rispetto a un circolo o una nicchia) rispetto a quelli ospitati in rete, dove permane una maggiore orizzontalità e indifferenza, con le dovute eccezioni. Ma questa è davvero la sola differenza – ed è una differenza “sociologica” più che “letteraria” che mi sembra di poter identificare.
Negli anni ho pubblicato (e talora fatto pubblicare altri) tanto su riviste cartacee («Poesia», «Il segnale», «Capoverso»...) quanto su riviste nate online («Ulisse») o divenute anche online («Atelier», «Nuovi Argomenti»...) o su spazi online non strutturati come riviste («Poetarum Silva», «Poesia del nostro tempo»...). In tutti i casi, se ricordo bene, è bastato inviare i testi all’indirizzo email ufficiale di redazione o a un collaboratore per vederseli poi pubblicati. Rarissimamente, un mio testo è stato segnalato da altri e quindi inserito (è il caso di un testo su «I poeti sono vivi», per la cui pubblicazione devo ringraziare Francesco Terzago). Erano testi validi? Può darsi, visto che sono stati accettati e che io, autore, li ritenessi abbastanza decenti da non vergognarmi a mandarli. Però il bassissimo numero di rifiuti (mi è capitato solo una volta, con il blog di «Taut» editore) può insospettire: se, mettiamo, il 90% e oltre degli invii va a segno i casi sono due: o si è davvero bravi, oppure i filtri sono quasi inesistenti (notare che il “filtro” può essere anche una linea di poetica, non per forza solo un filtro, diciamo così, qualitativo). Per precauzione e senso di realtà tendo a dare ragione alla seconda ipotesi, specie se la mia esperienza è rappresentativa di un campione assai più ampio di autori (a questo punto sviluppare un questionario potrebbe davvero smuovere le acque in tal senso).
A insospettire è anche la mancanza di una traccia di giudizio, nel bene e nel male: non deve essere una nota critica articolata, ma semplicemente un paio di frasi che spieghino l’accettazione o il rifiuto. Sono ben consapevole che il tempo e le risorse sono poche, e che giustificare una scelta richieda energie: però se si trovano energie per organizzare festival, iniziative, interviste e altro, è strano che a essere sacrificata sia immancabilmente la comunicazione dell’impressione di lettura, senza la quale ogni redazione si autorappresenta come una sorta di comitato impalpabile anziché un insieme di lettori e appassionati, con i loro slanci e le loro idiosincrasie. Se i testi vengono letti con attenzione, è normalissimo appuntarsi delle note a margine in corso di lettura (io lo faccio sempre), e dovrebbe venire spontaneo condividerle con chi ha mandato il proprio materiale. Non solo per buona educazione: per rispetto, per una fede nel dialogo e nella crescita. Senza questo sia pur minimo scambio, l’autore diventa un semplice produttore di contenuti e il sito o rivista una semplice cassa di risonanza degli stessi, con una sottile de-umanizzazione.
Il dubbio amaro è che a favorire tali pratiche sia un vantaggio a breve termine per entrambe le parti, che genera un circolo vizioso: l’autore ha comprensibilmente desiderio di esserci, perché questa è una condizione sine qua non dell’essere letti; la rivista o spazio, specie se online, dove non vigono limitazioni di spazio e di risorse (stampare una rivista di 40 o 80 pagine ha costi diversi, per uno spazio online la lunghezza è indifferente) ha sempre bisogno di nuovi contenuti per non subire cali di traffico. Per questo apprezzo la scelta di uno spazio come «Formavera» che s’impone, quasi eroicamente, di pubblicare solo una volta a settimana e che è guidato da idee forti di poetica – anche se pure in questo caso, il riscontro positivo che riceve l’autore è la pubblicazione, non i passaggi e le discussioni intorno ai testi: posso dirlo perché miei testi sono usciti di recente anche lì. Che io sappia solo «Lay0ut» – lo so indirettamente – prevede un percorso di confronto con gli inediti accettati, percorso che include il suggerimento di modifiche da parte della redazione. Questa mi sembra un’attitudine virtuosa e da incoraggiare, benché – o proprio perché – molti autori possano gridare alla lesa maestà del proprio lavoro.
Tornando sulla necessità di lottare contro l’iperproduzione di contenuti, io stesso in passato – nel 2013, quindi poco dopo l’intervento su poesia e web riportato prima di questa intervista – ho co-fondato (con Luigi Bosco, Lorenzo Mari e Michele Ortore) «In realtà, la poesia», una rivista online di critica dove le pubblicazioni erano bisettimanali o ancora più sporadiche; l’idea era di pubblicare saggi o recensioni analitiche lasciando piena libertà di scelta ai collaboratori, senza farsi influenzare dalle richieste dei poeti – non erano ammesse candidature spontanee. Lo spazio è stato poi abbandonato nel 2017 per motivi organizzativi e qui sì, “accidentali”, come la sopraggiunta impossibilità di alcuni co-fondatori di curare il sito, la mancanza di un sostituto anche tecnico e gli impegni della vita “fuori” (i nuovi lavori con cui, sulla soglia dei trent’anni, eravamo alle prese). Restano una quarantina di saggi ed editoriali in ebook, e quindi un archivio che testimonia di un impegno circoscritto nel tempo ma intenso e idealista, nel tentativo di creare un ponte fra rivista accademica (per rigore) e militante (per impostazione e scelte).
Assenza di filtri e di riscontro di lettura sono dunque, secondo me, i problemi principali, da cui ne discendono di più tangibili, quali l’eccesso di pubblicazioni e la loro bassa qualità media. Apro una breve parentesi personale. Ricordo che nel 2012, partecipando a un’edizione del festival «Parco Poesia» (qui il mio resoconto), prima di leggere i miei testi chiesi al pubblico di criticarli o dirmi cosa ne pensassero, in tutta franchezza; cosa che poi comunque nessuno fece, nemmeno in privato. Se si escludono i sodalizi privati fra due, tre poeti, gli spazi sociali in cui ho davvero esperito questa dimensione di scambio e crescita, anche di critica dura, si contano sulle dita di una mano. Uno era paradossalmente un sito di “amatori” della poesia a cui ero iscritto (dal 2005 al 2011 mi sembra), «Il Club dei poeti», sito ancora attivo in cui è possibile caricare una poesia ogni due mesi e, commentando assiduamente le poesie degli altri, ricevere a propria volta decine di impressioni di lettura, che vanno dal giudizio sintetico («bella!», «non mi è piaciuta per niente», o perfino dei simboli iconici: stellina, punto di domanda, splash) a note intelligenti e articolate, alcune delle quali ho infatti salvato sul computer. Un altro sono stati un paio di laboratori organizzati a Nottingham mi sembra nel 2013 come parte del progetto «dopotutto», con altri poeti espatriati quali Roberto Minardi, Alessandro Mistrorigo, Tomaso Aramini e Jacopo Galimberti. L’ultimo e più recente è l’iniziativa laboratoriale «Prove d’ascolto» curata da Simona Menicocci e Fabio Teti, tenuta prima in uno spazio fisico e poi, causa Covid-19, online; connettendomi qualche mese fa ho potuto ascoltare impressioni e critiche schiette sui testi dei partecipanti. Spazi del genere dovrebbero moltiplicarsi.
Tale carenza di anticorpi critici e dialogici è resa possibile da una situazione in cui si pensa al brevissimo termine ma quasi per nulla al medio e al lungo termine, all’eventualità che si possa oggi, anche e soprattutto dal basso, costruire una possibile costellazione di opere e indirizzi per domani (non parlerei di canone, perlomeno non nell’accezione forte del termine).
Sempre al punto uno, porti l’attenzione sul criterio di selezione che, se può presentarsi più lasco e implicito all’interno di un lit-blog, non può esserlo altrettanto per quelle antologie che hanno la pretesa di essere rappresentative di una generazione o di gruppi generazionali. Vuoi approfondire con noi questo discorso?
Nella domanda precedente ho parlato di filtri. Un filtro è possibile solo se ci sono criteri di selezione, che non possono né devono essere stringenti e meccanici come i requisiti per fare una domanda di lavoro, ma che nondimeno sarebbe auspicabile ci fossero. Per me dovrebbero applicarsi a tutti i livelli semi-ufficiali (quindi escludendo, di fatto, solo la propria pagina social e facoltativamente il proprio blog personale), e quindi complesi blog letterari collettivi e riviste online. È però innegabile che la questione si ponga con maggiore cogenza per le antologie, visto che proprio queste – e in particolare alcune di queste, penso per esempio ai Quaderni di Marcos y Marcos – sembrano avere maggiore risonanza sulla percezione collettiva di quali siano i nomi emergenti e da seguire, e dunque passibili di attenzione futura (di nuovo, preferisco evitare la parola «canonizzazione» in quanto spropositata).
Premetto che ogni antologista, ogni comitato di lettura va apprezzato per l’impegno, la passione e la competenza, per il coraggio di aver comunque fatto qualcosa – è facile criticare se non ci si è spinti in una operazione simile. Però la potenziale responsabilità di chi compila un’antologia, specie se generazionale, è veramente grande: non credo basti invocare la parzialità di ogni curatore, questioni di gusto, contingenza, biografia, familiarità pregressa, o l’intento non canonizzante di quanto si fa, per mettersi del tutto al riparo da questa presa di responsabilità. Se dovessi fare io un’antologia rappresentativa, anche solo di una tendenza poetica o una regione italiana, sarei sconfortato dall’immenso lavoro richiesto per ottenere un prodotto all’altezza delle mie premesse teoriche. Del resto, perfino l’antologia di Mengaldo è criticabile ed è stata criticata – su che basi Mengaldo ha escluso un poeta eccezionale come Bartolo Cattafi, per esempio? Com’è possibile che fra le poetesse figuri la sola Amelia Rosselli? Qualcuno glielo ha chiesto?
Le mie premesse teoriche, tra le quali i criteri di selezione, ruotano attorno all’idea di trasparenza e verificabilità, e quindi di onestà intellettuale. In parte vanno a integrare, e in parte sono integrate da, queste note che scrissi sempre nel 2012. Le elenco per punti:
1. Esplicitazione di criteri generali che individuino un bacino iniziale. Criteri di questo tipo possono essere: (a) quello generazionale; (b) quello di genere; (c) quello geografico (per esempio, sarebbe interessante un’antologia che raccolga tutti i poeti italiani ormai da tempo espatriati, così come una incentrata su chi scrive dalla provincia, lontano dai grandi centri culturali ed editoriali); (d) quelli relativi al cursus honorum: l’aver pubblicato almeno due o tre libri, l’aver pubblicato in tot numero di riviste, l’aver vinto uno o più premi riconosciuti come prestigiosi dalla comunità letteraria, l’essere presenti (o polemicamente: assenti) da altre antologie. Questi criteri dipenderanno dal taglio e dall’obiettivo dell’antologia, ma per quanto criticabili sono comunque “oggettivi” nel senso di “fattuali”, e andrebbero esplicitati nell’introduzione o in un’appendice (dove troverebbe posto anche la lista degli autori considerati, e cioè il bacino iniziale). Operazioni di censimento utili a livello preliminare, e quindi database da cui pescare, sono quelle effettuate da Pordenonelegge, quelle di cui si dà conto negli Annuari di poesia curati da Giorgio Manacorda e Paolo Febbraro (ho qui con me il numero relativo al 2009) e le Classifiche di Qualità dell’«Indiscreto» (sezione poesia). A ciò si potrebbe aggiungere anche un “Call for submissions” da fare circolare presso riviste e siti specializzati, addirittura presso i dipartimenti delle università e le mailing list delle biblioteche comunali. Insomma: l’utilizzo convergente di vari metodi e la chiamata a raccolta di vari spazi per mappare nel modo più sistematico possibile il campo dell’esistente.
2. Allargamento del bacino iniziale: ipotizziamo che la fase 1 abbia individuato 1000 possibili autori per un’antologia generazionale; o un centinaio per una che illustri una certa tendenza o area geografica limitata. A questo punto nulla toglie che esistano autori validi che, proprio perché sottoesposti, restano fuori: magari non partecipano a concorsi, non pubblicano su rivista, hanno pubblicato un solo libro ormai introvabile, non sono sui social. Qui a integrare il bacino iniziale accorrono la curiosità e il talent scouting del critico-curatore, che pescherebbe dal gran mare degli spazi online, dei festival, dei centri di poesia, di lettori e amici fidati, senza preclusioni estetiche o ideologiche iniziali, incluse le incursioni nel “sottobosco” (vedi risposta alla domanda successiva). Mettiamo dunque che si arrivi in tal modo a una lista definitiva di 1200 autori, per ciascuno dei quali occorrerà leggere un numero di testi rappresentativo (non meno di una ventina, meglio se un’opera intera). Dal computo si possono forse tralasciare quegli autori che già si conoscono bene, anche se rileggerli nel contesto di una scelta più ampia può aiutare a ridimensionarli e a rendersi il più immuni possibile dal bias della familiarità pregressa.
3. Lettura e riduzione progressiva degli autori al numero prescelto dei pubblicabili, possibilmente inferiore alla trentina (si noti che questo punto della procedura è quello esplicitamente adottato dai Quaderni di poesia Marcos y marcos). Ammettendo un bacino iniziale così ampio, e la necessità di leggere almeno una ventina di testi per autore, e di rileggerli più volte, è chiaro che i tempi di lettura possano essere di migliaia di ore e dunque di parecchi mesi a tempo pieno o quasi pieno, a meno di non affidare a persone fidate una prima fase di scrematura. Tale riduzione può obbedire in parte all’intuito del curatore o dei curatori, ma dovrebbe a mio parere essere coadiuvato dal punto 4.
4. Elaborazione dei criteri di selezione. Questa è la fase più delicata. Bisognerebbe cominciare dall’ammettere a sé stessi e agli altri la propria intrinseca parzialità: primo, ciascuno ha le proprie lacune e preferenze, ed è dunque portato a privilegiare certi modi del poetico su altri (per storia personale, carenze di familiarità con certi modelli, e via dicendo); secondo, tali preferenze possono mutare col tempo e talvolta perfino con l’umore. Questo significa che affidarsi solo al proprio gusto, per quanto sofisticato e affinato da anni di letture, è rischioso: si cade nel bias di conferma – errore al quale non sono affatto immune – per cui le opere valide sono quelle che rispondono a una certa idea di poetica e dunque di mondo. Questo va bene se l’antologia è dichiaratamente militante, meno se è ufficial-canonizzante (tra parentesi, credo che una tassonomia seria dei tipi di antologie manchi o non sia comunque parte del sapere circolante).
Un possibile correttivo è questo: cercare di capire, sia a intuito sia nel confronto schietto con altri lettori, se l’autore X è capace di produrre degli effetti perlocutori Y ritenuti meritevoli all’interno dell’operazione stessa (per es. creazione di un mondo poetico interessante, spinta alla riflessione, coinvolgimento dei sensi, inventività ritmica, rappresentazione convincente del nostro tempo), cioè se i testi siano i migliori possibili all’interno di un dato sistema di effetti e riferimenti: la domanda non è quindi se sia meglio una poesia tragica o una comica, una soggettivizzante o una oggettivizzante, ma se la poesia X incarni l’ideale tragico Y altrettanto bene che la poesia A incarni l’ideale comico B, o se l’oggettivizzazione della poesia C sia efficace e giustificata quanto la soggettivizzazione della poesia D. Nessuna assiologia assoluta, dunque, ma una relativa dove contano i rispettivi filoni, in forma pura o ibridata. I filoni vanno ovviamente identificati con l’ausilio della critica stilistica, della storiografia e della teoria letteraria, e quindi l’antologista dovrebbe anche essere un cultore della materia.
Criteri legittimi ma più attaccabili includono quelli che portano indirettamente a prediligere certe poetiche e movimenti su altri: complessità formale, originalità espressiva, intensità emotiva, legame con la tradizione, un aggregato ragionato di questi criteri sotto il nome di “qualità” (a proposito: manca anche un dibattito su cosa sia la qualità letteraria, e perfino se abbia ancora senso chiamarla in causa, quasi fosse una riedizione del concetto di bellezza), e via dicendo. Credo a ogni modo che il primo e l’ultimo criterio rimanga l’intuito, proprio come nelle relazioni umane: il fidarsi della bontà di una poesia quando la si sente a pelle, o il prendere la mancanza d’entusiasmo come una seria obiezione all’inclusione di un dato autore.
Far dialogare gli aspetti programmatici e/o quantificabili con quelli istintivi della scelta, e rendere questa dialettica esplicita in una introduzione o in altri interventi, sarebbe la cosa più onesta da fare. Alla fine, si tratta di una scommessa, di un rischio, ma che non ha nulla a che fare con il rischio di essere avventati. È il rischio di fallire, ma onorevolmente, contro la complessità, sbattendo in faccia sulle proprie limitazioni dopo aver cercato seriamente di trascenderle. I lettori (e gli autori esclusi) potranno contestare le scelte così effettuate, ma almeno la contestazione aprirebbe una discussione proficua, per esempio su quali siano gli autori più importanti all’interno di un dato filone, o quali siano i criteri preferenziali su cui appoggiare un giudizio di valore. Invece di solito la discussione scade immediatamente nella polemica degli esclusi, piuttosto che sulle ragioni delle inclusioni e delle esclusioni.
Al punto due, “Tendenza all’autoreferenzialità favorita dal mezzo”, distingui la propagazione della poesia sui “canali ufficiali”, ai quali non tutti hanno accesso, e “Internet”, dove può albergare tutto il “sottobosco poetico”, da intendersi nella definizione che tu stesso fornisci. Ti chiedo: quali sono i “canali ufficiali”? Quando parli di “Internet” ti riferisci a blog e siti che si occupano di poesia? Ai Social Network degli stessi? Oppure a profili e siti personali, del singolo autore/autrice?
E ancora: passando dai “canali ufficiali” al “sottobosco”, se e come muta il concetto di “autoreferenzialità”? Non esiste “sottobosco” anche all’interno dei “canali ufficiali” e “ufficialità” all’interno del “sottobosco”? La questione, che tu definisci con questa espressione che ho molto apprezzato, dell’”essere troppo dentro”, a quali fattori è da imputarsi, dal momento che attribuirla all’ego ipertrofico di poeti e poete o sedicenti tali risulterebbe, a mio avviso, non sbagliato ma assai riduttivo?
Questo è un succoso grappolo di domande, Alessandra, e te ne ringrazio. Soffriamo di una grande povertà di precisione e ramificazione semantica: si ragiona in base al medium (internet vs. cartaceo) più che in base al genere (rivista online vs. blog personale vs. pagina facebook ecc.), e quindi si fa più attenzione alle dinamiche generali di propagazione dell’informazione che a quelle attinenti alla loro elaborazione e ai possibili destinatari, più dipendenti da un progetto concreto. In parte credo di aver già fatto alcuni distinguo del genere nella mia risposta alla prima domanda. Qui mi concentro sulla dicotomia tra “canali ufficiali” e “canali non-ufficiali” (l’ho riformulata perché esistono canali ufficiali anche su internet). Un canale ufficiale è senz’altro caratterizzato dalla percezione di prestigio e istituzionalità, fattori che in teoria garantiscono una maggiore diffusione dei contenuti e un maggior investimento intellettuale del destinatario (derivante dall’assunto di autorevolezza della fonte): restando su internet, il blog di «Poesia, di Luigia Sorrentino», ospitato nel sito della Rai, o «Fahreneit» sono canali ufficiali. Anche siti come «Minima&Moralia», «Doppiozero», «Nazione Indiana» e «Le parole e le cose» appaiono come ufficiali perché sono stati fondati e/o portati avanti da personalità in vista della cultura italiana. Spesso per accedere con propri contenuti a questi siti non basta una candidatura diretta: occorre godere già della stima di alcuni redattori, ancora prima di contattarli. Fuori da internet, «Poesia» di Crocetti, per storia, diffusione e impatto è un canale ufficiale. Poi ci sono canali semi-ufficiali, ovvero la maggior parte degli spazi strutturati fondati “dal basso”: molti dei siti elencati in precedenza, per es. «Poetarum silva», «Lay0ut», «Formavera», «La Balena Bianca», la stessa «Alma Poesia», e blog personali di lungo corso o riconosciuta qualità («Blanc de ta nuque», «Imperfetta ellisse», «La morte per acqua»).
È importante sottolineare che la semi-ufficialità non implica un giudizio di valore: non è raro trovare su questi siti materiali di valore pari o superiore a siti ufficiali. È invece una questione di capitale simbolico, forse non del tutto slegato da una sensazione di elitarismo o difficoltà di accesso: esemplificando sulle case editrici, se dagli editori medi posso sperare almeno di essere letto e ricevere un rifiuto, quelli grandi (Einaudi, Mondadori) non si sa nemmeno come contattarli se non si hanno conoscenze all’interno. Questa è senz’altro un limite, un vulnus democratico: in un mondo ideale, le condizioni di partenza dovrebbero essere uguali per tutti (da qui la mia insistenza su un bacino iniziale allargato e orizzontale nella compilazione delle antologie), e il prestigio e quindi l’ufficialità risulterebbero da fattori intrinseci quali la qualità e la diversificazione o specializzazione delle pubblicazioni, la costanza e crescita di uno spazio, la formazione di una possibile comunità di riferimento (che facendo massa può alla lunga spostare gli equilibri di potere), nonché l’autorevolezza guadagnata sul campo. Spazi non-ufficiali sono infine le pagine Facebook o Instagram private, blog di minor seguito e reputazione, e simili. Anche qui, occorre sottolineare che talvolta il mezzo non ufficiale, per la sua natura pubblicitaria (per es. l’amico che fa da testimonial facendosi fotografare con il proprio libro) può smuovere all’acquisto maggiormente che l’apparizione dello stesso prodotto su un canale ufficiale: dipende davvero dal destinatario, dal pubblico di riferimento.
Di solito i poeti abili a promuoversi cercano di sfruttare tanto i canali ufficiali, quanto quelli semi-ufficiali e non-ufficiali, per arrivare così, rispettivamente, agli intellettuali che detengono qualche forma di potere (per es., l’invito a festival o eventi – canale ufficiale), al lettore preparato e appassionato (canale semi-ufficiale) e al lettore comune (canale non-ufficiale). Ovviamente, è più facile immaginare un effetto gerarchico a cascata dallo spazio ufficiale a quello non-ufficiale, piuttosto che uno in senso contrario dallo spazio non-ufficiale a quello ufficiale.
Vengo adesso alla questione del sottobosco. Il sottobosco poetico (espressione brutta, ma in qualche modo calzante) è quello che non riesce, letteralmente, a ricevere il “sole” dell’ufficialità, e non sempre perché inferiore in statura poetica ai platani e alle querce (fuor di metafora, gli autori affermati). Al tempo stesso è quello dove la mancanza di ambizione permette forse scambi più veri, non viziati dalla prospettiva di dover “arrivare”. Sarebbe ingeneroso tacciare il sottobosco di propagare kitsch e poetese, proprio perché questi materiali non arrivano all’ufficialità, e talvolta nemmeno alla semi-ufficialità; e anche perché la stessa ufficialità non è affatto esente dal kitsch e dal poetese, o quantomeno da un’idea egemonica e passatista di lirica.
La tua domanda è se l’autoreferenzialità, i suoi meccanismi, cambiano nel passaggio dall’ufficialità dei poeti affermati alla non-ufficialità del sottobosco, o dei poeti amatoriali, e se queste categorie non sono in realtà fluide e compenetrabili. Anzitutto definirei provvisoriamente l’autoreferenzialità come mancanza di (se non fuga da) reciprocità e dialogo con i propri dissimili, riconferma dell’esistente, e quindi mancanza di rapporto, tautologia, cortocircuito argomentativo: qualcosa come lasciare intendere ostensivamente, cioè comunicare più o meno implicitamente, «sono qui perché è giusto che sia qui», «sono qui perché valgo», «fidatevi perché lo dico io». Ogni attitudine autopromozionale è inevitabilmente, in certa misura, autoreferenziale. E ovviamente esiste un’autoreferenzialità di gruppo, in cui si portano avanti solo certi autori o idee che inverano prese di posizione etico-estetiche pregresse, per quanto espresse o esprimibili in negativo: in questo senso anche le neoavanguardie e le loro filiazioni (per es. il sito «GAMMM») appaiono spesso autoreferenziali, cioè non criticabili dall’interno delle proprie premesse – colpisce il loro presunto sfuggire anche al paradigma relativista per cui è possibile identificare opere più o meno importanti all’interno di una certa tradizione o attitudine (vd. mia risposta precedente). In altre parole: esiste un manierismo di ricerca, cioè un apparente paradosso logico? La domanda abbisogna di ben altre forze e spazio, ma è comunque importante porsela e a porla agli altri.
Definita così l’autoreferenzialità, credo che questa possa esistere a tutti i livelli: basta che il sistema sia chiuso, cioè indisponibile o poco disponibile a lasciarsi criticare, per produrla. Forse, in quanto forma difensiva – di riconferma di sé – bisogna aspettarsela maggiormente nei canali ufficiali che detengono una certa quota di potere, accademia inclusa.
Infine, postilla sull’essere “troppo dentro”: questo è il convincimento che una presenza social costante sia l’unico modo per sfuggire all’oblio, o addirittura all’invisibilità. Più che di ego ipertrofico, parlerei proprio di horror vacui, di ansia di appartenenza, di insicurezza diffusa. Questo iperattivismo però va spesso a scapito della concentrazione, del silenzio necessari all’incubazione della poesia e delle scrittura, come spiega benissimo Stefano dal Bianco nel suo bellissimo Distratti dal silenzio (Quodlibet, 2019). Riuscire a dedicare settimane e mesi alla scrittura (e prima ancora all’attitudine esistenziale che la rende possibile), da alternare a periodi più intensi di presenza e quindi promozione social, credo sia un buon compromesso fra presenzialisti ed eremiti, per generare opere di qualità, davvero nate dal silenzio, e al tempo stesso farle conoscere al mondo.
Al punto tre, “Un approccio critico troppo legato a una concezione assoluta e astorica della poesia”, tu denunci, di fatto, una scarsa conoscenza o una conoscenza esageratamente parziale proprio tra coloro che dicono di esseri “poeti” e riporti il focus su una delle questioni più dibattute e cioè il ruolo oggi della critica, alla luce anche delle profonde modificazioni che la rivoluzione digitale, nella sua accezione di web literature, ha senza dubbio portato con sé. Vogliamo provare a fare il punto intorno a questa complessa problematica?
La problematica è molto complessa, come dici; e non a caso in passato ho scritto vari interventi sul ruolo della critica: uno è quello già linkato sopra, circa l’esigenza di trasparenza della critica; un altro sono le risposte a un questionario su letteratura e critica su «Le parole e le cose», incentrato su canone e luoghi della critica; poi ci sono i vari editoriali su «In realtà, la poesia», per esempio questo, in due parti, la prima mia e la seconda di Michele Ortore.
Per me l’attività critica consta di due momenti: primo, comprensione della poetica – cioè dell’operazione messa in atto, delle sue finalità e del tipo di mondo che essa presuppone o prefigura – tramite la descrizione stilistica e strutturale; secondo, la formulazione di un giudizio di valore circa il portato della poetica, dell’operazione appena inquadrata. Descrivere e valutare, insomma, verbi a cui rimanda il titolo di un seminario che ho tenuto l’anno scorso per l’Università di Aix-Marseille. Il critico dovrebbe cercare di capire l’opera che si trova di fronte secondo i presupposti impliciti dell’opera stessa, stando al suo gioco, in un certo senso; da qui l’importanza di cominciare da una descrizione formale e tematica, il meno soggettiva possibile. In questo modo, l’opera viene almeno parzialmente compresa, e tale conoscenza partecipata al lettore tramite un linguaggio il più chiaro possibile (fatti salvi i tecnicismi necessari, che possono comunque essere spiegati). Poi però arriva il momento della valutazione, in cui il critico smette i panni dell’accademico che descrive, e indossa quelli del lettore che pretende, per esempio, che la letteratura arricchisca il proprio immaginario, offra forme di conoscenza, di consapevolezza, e via dicendo. Secondo i parametri scelti, certi testi e opere risulteranno nettamente più importanti, rappresentativi o ricchi di altri. Insomma, la critica dovrebbe filtrare e mediare, mediare e filtrare.
La mancanza di filtri e di confronto dialogico stigmatizzata nella risposta alla prima domanda va ricondotta, in ultima analisi, alla latitanza di un’attitudine critica diffusa. I motivi di questa latitanza possono essere molteplici, ma forse i principali sono tre: primo, l’effettivo armamentario richiesto a un critico – conoscenza non solo delle opere ma anche dei metodi per analizzarle e interpretarle – può restare fuori dalla portata di molti redattori e appassionati, magari più vicini alla figura del lettore-giornalista; secondo, l’attitudine snobistica – o pragmatica – di molti accademici di professione, che non ricavano nessun beneficio curriculare dal collaborare con gli spazi virtuali, concentrandosi sullo studio del canone e della storia letteraria; terzo, e forse più dirimente, la solitudine cui va incontro chi osa stabilire gerarchie di valore, fa desistere i più dall’impresa: specialmente se il critico è anche autore in proprio (è il mio caso, per esempio), allora ha qualcosa da perdere nell’inimicarsi chi, essendo da questi stroncato o criticato, potrebbe rifiutarsi di fargli passare la selezione a un concorso, negargli l’invito a un festival, o la pubblicazione in una certa collana. Anche accompagnare la recensione da un sistema di stelline imperniato su vari parametri – come succede che nella rubrica di Roberto Galaverni, il critico de «Il corriere della sera» – potrebbe essere una prima presa di responsabilità nei confronti di autori e lettori.
Questa situazione comunque non cambierà finché non si punterà alla poesia come bene comune superiore alle poesie dei singoli, e cioè fin quando un attacco a un proprio testo o libro venga vissuto come un attacco alla propria persona e non come un atto d’amore nei confronti di un’arte in cui siamo tutti principianti – per la natura stessa dell’atto poetico. Io stesso non ho avuto finora la forza di criticare a dovere i poeti più in vista: nei botta&risposta dialogici e spesso non accomodanti che ho tenuto su «La Balena Bianca», ho cercato (o mi sono capitati) interlocutori appartenenti perlopiù alla mia generazione, con cui è più facile immaginare un rapporto paritario, e presso i quali ho riscontrato, in genere, un’apertura e una disponibilità (al netto di immancabili posizioni difensive, a rivendicare le scelte stilistiche e di poetica compiute) che, forse a torto, mi aspetto di meno da chi abbia un cursus letterario ben delineato, con una posizione da difendere o persino disabituata all’idea di poter essere messa in discussione.
Nel passaggio che riporti nella tua domanda, stigmatizzavo l’essere guidati da «una concezione assoluta e astorica della poesia», ma prima di mostrare come questa sia legata a una carenza di attitudine critica, mi preme rettificare quella mia stessa espressione: nessuna concezione della poesia è in realtà astorica e assoluta; semplicemente, può sembrare tale perché naturalizzata. Il paradigma che ci appare naturalizzato è quello di una lirica intrisa di archetipi, meglio se breve o frammentistica, dove la complessità dei rapporti sociali è rimossa, l’esistenzialismo è generico ed eventualmente corredato da qualche riferimento alla realtà quotidiana e urbana per mostrarsi al passo coi tempi. I tratti stilistici di questi testi sono tanto ovvi che, nei manierismi che affollano i social, è facile codificarli in una grammatica neo-ermetizzante, come una volta mi sono divertito a fare su un post facebook; è questo il paradigma avversato con veemenza da Marco Giovenale, che non esita a parlare di kitsch e di riflusso letterario, per es. qui. Questa egemonia inibisce l’attecchire di un pluralismo poetico autentico e salutarmente conflittuale, impoverendo l’offerta dei possibili poetici: raramente i comitati di lettura mi sembrano apprezzare aspetti come la misura poematica, l’espressionismo, il surrealismo, il barocchismo, l’ironia.
Ecco, la mancanza di attitudine critica si traduce precisamente nella passività derivante dal farsi formare dall’offerta egemone, quasi come un riflesso, senza la curiosità di spingersi a esplorare altri possibili perché più nascosti o perché più radicalmente metterebbero in dubbio gli assunti estetici sui quali ci si è formati.
[1] Nel corso di questo intervento userò il maschile neutro per comodità, nella convinzione che genere grammaticale e concetto di genere siano solo sfortunati omonimi, e non credendo affatto nell’assunto per cui la sovrastruttura della lingua influisca sulla struttura della società in modi così diretti; mi scuseranno coloro che portano avanti la battaglia per un linguaggio inclusivo. Al lettore chiedo il minimo sforzo immaginativo di popolare i sostantivi maschili di referenti sia maschili sia femminili, se non addirittura neutri.
[CONTINUA...]
Davide Castiglione (Alessandria, 1985) è docente di materie letterarie e linguistiche all’Università di Vilnius in Lituania. Si è laureato a Pavia con una tesi su Vittorio Sereni traduttore da William Carlos Williams, e dottorato a Nottingham (Inghilterra) con una tesi sulla difficoltà nella poesia angloamericana, poi divenuta libro (Difficulty in Poetry: a Stylistic Model, Palgrave 2019). Ha inoltre all’attivo cinque articoli scientifici e un centinaio fra note e recensioni sulla poesia contemporanea, queste ultime raccolte sul sito Critica del testo poetico. È inoltre autore di due raccolte poetiche: Per ogni frazione (Campanotto, 2010, segnalazione Premio Montano 2011), e Non di fortuna (Italic Pequod 2017). Una terza raccolta, dal titolo Doveri di una costruzione, dovrebbe vedere la luce entro la fine del 2021. Sue poesie sono state pubblicate su varie antologie e riviste, sia online che cartacee, tra cui «Poesia» (con una nota di Maria Grazia Calandrone), «L’Ulisse», «Il Segnale», «Inchiostro», «Nuovi Argomenti», «Formavera», «Atelier», «Poesia del nostro tempo». È risultato vincitore al premio «Renato Giorgi» nel 2018 (sezione Cantiere) e nel 2020 (sezione Raccolta inedita), e al premio «Irene Ugolini Zolli» per la prefazione al volume Concerto per l’inizio del secolo, di Roberto Minardi (Arcipelago Itaca 2020), nonché finalista al Premio «Lorenzo Montano» per l’inedito (2018 e 2020), e finalista al premio «Poesia di strada», sempre per l’inedito (2020). Ulteriori informazioni si possono trovare sul suo sito personale.
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